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Biografia di una Iena (terza parte)

Ancora capitolo su stereotipi sessisti e violenze sugli uomini. Riceviamo e molto volentieri condividiamo questo racconto che si svolgerà a puntate, di cui adesso potete leggere la seconda parte, dal titolo “Biografia di una Iena” scritto da N., un uomo. Per leggere la prima parte – L’Infanzia – seguite il link. La seconda parte – L’adolescenza parte I° – sta QUI. Buona lettura.

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3- IO E LE DONNE + ADOLESCENZA (parte seconda)

Fino all’inizio delle scuole medie, non consideravo le donne. O meglio: le consideravo esattamente uguali agli uomini, solo con la gonna. Menavano e sputavano come gli uomini; sapevano essere intelligenti e cattive come gli uomini; non mi cagavano, esattamente come gli uomini. Fine.
All’inizio delle scuole medie, iniziando a notare i primi cambiamenti nel fisico mio e loro, comincio a notare che siamo fisiologicamente un pochino differenti, ma loro continuano a non cagarmi più di tot, ed io sono così timido che lascio perdere. Stringo amicizia con un paio di compagne di classe, ma rimane tutto abbastanza formale e non ci scambiamo grosse confidenze, seppure noto un certo cambiamento nei rapporti tra me e l’altro sesso. C’ è solo una bimba più piccola di me di qualche anno con cui vado d’accordo, N.

Un giorno però fa la spia dalle suore dicendo che ha visto me ed altri leggere giornalini porno su al boschetto: la suora chiama tutti a casa e ci sequestra il materiale con grandissima figura di merda e sputtanamento globale totale. La piccola spiona per rappresaglia prende una dose generosissima di calci in culo un po’ da tutti noi, dilazionata nel corso degli anni., però dopo aver imparato che non si fa la spia resterà una mia carissima amica.

Alle superiori cambia tutto: l’universo femminile mi investe come un treno merci, in maniera così dirompente che ancora a pensarci mi sento male. Adoro le mie compagne di classe, anche le più stronzette: adoro sentirle camminare con passi leggeri nei corridoi, adoro quando cinguettano tra di loro in piccoli assembramenti e vorrei essere una mosca per sentire cosa si raccontano. Adoro come si vestono, come sorridono, come piangono, come si emozionano. Adoro quando vanno in motorino (le più emancipate), tutte concentrate alla guida. Adoro quando arrivano in stazione e prendono il treno vestite come suore (a volte accompagnate dai fratelli o dai fidanzati) con quei loro borsoni da ginnastica che contengono capi di abbigliamento molto meno sobri, per cambiarsi poi sul treno.

Sono sveglie, le ragazze: scelgono me come “security” per tenere chiusa da fuori la porta dello scompartimento, in quanto sono abbastanza grosso da dissuadere eventuali marpioni/guardoni e troppo timido per fare io stesso il marpione/guardone. Le vedo uscire, una volta giunti a destinazione, perfettamente truccate e cambiate: minigonne e tacchi, jeans attillati e stivali, camicette scollate. I miei occhi risplendono di gioia, ma mi concedo solo un paio di secondi per ammirarle e poi abbasso lo sguardo per la vergogna. Il fenomeno si ripete, ma al contrario, nel viaggio di ritorno: salgono sul treno come modelle e scendono a destinazione come suore.

Provo un amore sconfinato (platonicamente parlando) verso le donne: le guardo tutte, belle e brutte, magre e grasse, alte e minute, tutte. Cerco in quella brutta un tocco di grazia, in quella bella un tocco di arguzia, in quella grassa un tocco di leggiadrìa e nella magra un po’ di placidità. Sorrido vedendole così spavalde e fragili, così leggiadre, così graziose. Tutte. Cerco di immaginare un mondo senza ragazze e con tutta la mia fantasia non ci riesco. Scrivo poesie e canzoni sulle donne. Dio, grazie di aver creato le donne. Certo, non ho il coraggio di andare di fronte ad una ragazza ed imbastire un discorso per primo, ma loro si accorgono che sono un tipo innocuo e mi danno confidenza quasi subito. Le mie compagne di classe mi adorano e io adoro loro: su 22 ragazze la maggior parte è già fidanzata in casa dall’età di 15 anni, non hanno la minima preparazione in tema di educazione sessuale e si lanciano avventatamente verso un futuro improbabile quanto pericoloso: come non amare tanto ardimento e tanta incoscienza? Io nel frattempo divento il loro consigliere “sessuologico” (io, che non ho ancora avuto un rapporto!), in quanto mi sono fatto una vasta cultura in tema di sessualità sia dai testi di anatomia e fisiologia che ho recuperato in un mercatino dei libri, sia sulla miriade di giornalini porno che ho letto e che leggo.

