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Non possiamo delegare ai giudici la lotta contro la violenza sulle donne!

Articolo del Sole24Ore, di quelli che scatenano il flame e l’indignazione da tastiera. Tanti click su facebook, tante considerazioni più o meno sensate o insensate.

Non si trova la sentenza intera sul web o noi non la troviamo e dunque parliamo dell’articolo. Perché di comunicazione sulla violenza sulle donne è bene occuparsi, così come ce ne occupiamo sempre.

Titolo sensazionalistico, stesso taglio di quell’ondata di titoli che hanno fatto sbagliare tante, qualcun@ di noi inclus@, nel determinare che una soluzione di un certo tipo sta per depenalizzazione o cose di questo genere.

Motivi per realizzare titoli del genere ce ne possono essere tanti. Usare le donne, la rabbia delle donne, l’indignazione delle donne, che spesso si confonde con certa indignazione giustizialista, per fare audience, più click, più introiti pubblicitari, più fama e gloria, più soldi. Mercificare il dolore e la violenza sulle donne: è una cosa che i quotidiani fanno. In generale dico, non sto dicendo sia questo il caso, ma è un argomento che certamente “tira”.

Poi: fotografia che sembrerebbe contraddire il titolo. Parli di un uomo violento ma metti un’immagine in cui lei ha la bocca perfino più spalancata di quella dell’uomo? Di che si tratta dunque? E’ lui il violento o è una coppia che sbraita?

L’articolo correlato, ove per articolo correlato si intende un pezzo che in qualche modo sia attinente, c’entri qualcosa, abbia un riferimento anche vago con l’argomento trattato. Volendo immaginare che il quotidiano sceglie i correlati tramite un programma che indicizza alcune parole chiave mi chiedo con quali parole chiave sia stato archiviato un articolo che parla di fuggiaschi che mollano all’altare e di risarcimenti. Il termine è “sentenza”? Sfugge al Sole24ore che siamo nell’epoca del web semantico, le categorie e le tag eccetera eccetera e che se a parte il termine “sentenza” metti anche “violenza” forse ti viene fuori qualcosa di veramente “correlato”. Ma passiamo avanti.

Di che si parla? A prima vista sembrerebbe che una accusa o una condanna per tentato omicidio sia stata “mitigata” e trasformata in una accusa per maltrattamenti.

Non entriamo nel merito della faccenda. Non ci interessa misurare il metro delle pene e delle detenzioni. Serve capire.

Chi scrive l’articolo usa il termine “capofamiglia” che pure non esiste più con le nuove norme di diritto. Poi parla sostanzialmente del fatto che viene riconosciuta la provenienza culturale del soggetto, sudamericano, quindi, boh, forse ritenuto “geloso” e caliente per “cultura” e tanto basterebbe a farlo ritenere mediamente giustificato per i comportamenti che usa nelle relazioni.

Credo che una sentenza del genere, con riferimenti alla provenienza culturale del soggetto, abbia riguardato un italiano in Germania perché sardo, o forse confondo due episodi diversi ma il senso è quello.

In ogni caso non conoscendo i dettagli giuridici della vicenda dall’articolo parrebbe che maltrattamenti+aggravantiperfutilimotivi sta per tentato omicidio. Siamo sicure che sia così? Chiediamo aiuto a chi si occupa di queste cose e sia aggiornat@ sulla legislazione in materia. Potrebbe essere soltanto che, appunto, come è accaduto per la faccenda della sentenza che riguardava la carcerazione preventiva dello stupro di gruppo, descritta dai media come “depenalizzazione”, si trattava pur sempre di una accusa di maltrattamenti+aggravanti che senza le aggravanti comunque resta ugualmente una accusa per maltrattamenti. No? Dateci conferma, per favore.

Di fatto gli unici virgolettati che l’articolo riporta non chiariscono moltissimo a parte sottolineare la questione del giudizio commentato con considerazioni bizzarre sulla appartenenza culturale del soggetto. Come a definire una etnicità che distingue persona da persona, base di per sè rischiosa nella trattazione del diritto, perché se ci si riferisce a ciò di cui si è convinti a proposito dei contesti di provenienza delle persone si possono attenuare o aggravare giudizi in base alle proprie opinioni personali, in base all’etnia, alla pratica religiosa, al genere, alla appartenenza politica o ideologica. Tanto per dire: significa che quando saranno messi a confronto due delitti, di eguale entità, uno commesso da un uomo e uno da una donna, se il giudice è convinto che l’uomo sia per cultura (e natura?) più tendente alla violenza e la donna un po’ meno, perché riconosciuta come più materna, più dedita alla cura, giudicherà più grave il gesto compiuto dalle donne invece che quello dell’uomo.

