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Divorzi, suicidi e disoccupazione: paternalismi statistici ed ecclesiastici!

Due notizie. Sono strettamente connesse alla questione economica, a suicidi, gestione del welfare, riforme del lavoro, flessibilità.

L’Istat denuncia  – così come è emerso dall’ultimo censimento – il fatto che a risentire maggiormente della disoccupazione siano donne e giovani, il sud piange lacrime più amare. Nulla di nuovo. Rispetto ad altri paesi europei le coppie in cui le donne non percepiscono alcun reddito si contano per il 33,7%. Di queste l’Istat racconta una situazione anacronistica:

Nelle coppie in cui la donna non lavora (30% del totale) è più alta la frequenza dei casi in cui lei non ha accesso al conto corrente (47,1% contro il 28,6% degli uomini); non è libera di spendere per sé stessa (28,3%), non condivide le decisioni importanti con il partner (circa il 20%); non è titolare dell’abitazione di proprietà”. Inoltre le moglie separate o divorziate sono più esposte al rischio di povertà a fronte dei mariti nella stessa situazione: 24% contro 15,3%.

Se a questo sommiamo il fatto che esiste uno stato di precarietà diffusa e oggettiva che permea tutta la società e che riduce, e non di poco, la possibilità di fruire di quella che per il ministero al welfare pretende sia l’ammortizzatore sociale in assoluto, ovvero la famiglia, troviamo che la ricaduta dello stato di disoccupazione e di precarietà di tutta una serie di soggetti coinvolga un po’ tutti, siano essi genitori, padri, madri, mariti, ex mariti.

Il disegno è abbastanza chiaro: si risolve la crisi lasciando in casa le donne destinate ai lavori di cura e attribuendo diritti retributivi e tutto il carico di mantenimento agli uomini. E questo dato si estende alle fasi successive il matrimonio con tutto ciò che ne consegue.

Nelle case ci sono donne e uomini depressi. Spesso sono gli uomini a suicidarsi e frequentemente lo fanno portandosi dietro tutta la famiglia. Ma si suicidano anche le donne anche se bisogna contestualizzare e prendere atto di una situazione differente. A parità di condizioni le donne che si deprimono e si suicidano sembrerebbero essere disancorate dagli obblighi di cura. Le donne disoccupate, più spesso, parrebbero trovare un senso, una forma di utilità, un riconoscimento, a prescindere dallo stato di disoccupazione, per quanto io sappia che ci sono tante donne che si sentono mortificate nel dover dire che sono disoccupate. Per gli uomini, invece, giacché quei compiti di cura sono meno ambiti, spesso non riconosciuti socialmente, sarebbe più complesso trovare un’utilità oltre il ruolo residuale che lo Stato e il mercato economico gli hanno destinato di produzione e mantenimento.

Per le situazioni che io conosco i legami in cui lei non lavora durano più rispetto ai legami in cui è lui a non lavorare. Dove lui però, per quanto io ho visto, non è esattamente uno che si occupa, in assenza di altro da fare, della casa, dei figli, e di tutto ciò di cui più spesso si occupano le donne.

Ho visto coppie andare in frantumi perché lui, disoccupato, forse depresso ma anche no, restava per ore a guardare la televisione o a giocare ai videogames mentre lei trascorreva tutto il giorno correndo a destra e a manca, dalla mattina per accompagnare i figli a scuola e poi a pranzo per cucinare e poi a lavare e stirare e pulire e rassettare e lavorare e pensare alla parente malata e a mille altre cose e poi occuparsi anche di quell’uomo incline al broncio e al malessere per non vederlo crollare.

Diversamente quando lei ha un problema si medicalizza quel bisogno, si attivano sostituzioni fino a quel momento rimaste in panchina, arriva la madre, la figlia, la sorella, la suocera, la zia, e questa cosa può andare avanti per un po’, tessendo una rete di sostegno alla cura del coniuge e dei figli, perché è importante che una donna non molli mai il suo compito ché altrimenti vengono chiamate subito le sostitute, e in tutto ciò c’é lui che può adoperarsi per il lavoro e per un sostegno morale. Gli viene un minimo più facile a queste condizioni. Ma parlo di un tessuto sociale molto particolare e non so se questa cosa si può estendere dappertutto.

Altrove ho visto lui che si prendeva cura di lei e che lasciava il figlio dalla suocera o dalla madre ma per il resto si scapicollava per far quadrare tutto. E questo, quando accade, viene più o meno sottolineato da quella rete sociale che giudica lei colpevole per aver abbandonato la postazione del ruolo di cura e aver delegato a lui, lì venerato come fosse un santo, tutto il delegabile.

L’uomo che si assume delle responsabilità in famiglia, intendo nei contesti patriarcali, lo si reputa effettivamente un santo. La donna che quelle stesse responsabilità se le assume e le svolge tutti i giorni viene data per scontata. Una defezione diventa imperdonabile. Di contro se le donne sono disoccupate, ovvero non hanno un lavoro retribuito, trovano un senso in famiglia e se gli uomini vivono la stessa situazione il peso della questione ricade tutto su di loro.