Le domande sono le più strane: “se il mio ragazzo mi tocca giù, dici che rimango incinta?” – “se pomicio con il mio ragazzo perdo la verginità?” Roba che nemmeno sulle pagine di “Cioè” e “Dolly”. Rispondo ovviamente con grande imbarazzo ma con una certa sicurezza, e glisso su quelle che non conosco dicendo “beh forse dovresti andare a farti visitare da uno specialista”. Scopro con grande disappunto che loro dagli specialisti ci vanno ogni sei mesi da quando “sono diventate donne” perché i loro genitori vogliono avere conferma che siano ancora vergini. Impallidisco, per la vergogna “conto terzi” che provo. Loro dicono che le cose stanno così e bisogna farsene una ragione. A malincuore lascio perdere il discorso. Torniamo ai giornalini porno. Beh, dire che li “leggo” è una parola grossa. Diciamo che guardo le figure. Non sono privo di testosterone, anzi, ma noto la grandissima incongruenza che si evidenzia tra le donne “viziose” dagli sguardi lascivi e dalle pose “acrobatiche” e quelle ragazze sorridenti, solari, scanzonate che incontro quotidianamente.

Qualcosa non torna. Quale delle due è la vera immagine della Donna? Mistero. Nel dubbio, seguo i consigli di chi ne sa più di me, o almeno così mi pare. I miei due consiglieri principali in tema di universo femminile sono rispettivamente un uomo e una donna. L’uomo è G., il francese, quello che attira le donne come mosche (diavolo, è davvero così!) e la donna è mia nonna materna, grande matriarca di casa. Mia madre odia mia nonna, per vari motivi che vanno dall’averla mandata a lavorare “a servizio” da quando aveva 14 anni a quando, di testa sua, mia nonna rimasta vedova e ultrasessantenne decide di scappare via con un altro uomo e se lo sposa pure. Mia nonna, classe 1901, è mezza zingara, è bella per la sua età ed è un donnone forte e muscoloso; mi adora anche se non ne so il motivo. Probabilmente perché sono l’ultimo nato della covata di nipoti, il maschio più piccolo, o forse perché da bambino ero sempre malato, non lo so dire. Però mi adora, ed io adoro lei, e mi parla di questo e di quello. Ovviamente anche di donne.

Le sue frasi più famose sono due, e non le ho mai dimenticate. Queste due frasi, tradotte dal dialetto, sono le seguenti:
1 – “trovati una che ti capisca e che tu capisca”
2 – “l’uomo propone e la donna dispone”

Sul significato della prima frase non trovo nulla da ridire, mentre il significato della seconda mi pare piuttosto astruso. Chiedo chiarimenti e lei precisa che ha un chiaro riferimento sessuale, ovvero che l’uomo può solo “proporsi” (verbalmente) alla donna, ma è la donna che decide se accettare o meno tale proposta. L’uomo non ha altra facoltà che il “proporre”: tutto il resto è violenza. Messaggio ricevuto: proporre e basta. No violenza. Vabbè tanto io muoio di vergogna anche solo a chiedere di andare a mangiare un gelato, figuriamoci il “proporre”…lasciamo stare, va.

Durante le scuole superiori mi avvicino alla politica e frequento molto attivamente la FGCI, decretando ufficialmente la mia appartenenza politica in quanto “comunista”. Papà non è contento ma mi lascia fare. Mamma non è contenta e sbraita da mattina a sera. Io non mi curo di lei e vado avanti. Lascio la FGCI a fine 1986 dopo tre anni di attivismo molto intenso, per divergenze “ideologiche”: non tollero i dogmi. Se uno mi dice di fare una cosa io voglio sapere il perché e non mi accontento di un semplice “per il Partito”. In ogni caso è una bella esperienza e conosco tante giovani compagne attive quanto e più di me, per cui ne deduco logicamente che non sono tutte come le mie compagne di classe, che pure adoro ma che non pensano al diploma e agli studi e all’ambiente e al pianeta ma ragionano solo di fidanzati e futuri matrimoni, anche se hanno sedici anni.