Se si riterrà un uomo per cultura e natura predisposto a produrre sex assault, aggressioni sessuali, perché non in grado di resistere alla vista di corpi di donna spogliati e ad atteggiamenti seduttivi (magari rivolti ad altri o altre), considerati quali “provocazioni”, e si considererà una donna come soggetto passivo nella gestione della sessualità, priva di desideri e stimoli di eguale entità, giudicando un crimine di natura sessuale: la società, prescindendo dall’attenzione patriarcale alla sorveglianza dei corpi di donna di proprietà dell’uomo, giudicherà più grave ciò che compie una donna anche quando è vittima. Lui è il soggetto debole. Lei è considerata quella che agisce la violenza sempre e comunque, perché la subisce e la provoca e dunque, di conseguenza, si ritiene che la compia.

I ruoli. Gli eterni ruoli stereotipati che ci incastrano sempre. Non è forse questo il motivo per cui un uomo che uccide un figlio o una anziana (madre o moglie della quale dovrebbe prendersi cura)  sia considerato sempre più giustificato di una donna che maltratta un bambino, un anziano, una persona della quale si prende cura? Vi torna?

Sostiene comunque l’articolo che:

I futili motivi ricorrono solo quando «la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato rispetto alla gravità del reato da apparire, secondo il comune sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa» tanto da sembrare addirittura un «mero pretesto» per fare del male. Nel valutare questi parametri, inoltre, si deve tenere conto di con chi si ha a che fare, cioè «delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, del contesto sociale e del particolare momento in cui il fatto si è verificato, nonché dei fattori ambientali che possono avere condizionato la condotta criminosa». Tradotto nel caso specifico: la gelosia non è un’aggravante, quindi la pena deve scendere di qualche mese. Come dire, da «tentato omicidio» a «buffetto giustificato».

Non so voi ma io decisamente ho capito poco. Dice che “i futili motivi” ricorrono quando il contesto culturale non esorta o legittima così tanto il maltrattante e che invece quando culturalmente egli è condizionato tanto ma proprio tanto significa che non è grave quello che ha fatto?

Se è vero ciò che afferma l’articolo, certo, è abbastanza curioso che una sentenza sostanzialmente dica che allora tutti gli italiani, cresciuti a sessismo e titoli di quotidiani che chiamano il femminicidio “delitto passionale” siano più che giustificati per ciò che fanno perché è come se qualcuno considerasse che essi vengano ogni giorno sottoposti ad una influenza di mentalità anacronistiche e ad un bombardamento mediatico, che sortiscono l’effetto di una arancia meccanica alla kubrick su ciascun@, tali da immaginare che una pena detentiva non possa essere una soluzione. E in effetti non lo è. Perché non è il giudice che può risolvere un problema “culturale”. Prima cambia la cultura, poi si annullano gli stereotipi, poi le leggi e poi il suo ruolo. Il contrario, dove il giudice fa cultura e legge, come succede in alcune legislazioni di paesi a tendenza autoritaria degli stati uniti, avrebbe un senso? Ce l’ha?

Come può una pena detentiva risolvere un problema di mentalità che va affrontato invece che in termini repressivi e securitari in altre modalità che affrontino la questione in senso culturale?

Allora, a parte la bizzarria in sè, ma non sappiamo se davvero il giudice si riferisse all’etnia o alla cultura del contesto in cui è vissuto l’individuo, quello che il giudice sta facendo è suggerire – forse – che la soluzione vada cercata altrove ché non può essere una giustizia punitiva a riparare danni che vanno risolti in senso preventivo e alla radice. In fondo sta dicendo che la “giustizia” in certi casi proprio non può fare nulla e che bisogna risolvere tutto in altro senso.

Se è questo quello che ha affermato il giudice potremmo perfino essere d’accordo e smettere di arrabbiarci per sentenze che ci sembrano culturalmente inadeguate ed è tanto strano che giusto un giornalista, un rappresentante della categoria, non lui in quanto tale che ci sembra tanto preoccupato per la sorte delle donne, ma uno di quelli che occupa spazio sui media mainstream, i #mediacomplici, che producono un danno enorme in termini educativi a formare quella stessa cultura e mentalità che legittima i violenti, non colgano il messaggio e non capiscano che il ruolo risolutivo di queste faccende non può essere delegato ai giudici. Non per intero.