So che è complicato come ragionamento, o forse no, ma quello che voglio dire è che la situazione attuale, qualunque sia la cifra che dà l’Istat, non può non essere letta tenendo conto dei fattori culturali che sono determinanti per l’agire di uomini e donne nella società. Di fatto abbiamo un’emergenza sociale che parla di eccessiva precarietà e di assenza di lavoro. Per tutti. E queste letture paternalistiche di chi classifica le donne (dentro la coppia: come se fuori, dove il nemico non può di certo essere il coniuge, l’uomo, si stesse meglio) come fragilissime e sempre bisognose di tutela non ci fanno un favore. Anzi. Spostano l’attenzione. Ci usano. Salvo poi non includere nella memoria mediatica e statistica del paese le volte in cui le donne – disoccupate – marciavano e rivendicavano – non contro i mariti ma contro i datori e le datrici di lavoro e contro i ministri e il governo – un impiego e un reddito autonomo e sono state punite e offese e negativamente stigmatizzate per questo.

In questa situazione di disparità economica tra classi medio/alte e piccoli uomini/donne che tirano a campare: continuare a produrre riforme economiche e del lavoro che privilegiano le più abiette e oscene politiche liberiste che guadagnano un lasciapassare millantando qualche minimo privilegio di stampo paternalista per le donne (incentivi alle assunzioni, assolutamente inutili, così come incentivi all’imprenditoria femminili, anche quelli inutili e dirottati spesso dove non servono), alimenta solo le divisioni sociali. Le divisioni tra uomini e donne quando invece dovremmo essere tutti uniti e in lotta contro chi ci riduce in questo stato. E questo è certamente funzionale ad un fatto preciso: alimentare le divisioni sociali tra uomini e donne, così come tra italiani e stranieri, sposta i motivi del rancore lontano dal vero luogo del conflitto. La divisione oggi è di classe e le decisioni sulla nostra pelle le prende il governo e i ricchi industriali/imprenditori ad esso collegati.

L’altra notizia – glissando sui festini che coinvolgevano personale del Vaticano – riguarda una dichiarazione del Cardinale Bagnasco che – tra le altre scontatissime cose – sostiene che il divorzio breve sia una brutta cosa.

Ho sempre ritenuto cheper regolare meglio tutta la materia che riguarda il divorzio (così come per riequilibrare diritti/doveri di genitorialità) bisogna certamente tenere conto del fatto che per impostazione culturale, prevalentemente cattolica, in Italia il divorzio viene reso difficile perché se le regole vengono imposte a rispetto di convenzioni sociali dure a morire, estendendo la responsabilità di mantenimento dell’uomo perfino oltre il divorzio e i ruoli di cura della donna allo stesso modo, poi, entro queste regole ciascuno/a le agisce sulla base di varie personali inclinazioni, e senza voler attribuire stereotipi di genere, mi pare il punto sia che i ruoli debbano essere reimpostati, che gli uomini devono essere sgravati del peso di tutta l’economia familiare e che le donne devono essere sgravate del peso di tutti i compiti di cura. In entrambi i casi io vedo l’assunzione di un potere agito più o meno bene/male ma sempre di un potere si tratta. A partire da questa consapevolezza dovrebbe derivare, credo, il riconoscimento dei diritti di parità genitoriale, di parità lavorativa, sociale, economica. Senza vedere una delle due questioni mi pare sia complesso vedere anche l’altra.

E questi temi io li vedo come strettamente correlati alle nostre battaglie contro la precarietà e anche in direzione di una gestione di corresponsabilità dei ruoli genitoriali che vanno di pari passo alla questione dei congedi parentali (non obbligatori) per entrambi i genitori, ovvero dei diritti di parità genitoriale agiti anche ed eventualmente prima di un divorzio.

Tutto ciò è strettamente connesso al tema economico per la questione della dipendenza, del mantenimento successivo o del proseguimento di una esperienza matrimoniale solo in virtù del fatto che la famiglia debba essere unica e indissolubile. Posso capire il fatto che Bagnasco voglia insistere sull’uso della famiglia come ammortizzatore sociale, come se fosse quella la modalità per prevenire suicidi, senza curarsi però dell’alto numero di delitti familiari [leggi statistiche], o leggendoli in modo sbagliato, ma rendere il divorzio un calvario, pieno di trappole che non fanno bene a nessuno, incluso il mantenimento, non farà diminuire i divorzi.

Dopodiché il punto resta che ciascuno dovrebbe poter godere di una indipendenza economica e che il lavoro è la risposta sociale in molte situazioni di disagio. Inclusa quella delle donne successiva ai divorzi. Personalmente non vorrei aver bisogno di essere dipendente economicamente da un mio eventuale ex. Vorrei essere autonoma e poter lavorare perché la dipendenza economica genera sempre dei mostri.

Il welfare deve essere riorganizzato attraverso una redistribuzione del lavoro di cura e l’assegnazione del lavoro sulla base delle competenze (ho detto competenze e non “bella presenza”, l’immagine, o il genere sessuale). Accade già che i lavori di cura, per quanto riguarda i figli per esempio, siano gestiti da entrambi i genitori ed è lo Stato a dover fornire servizi di sostegno alle famiglie, con asili, reddito minimo e se lo Stato non provvede e scarica tutto sulla coppia è chiaro che diventa una guerra tra poveri.