Messaggio ricevuto: le donne politicamente ne sanno quanto e più di me, e sicuramente in un dibattito mi fanno il culo a strisce…Beh certo, con la timidezza che ho, in un dibattito mi farebbe il culo a strisce anche un criceto zoppo e balbuziente, ma non stiamo a puntualizzare. Il concetto era un altro.

Mentre io cerco di capire i confini dell’immenso quanto misterioso universo femminile, accade che papà vince la causa contro l’INAIL e gli assegnano una pensione di invalidità, finalmente, con tanto di arretrati. Lui, forte dei miei ottimi voti a scuola e della mia propensione per la scienza e per la tecnica decide di investire su di me e prende a rate la prima enciclopedia del computer con annesso un Commodore 64. Quando torno a casa e trovo la scatola sul tavolo a momenti collasso. Lui mi guarda serio e mi dice “io sono fermamente convinto che tra venti anni il computer e l’inglese saranno la norma, e chi non saprà padroneggiarli sarà un’analfabeta. Non voglio che tu sia un’analfabeta”. Mio padre. Ha diecimila difetti ma sa guardare lontano, molto lontano.
Quello stesso anno, come una bomba, entra nella mia vita K.

Sono al primo banco e sono da solo, perché i posti a sedere si prendono il primo giorno di scuola e quel giorno il treno arriva in stazione con dieci minuti di ritardo, per cui mi tocca il primo banco. Da solo, giacché siamo rimasti in 29 (una si è ritirata) e i banchi sono a due posti. Pazienza, per me il primo banco è identico all’ultimo. Dopo una settimana ci avvisano che avremo una nuova compagna di classe proveniente da un’altra scuola ed è così che, alla fine della seconda ora di un giorno di settembre, in classe entra K., e si siede nell’unico posto libero: quello di fianco a me.

K. è alta, è bionda, papà italiano e mamma spagnola, magra e nervosa come un fuscello ma con tutte le curve al posto giusto. Ha i capelli lunghi e lisci fino al sedere ed è carina da morire, anche se ha il volto duro, serio. Tutti gli altri maschi della classe probabilmente stanno sbavando come cani di Pavlov. Io no. Io sono imbambolato e la guardo prendere posto di fianco a me tutta seria, e sono così imbambolato che non mi rendo conto che stanno tutti ridendo perché le sto fissando il culo. Cioè, non le sto fissando il culo: sono semplicemente andato in stato catatonico, però gli occhi sono all’altezza del suo culo e sembra esattamente che io..beh, avete capito. Lei si gira, mi nota e senza fare un frizzo mi dice: “porco. La smetti o vuoi un cazzotto in bocca?” Io dico qualcosa tipo “scsm. Nstv…” – “ah, ma allora lo vuoi proprio, un cazzotto in bocca?” – finalmente mi esce un “no. Scusami” e mi metto a fissare il pavimento davanti ai miei piedi con grande intensità, come se ci avessero scritto sopra il terzo segreto di Fatima e io dovessi interpretarlo.

Resto in silenzio fino alla ricreazione, poi mi alzo veloce e me la squaglio a fumare in bagno. Che figura di merda. Che-figura-di-merda.
Dopo un paio di giorni di mutismo mio e di suo totale disinteresse nei confronti della mia persona, finalmente in corridoio durante la ricreazione riesco a dirle “ciao”. Lei come se mi conoscesse da una vita mi chiede una sigaretta. Gliela offro, la faccio accendere e lei se ne va a fumare in bagno senza dir nulla. “Grazie, eh” le dico in un inatteso impeto di orgoglio. Nessuna risposta.