I giudici sono parte di una struttura sociale complessa e per confermare la propria laicità e non diventare detentori di un potere unico nelle proprie mani anzi dovrebbero ribadire più spesso che queste cose vanno risolte altrove e in altro modo, non con la giustizia fai da te, con il linciaggio al quale il giudice parrebbe essere l’unico che possa sottrarre un presunto colpevole, come fosse più che un deterrente alle azioni criminali piuttosto un dissuasore alla violenza estrema che potrebbero mettere in atto coloro i quali coltivano intenti di odio e violenza cieca contro il mondo. Bisognerebbe risolvere invece con la complicità costruttiva e responsabile di tutti, laddove ai giudici viene delegato tutto e certi giudici assumono specificamente il titolo di simboli perfino della società civile decretando che essa stessa non abbia altra funzione se non quella di fare il tifo per qualcun@ di loro o di volersi sostituire a loro (con i linciaggi e la forca, come sopra) se non intervengono. Giudici politicizzati che emettono sentenze assolutive di comportamenti sociali o punitive di azioni di dissenso. Regolatori a difesa delle istituzioni sempre e comunque anche quando le istituzioni fanno schifo e a punizione di chiunque osi mettervisi contro.

L’errore è ritenere perciò che i giudici siano quelli che danno risposte in tutti i sensi ché a me spaventa e spaventerebbe se fosse così e infatti io da loro non mi aspetto nulla. Sono umani, sbagliano, fanno cazzate e fanno ogni tanto cose condivisibili, ma la mistica dell’eroe giudice e giustiziere, simbolo patriarcale, so anche da dove nasce, da una visione fascista del diritto e dalle terre di mafia dove si creano eroi e si deresponsabilizzano parti sociali, con cittadini e cittadine che possono assumere solo un ruolo non autodeterminato e dunque passivo (altrimenti sono mazzate!), dove quelle che dovrebbero essere alleanze diventano deleghe a perdere che creano uno sbilanciamento di condizioni dove c’è chi dovrebbe rappresentare tutto e chi più niente.

E anche da parte delle donne, coerentemente a quanto diciamo da decenni, incluso in quella grande (e criminalizzata dalle donne di partito e dalle vecchie femministe modello Snoq tipo la Marai, buonanima) manifestazione contro la violenza sulle donne del 2007 e iniziative successive, è assurdo che si riduca la richiesta a soluzione di un problema così complesso a provvedimenti securitari, a vittimizzazione forzata e a richiesta di “tutele”. Dovrebbe essere più chiaro il concetto di autodeterminazione nelle lotte ma così non è. E questo non va bene. Non possiamo delegare la lotta contro la violenza sulle donne ai giudici, alle istituzioni totali che sono le stesse che vengono usate per massacrare noi. Come metterci sullo stesso piano di quelli che usano la psichiatria autoritaria per reprimere le nostre istanze di libertà e per patologizzare la nostra lotta per una reale uguaglianza sociale.

Le soluzioni sono sociali. Le donne vengono maltrattate per questioni culturali, da uomini, ma è la cultura che può modificarne  gli atteggiamenti a meno che non riteniamo, e noi non pensiamo questo, che gli uomini siano violenti e stupratori e le donne vittime per natura. Non c’entra il genere. In un’epoca in cui i generi in versione queer sono poi riconoscibili in tant*. E’ la cultura, l’economia, l’antiautoritarismo, l’educazione differente.

Alcune cose le abbiamo scritte QUI. E per il resto noi, e tante altre persone come noi, la responsabilità che quel giudice invita ad assumersi ce la siamo assunta da molto tempo e infatti – come tante altre sorelle e compagne che faticano ogni giorno – di comunicazione e cultura ci occupiamo. I media mainstream, prima di cercare l’elemento sensazionalistico sulla sentenza e sul lavoro dei giudici, dovrebbero guardare a ciò che li riguarda.

Ci spieghi il sole24ore: che significa quella fotografia ambigua a corredo dell’articolo che parla di maltrattamenti sulle donne?

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Posted in Comunicazione, Critica femminista, Omicidi sociali, Pensatoio, Scritti critici.


One Response

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  1. Paolo84 says

    In base a questa sentenza un uomo svedese che picchia la moglie sarebbe più grave poichè il suo background socio-culturale non lo “giustifica”? Messa così mi pare una gran cavolata, per giunta razzista (in pratica si sta dicendo che tutti i sudamericani sono portati a picchiare la moglie), la legge deve essere uguale per tutti, e una persona capace di intendere e volere che commette un reato deve essere condannata, senza godere di attenuanti o aggravanti in base a nazionalità o cultura di origine.