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Sento proprio che non ne uscirò mai

I disturbi alimentari non riguardano solo le donne. Haberman, un ragazzo, ci racconta di se’ a contributo delle “Storie di Dipendenze” che raccolgono per ora le autonarrazioni (Diario di una bulimica) di EreticaEve, le voci raccolte da Antonella, di Valentina. Dal personale al politico perché anche di questo bisogna parlare. Se volete partecipare al nostro progetto e contribuire scrivete a fikasicula[at]grrlz.net. Buona lettura!

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Sono passati ormai dieci anni dall’inizio di tutto. Da quando decisi che il mio corpo sarebbe dovuto cambiare, adattandosi alla mia mente (e, in parte, a quella degli altri).

Da allora, non gli ho lasciato un attimo di pace: specchio fedele di ciò che covo dentro, si è adattato alle diverse fasi della mia – per quanto breve – vita. L’ho forzato, e lo forzo tutt’ora, dentro uno schema teorico impossibile da rispettare per chiunque altro; ma non per me.

Con il senno di poi, posso dire che difficilmente avrei potuto fare altrimenti: la storia ce l’abbiamo scritta dentro, e non è possibile rimuoverla del tutto. Non è una giustificazione (anche perché giustificare il proprio malessere è da coglioni), ma una semplice costatazione di come non abbia il diritto di scaricare le colpe a qualcun altro/qualcos’altro.

Ciò che mi fa accettare i miei comportamenti è la consapevolezza che, benché ci siano molti mezzi teoricamente a disposizione per lottare contro la bulimia, la maggior parte siano, in definitiva, inutili: sono io a non volerne uscire del tutto. Come nel protagonista di “A Beautiful Mind”, non si tratta di sconfiggere la malattia, ma di conviverci, guardandola ogni giorno negli occhi senza cederle.

Il fatto di non poterne parlare quasi con nessuno, se a volte sembra un’ulteriore croce, si manifesta in realtà come una delizia, perché mi permette di proseguire in questo stato galleggiante senza dovermi giustificare. Del resto, siamo noi i migliori giudici di noi stessi.

Tutto ciò che sento dire dagli altri è solo merda: come per il tossicodipendente, chi è affetto da un disturbo alimentare è impossibile da comprendere per le persone “normali”. Non c’è una causa originaria a cui appellarsi, non c’è una via d’uscita: la vita è un flusso di coscienza, e cercare di separare il paragrafo della bulimia è un’operazione anti-letteraria, sacrilega.

Spero di non arrivare mai a essere orgoglioso della mia diversità malata, ma sono certo che sarà una delle caratteristiche che mi permetterà – paradossalmente – di rimanere a galla, in questo mondo piatto. Forse, come dice Eve Blisset, non è inopportuno politicizzare questo schifo che ho dentro, rendendolo in qualche modo un’arma contro l’omologazione e la passività.

Il fatto di essere maschio – col fisico di un efebo, comunista, femminista, ma pur sempre un maschio – è un’aggravante. Una volta il padre di una ragazza anoressica mi ha detto: non esistono maschi con disturbi alimentari, non ti credo; nei suoi occhi c’era solo rabbia, contro di me che mi permettevo di essere malato. A quell’uomo, se lo incontrassi oggi, risponderei così.

Non sono malato, è vero, bensì privilegiato: ho la fortuna di poter vedere le cose in maniera diversa. Estirpare definitivamente la bulimia sarebbe una resa; per questo, sento proprio che non ne uscirò mai.

Haberman

Posted in Narrazioni: Assaggi, R-esistenze, Storie di dipendenze.


One Response

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  1. giovanni says

    massimo rispetto !