I giorni passano e lei non mi caga nemmeno di striscio, anche se a onor del vero e come magra consolazione, non caga quasi nessuno in classe. Sicuramente non gli altri maschietti, che provano in diversi modi ad avvicinarsi a lei, e nemmeno le ragazze legano tanto. K. se ne sta per fatti suoi, ogni tanto scambia qualche parola con quelli del quinto, ma niente di che. I mesi passano tranquilli e K. è sempre più un mistero misterioso: tutti, maschi e femmine, mi avvicinano durante la ricreazione e mi chiedono che tipa sia. “E che tipa volete che sia”, rispondo – “è una che si fa gli affari suoi e non vuole essere scocciata, ovvio”. Una sera i ragazzi grandi della band mi vengono a prendere per andare in un pub, nella cittadina dove vado a scuola, perché alle 21 danno “The Wall” dei Pink Floyd sul maxischermo. Non ho una lira, ma il Francese lavoricchia e dice che paga lui la birra per me. Ok, andiamo. Arrivati la ci piazziamo in un tavolino strategico da dove si vede benissimo, e dopo un po’ arrivano anche le ragazze dei miei amici. L’unico sfigato da solo sono io. Il film inizia e mi rapisce completamente: è la prima volta che vedo “The Wall” e mi ci riconosco abbastanza.

Non noto che gli altri sono rapiti quanto me nel pub mezzo buio e solo alla fine del primo tempo, quando si accendono le luci, vedo che al tavolo di fianco al mio c’è anche K. con degli amici più grandi. Oh mamma. Lei mi vede con la coda dell’occhio, si alza e viene a sedersi di fianco a me con grande nonchalance dicendomi “ciao, anche tu qui?” e mi stampa un bacio su una guancia. Probabilmente sono diventato rosso come un pomodoro, ma dissimulo e dico “eh si, grazie a questi miei amici…” e glieli presento. C e N restano allibiti, mentre il Francese sfodera un sorriso a 32 denti e le dice “enchanté mademoiselle, vous ètes une très belle fille” (incantato signorina: voi siete una gran bella ragazza) e mi fa un’occhiolino grande come una casa, come a dirmi “alla faccia della timidezza, eh, vecchio marpione?” poi nota il mio sguardo pieno di panico e deduce che evidentemente non mi aspettavo minimamente questa sorpresa, intanto lei per nulla turbata dal belloccio del gruppo, risponde in perfetto francese e si accomoda ancora meglio, rubando noccioline dalla mia ciotola con fare estremamente naturale. Io non ci capisco assolutamente nulla e chiedo, sforzandomi di non deglutire a vuoto dieci volte “ma sei qui anche tu con i tuoi amici?” e lei “no, è mio fratello più grande con i suoi amici. Che palle.

Meno male che ho incontrato te”. Inizia il secondo tempo e ci guardiamo tutto fino alla fine insieme. Mi emoziono molto per il capolavoro dei Pink Floyd, ma molto privatamente, e mi sforzo di non darlo a vedere, ma credo che lei lo abbia notato. Lei è seduta di fianco a me come fossimo amici da una vita. Mi mette anche un braccio sulle spalle. Boh, fino a ieri nemmeno mi salutava. La serata finisce così, con un po’ di chiacchiere neutrali, a parte il suo sincero stupore nello scoprire che io suono in una band. Le dico, punto nell’orgoglio e senza annodarmi la lingua: “guarda che il fatto che io sembri uno sfigato non vuol dire che lo sia: è che ho qualche problema di timidezza e di relazione con le ragazze, tutto qui”. Lei mi sorride e mi dice “non ho mai pensato che tu fossi uno sfigato”, mi molla un altro bacetto su una guancia, saluta e va via con fratello e amici e io vado via con i miei e con le loro ragazze, che hanno un’altra macchina. Durante il viaggio di ritorno mi tempestano di domande e di esclamazioni da maschi arrapati del tipo “accidenti che topolona!” – “una sventola da paura! Ma quanti anni ha?” -”di la verità che le hai messo mano” – “ma hai visto che bel culetto? E che tettine? E che bei capelli?”e altre amenità del genere. Io non solo non mi sento lusingato ma sono visibilmente ancora stupito: le loro battute mi mettono in imbarazzo e non so cosa rispondere.

Il Francese non dice nulla: lui non si esprime mai in questi termini, non usa mai parole volgari e molto raramente dice parolacce; in più ormai mi conosce fin troppo bene e sa che quelle battute invece di trasmettermi cameratismo mi avviliscono e basta. Accompagna gli altri a casa e poi riporta me. Prima di scendere mi chiede “ti piace?” io gli dico la verità “si mi piace da pazzi, ma è una tipa strana e non credo che vada cercando uno come me”- lui, sempre serafico, risponde “non si mai cosa vada cercando una donna finché non lo dice apertamente: non cercare di immaginare i loro pensieri, hanno dinamiche diverse dalle nostre. Semplicemente aspetta, vedi cosa succede, e regolati di conseguenza”. Ecco, ha parlato il Francese Zen di Stocazzo. E dammi una risposta di facile interpretazione, no? Glielo dico pure. Lui per nulla arrabbiato e sempre più serafico risponde “sei ancora piccolo, devi vedere ancora parecchie cose prima di capire, e forse non capirai nemmeno dopo. Dormi bene”. “Altro che Francese: Siddharta ti dovevano chiamare! Fanculo tu, lo zen e la buonanotte: e chi ce la fa a dormire stasera, che il cuore a momenti mi esce dal petto!” – lui sorride e senza ribattere riparte piano con la fidata 126. Ha deciso di essere il mio consigliere sentimentale, e così sia.

I giorni passano e io e K. ci affezioniamo sempre di più l’un l’altra, anche se io vorrei guardarla come il francese guarda le donne ma sono troppo timido, e lei non mi lascia spazi di manovra. In ogni caso ci confidiamo, ci raccontiamo tutto senza pregiudizi, senza giudicare. Lei viene da una famiglia molto autoritaria e tremendamente patriarcale, con un padre molto oppressivo e anche manesco, ed una madre profondamente devota e cattolica che non approva le sue minigonne e i suoi tacchi. Nulla di nuovo sotto il sole: praticamente il 90% delle ragazze che conosco ha una situazione simile. Io intanto mi sforzo di essere un amico obiettivo e sincero e nascondo nel profondo tutti i diversi pensieri di tipo sentimental/sessuale che provo per lei. Del resto, è evidente che non è cosa e se ho imparato una cosa dalla vita finora è che bisogna sapersi accontentare di quel che si ha. K. esce con ragazzi più grandi che hanno la macchina, è molto più matura dei suoi sedici anni e chiaramente io con il mio motorino non posso competere con il tipo grande che le fa il filo e con la sua macchina sportiva.

Non mi piace affatto, non perché lo veda come un avversario, ma proprio perché non mi piace: è superficiale, fa il figo e il tipo duro ma si vede che è solo una patina, una mano di vernice su un muro cadente. So che fa uso di droghe e alcool in maniera piuttosto eccessiva (anche io del resto non sono certo un santo) ed è un piccolo pregiudicato, uno di quelli troppo scemi per poter fare il delinquente ad un certo livello. Lei non sembra accorgersene ed io mi rassegno a fare l’amico e a non dire nulla. Sta di fatto che i due si fidanzano. Un giorno, al bar della stazione prima di entrare a scuola, incontro il capobanda che mi ha salvato il culo dall’aggressione di un anno prima. Siamo diventati amici, per quanto si possa essere amici tra persone di differente età e con aspirazioni e stile di vita completamente differenti. Io lo rispetto senza temerlo e lui rispetta me sapendo che mi faccio gli affari miei e che non me la faccio sotto quando lo incontro, come invece fanno in molti. Prendiamo un cappuccino insieme. Offre lui. Si parla del più e del meno, della scuola, del lavoro che non c’è, di musica e di ragazze. Ad un certo punto lui mi dice “sai, la tua amica?

Quella stangona bionda con cui sei sempre insieme?” Io lo guardo un pochino di traverso con fare interrogativo e dico “che ha combinato?” e lui “lei nulla, ma se continua a frequentare quel testa di cazzo farà una brutta fine. Quello è un piantagrane senza un briciolo di cervello”. Ribatto “guarda, me ne ero accorto anche io, ma che vuoi che le dica? Se solo ci provo me la gioco anche come amica” e lui “no infatti, ti apprezzo perché ti fai i cazzi tuoi e sei uno a posto, però ti volevo solo dire di non immischiarti nelle loro faccende perché quelli, se non è oggi sarà domani, vanno a finire male”. Ringrazio cortesemente ed entro a scuola con un grande punto interrogativo luminoso sopra la testa. Il capobanda si chiama E. e non ha nessun motivo per darmi un avvertimento del genere. Piano piano, ascoltando le varie voci della piccola città capisco il motivo dell’avvertimento: E. conosce bene quel tipo perché gli vende la roba, mentre invece K. è pulita, almeno per il momento. Si, ma perché prendersi la briga di avvertire me? Deduco piuttosto ingenuamente che è perché gli sono simpatico.

D’altronde anche l’anno prima poteva farsi gli affari suoi e invece è intervenuto per togliermi dai guai. La mia autostima guadagna qualche punticino. Intanto, per quel che riguarda K., Che fare? (disse Lenin)…nel dubbio attendo, muovendomi con grande delicatezza e provando a sfiorare il discorso con la mia amica. Nulla da fare. Lei stravede per questo tizio, è sicura che appena diventerà maggiorenne scapperà con lui, andranno a vivere insieme e lei continuerà a studiare, non come il padre che la vorrebbe a lavorare appena dopo il diploma. Gli eventi purtroppo precipitano molto prima della maggiore età: il padre di K. li becca mentre sono imboscati in macchina sotto casa di lui, gonfia di botte la figlia e la manda in ospedale, mentre l’eroico tipo ganzo se la fila a gambe levate. Merda. Il giorno dopo l’evento marino la scuola nonostante la promessa fatta a papà, svuoto le mie magre finanze per acquistare un mazzo di rose bianche (rosse mi sembra fuori luogo) e corro a trovarla in ospedale. E’ smunta e tristissima, un occhio tutto nero, grossi lividi sul collo e su una spalla slogata. Le gambe sono piene di lividi per i calci presi e io mi sento un verme perché pur nella sua infinita tristezza e così malridotta la trovo comunque bellissima e vorrei baciarla.

Mi do mentalmente del “lurido maiale” e ricompongo i miei pensieri. Passiamo la giornata insieme. Le leggo delle poesie di Prevért. Le racconto barzellette stupide. Finalmente riesco a guardarla come dice il Francese, e lei mi capisce, ma il suo sguardo dice chiaramente di no. “Sai, appena esco di qua andiamo a vivere insieme, io e F.” F. è il suo ragazzo. Capisco e non dico nulla. “Le cose si aggiusteranno, vedrai, tempo dieci giorni e mi rivedi a scuola”. Dico di si con la testa ma qualcosa mi dice che le cose non andranno così. Infatti lei non torna più a scuola. Sparisce dalla città con il tipo e ne perdo le tracce completamente. Sono addolorato, non tanto per il mio cuore infranto quanto per lei e per la sua vita ribelle e incasinata. Spero che tutto le vada bene, perché è una ragazza in gamba. Continuo a chiedere di lei, ma nessuno sa nulla. Continuo ad andare a suonare ma non sono più di buon umore, il Francese non mi dice nulla ma mi guarda sempre con occhi comprensivi, mentre gli altri stanno sapientemente zitti, che hanno capito che sono una mina innescata. Ci metto quasi sei mesi a riprendermi da questa botta, buttandomi in concerti improbabili, serate alcoliche, canne, ed esperimenti vari. Riesco ad acquistare una moto 125 enduro tutta scassata ma ancora valida e una sera, dopo aver preso un Roipnol e diverse vodka, mi risveglio il giorno dopo a casa senza sapere nemmeno che strada abbia fatto per tornare.

Buio totale. Ascolto e mi innamoro dei CCCP: “il Roipnol fa un casino, se mescolato all’alcool” (CCCP – “Emilia paranoica”) Grazie, ragazzi, potevate dirmelo prima. Ok, basta droghe, basta esperimenti. La fortuna prima o poi finisce ed io non voglio rischiare. Finisco il terzo superiore e affronto il quarto come un fulmine. La paura dell’AIDS ci sovrasta, ci distrugge, ci annichilisce. Come se non bastassero i suicidi, l’eroina, l’alcolismo e la depressione, ci mancava solo l’AIDS. Fanculo, tanto io sono ancora vergine e dunque il problema mi riguarda solo dal punto di vista scientifico. In compenso in paese tutti mi danno soldi per andare in farmacia a comprare scatole su scatole di profilattici, che loro si vergognano. La farmacista, che è un’amica di famiglia, con sguardo bonario mi dice un giorno: “capisco che sei giovane e pieno di ormoni, ma non ti sembra il caso di esagerare? Cioè voglio dire, il sesso va bene ed è una bella cosa, ma vacci piano che ti esaurisci”.

La guardo stupito, poi collego il tutto al fatto che vado a comprare circa 5 scatole a settimana e scoppio a ridere. “Ma non sono per me! Sono per quei deficienti del paese che si vergognano a venire da lei a comprarli!” Lei scoppia a ridere insieme a me. A parte questi piccoli aneddoti simpatici, generalmente conduco la solita vita, un po’ spenta: qualche ragazzetta entra ed esce dalla mia vita senza troppo impegno mio né loro; sono piuttosto moscio e non ho molta voglia di conoscere persone. Probabilmente sono depresso. A casa, la solita storia di incomprensioni cui sono abituato; in paese non accade mai nulla. Suono, scrivo poesie, vado a pesca. Mi lascio crescere i capelli fin oltre le spalle, con grande disappunto dei miei. “Io sto bene, io sto male, io non so cosa fare – Io sto bene, io sto male, io non so dove andare – Non-studio-non-lavoro-non-guardo-la-tivvù-non-vado-al-cinema-non-faccio-sport.” (CCCP – Io Sto Bene). In realtà studio. E’ l’unica cosa che mi riesce bene, a quanto pare. Nel frattempo divento maggiorenne, e il traguardo che mi sembrava la svolta della mia vita si rivela niente più che “another brick in the wall”, per dirla come i Pink Floyd.

A 18 anni e 3 mesi prendo la patente, giacché noi ragazzi di campagna sappiamo guidare il trattore fin dall’età di 13-14 anni e quindi un’automobile non ci fa così paura. Mio padre con riluttanza mi presta la macchina ogni tanto, ma sa che può stare relativamente tranquillo. I CCCP sono ancora la colonna sonora della mia vita, mentre vorrei che invece lo fossero i Litfiba. Il loro disco “17 RE” è un capolavoro e parla di amori, di sentimenti, di passioni, di fuoco che brucia, mentre i CCCP cantano del disagio, della paranoia, della noia, del dolore e della sconfitta. Vorrei la mia vita come in “Cafè, Mexcal e Rosita” e invece è come in “Morire”: “Non so dei vostri buoni propositi, perché non mi riguardano – Esiste una sconfitta, pari al venire corroso, che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo” (CCCP – Morire). D’estate tornano gli emigrati in Belgio e in Francia, con le loro belle figlie. I grezzi del paese inventano uno stratagemma che trovo a dir poco disgustoso: consiste nell’invitarle ad uscire e portarle romanticamente in montagna a guardare le stelle, dopodiché se andava tutto bene, ok, altrimenti gli dicevano tipo “o me la dai o scendi e torni a casa a piedi”.

Diverse l’hanno data e diverse sono scese dalla macchina. Io stesso ne ho recuperate più di un paio, vedendo tornare ‘sti bastardi da soli in paese. Dico a un paio di loro che una cosa del genere equivale a una violenza sessuale e che passeranno grossi guai. Non mi danno retta, perché anche se sono grosso, loro sono in parecchi e sono dei trogloditi. Pazienza. Ne educo qualcuno. Il Francese, che odia questo genere di cose, ne educa qualcun altro. L’educazione è una gran cosa. Nel giro di un’estate il “simpatico stratagemma” viene abbandonato. Le ragazze ci raccontano che qualcuna è anche andata dai carabinieri ma che le avevano dissuase dal procedere che non c’erano prove evidenti. Bella schifezza. Per fortuna la faccenda non ha seguito, non certo grazie alle forze dell’ordine. Poco tempo dopo, accade che mia nonna cade dalla scale e si rompe il femore: dopo un intervento difficile le mettono una protesi ma ancora non può camminare e viene a stare da noi. Mia madre è sempre esaurita e non va d’accordo con nonna, in più durante la degenza in ospedale le sono venute delle piaghe da decubito e mia madre non ha lo stomaco per farle le medicazioni.

Ci penso io. Anni di laboratorio di microbiologia e corsi di antinfortunistica fanno sì che io abbia una certa manualità con pinze, bisturi e spicilli. Mia madre dice che “è un lavoro da donne” e che “non va bene che un nipote maschio guardi le parti intime di sua nonna”. Sticazzi. Mia nonna dopo un po’ di imbarazzo si lascia medicare come una bambina fiduciosa, ed io sono delicato come una piuma per non farle male. Le piaghe sono profonde e maleodoranti. Il medico mi spiega come tagliare via la pelle morta e disinfettare prima che arrivi la cancrena. Bisogna medicarla almeno due volte al giorno, rimuovendo le garze inserite nelle ferite e sostituendole. I miei zii e mia madre stessa restano stupiti da tanta devozione e professionalità, tanto che i miei zii -stranamente!- mi mollano anche un centone a testa per l’ottimo lavoro svolto. In realtà stanno già conteggiando l’eredità, per quanto piccola essa sia. Mia nonna puzza di morto: lo sento io, lo sente lei, lo sentono i suoi figli.

Ma io non mi arrendo. La tengo lavata, pulita, disinfettata, coccolata e vezzeggiata come fosse la cosa più preziosa del mondo, finché lei non mi dice chiaramente che è il caso di portarla in ospedale, che si sente non durerà assai. Muore in ospedale 5 giorni dopo e lascia dentro di me un grandissimo vuoto. Per sua decisione vuole lasciarmi in regalo la sua fede nuziale. Una mia zia non è d’accordo. Non mollo: se nonna ha detto così, così sarà. Le prendo la fede e me la metto al collo, in una catenina. Il primo che mi tocca prende un cazzotto, occhio. La spunto io, ma nonostante il modestissimo valore economico dell’anello, mia zia non mi parla per diversi anni. Schifosi avidi bastardi. La mia considerazione dei “valori della famiglia” è al minimo storico. Pochi giorni dopo il funerale di mia nonna, un tizio della banda di E. mi dice che il poverino è stato trovato morto nella sua auto con la siringa ancora infilata nel braccio. Non eravamo molto legati ma ci resto malissimo. Ai suoi funerali, il giorno dopo, la gente mormora di tutto: “povero ragazzo” – “delinquente! Se l’è meritato di morire così!” – “eh certo, figlio di genitori divorziati, come voleva finire?” – “ha rovinato tanti giovani”.

Dentro di me penso le risposte che vorrei dare a quelle persone: “si, è un povero ragazzo; no, nessuno merita di morire così; no, nessuno rovina nessuno: la gente è tanto brava a rovinarsi da sola..” invece resto zitto e piango. In realtà piango per mia nonna, piango per me, piango per tutte le esistenze bruciate, per la mancanza di scelte, per le intelligenze sprecate, per l’amore non dato e non ricevuto e per lo squallore che ci circonda. “E voi cosa volete? – Di che cosa vi fate?- Qual è la vostra pena? – Qual è il vostro problema? – Perché vi batte il cuore? – Per chi vi batte il cuore?” (CCCP “Valium, Tavor, Serenase”) Che vita di merda. Un pensiero si affaccia prepotente nella testa: “devo evadere da qui. Non durerò ancora a lungo. Devo scappare”. Si, ma dove?

Il Francese arriva come un vero Deus Ex Machina e mi mette in mano un biglietto per il concerto dei Deep Purple a Roma. Un regalo da parte sua, che ha trovato lavoro fisso in fabbrica e ora può finalmente pagare le rate della chitarra elettrica. I miei non dicono nulla e così partiamo: alla stazioncina delle F.S. ci sono quasi cento ragazzi e ragazze tutti diretti al concerto, così ci imbuchiamo nel treno locale che ci porterà a Roma in poco meno di quattro ore, cantando, ragliando, sfumazzando e bevendo, finalmente evasi dal carcere sentimentale, morale e geografico che ci circonda, almeno per un giorno.

Posted in Anti-Fem/Machism, Disertori, Narrazioni: Assaggi, Personale/Politico, Storie violente.


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  1. Che tipo di macchina del caffè potrei usare per fare un caffè analogo a quello del bar? linked to this post on Agosto 21, 2012

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