Allo Stato e al mercato economico conviene delegare agli uomini il mantenimento della ex moglie che aveva dovuto lasciare un lavoro per crescere i figli, per esempio. Perché non dovrebbe essere lo Stato a risarcire il ruolo di cura dato che esso ha una utilità sociale ed economica non di poco conto? Se non si cambia prospettiva le donne resteranno sempre dipendenti. Al lavoro non si dovrebbe mai rinunciare. Il lavoro è un diritto e non una scelta. E’ una scelta solo se sei ricca e campi di rendita e non quando la società ha elaborato un piano per farti fare figli e farti restare a casa a svolgere – appagata – lavori di cura mentre lui produce, retribuito, e ti mantiene in una logica programmata di obbligo dei consumi.

Bisogna provvedere a se stesse e se il lavoro non c’è è quello il punto. E’ lo Stato, come forma risarcitoria per ciò che qualitativamente tu produci a prescindere dalla tua disoccupazione, che deve provvedere e non un tutore, marito o padre che sia, che assumerà altrimenti un controllo e un potere sulla tua vita. L’indipendenza non passa mai per la delega e la tutela accreditata a qualcuno. Questo lo sanno le tante Malafemmine in lotta contro la precarietà che non vogliono dipendere da nessuno, che fanno tre lavori per mantenere figli e per non pesare sulle famiglie, che denunciano ogni giorno quello che vivono e che non restano zitte e lottano e manifestano e rivendicano e sono stufe di essere additate perché a 35 anni NON vogliono fare figli e NON vogliono cedere alla tentazione di accasarsi con chiunque “purché sia” per unire il proprio disagio a quello di qualcun altro.

Sono tante e non sono sposate né hanno voglia di farlo. Non considerano l’Istituto del matrimonio neppure una prospettiva plausibile e vengono quotidianamente ostacolate e spinte e sollecitate in quella direzione affinché ricoprano quel ruolo preciso, riproduttivo e di cura, perché per le tante ragazze che NON vogliono assolvere quei ruoli esistono altrettanti fidanzati che cultura vuole siano spinti a immaginare un futuro solo nella convivenza e nella riproduzione (vedi target pubblicitari che indicano uno status/obiettivo solo nell’avere accanto una donna, figli, più automobile e merci varie). Ruoli invertiti? Il disorientamento e il disagio produce dipendenza e dove manca la libertà di scegliere se stare insieme o meno i disagi chiedono comprensione e certi uomini che questo disagio lo vivono piuttosto male, costretti come tanti a restare con i genitori in età adulta, vorrebbero essere accolti da donne che sembrano tanto più forti e tanto più autonome, come per godere di una sorta di autonomia riflessa. Ma queste sono solo congetture. Anche lì tratte da esperienze di persone che conosco.

Le ragazze che non vogliono comunque sposarsi né fare figli sono tante, lo so per certo, e sono continuamente sollecitate da una cultura che vende loro il modello unico (etero) di famiglia, che le giudica sbagliate e scapestrate se non si sono ancora accasate a 30 anni, che rende la loro sessualità un vero inferno costellato di punizioni morali (oggi ricorre l’anniversario della legge 194) perché non finalizzato alla riproduzione (di figli italiani) e non vissuto all’interno di un matrimonio. Questo avviene ancora nel 2012. L’anno in cui ancora la chiesa ci detta le regole su come deve svolgersi la nostra vita. Sarebbe anche il momento di dire basta, no?

Posted in Anticlero/Antifa, Critica femminista, Omicidi sociali, Pensatoio, Precarietà.


7 Responses

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  1. Ale says

    35 anni, non sposata e NON intendo farlo, non ho figli/e e NON intendo averne.
    disoccupata in Italia. Prossima a lasciare il paese per la seconda e spero ultima volta.

  2. Mary says

    Pensa che uno una volta mi fa:
    “sei sposata?”
    e io: “no”
    Lui: “Alla tua età?”
    Io: “ma se ho 24 anni!”
    Lui: ” a 24 anni dovresti essere già sposata”
    Ma io dico, sarà il mio paese un pò arretrato ma cavolo, possibile che una donna superati i 20 anni sembra che debba sposarsi per forza? Io ho parecchie ex compagne di classe delle medie, elementari, superiori già sposate con figli che nemmeno sanno come campare un figlio perchè non lavorano e nemmeno i mariti di alcune di loro che nella maggior parte dei casi hanno la loro età.
    Ma po a parte questo io sono stufa di vivere in un Paese che mi giudica una donna poco completa perchè non voglio fare figli (e non perchè ho 24 anni ma non li farò mai perchè non ho l’istinto materno) e non vorrei mai sposarmi.
    Scusate lo sfogo.

  3. Mary says

    Una situazione degna di paesi del terzo mondo come l’Afghanistan e simili.
    E pensare che le donne in italia lavorano, lavorano eccome solo che i lavori che facciamo non vengono retribuiti e io parlo di quello domestico, badare a bambini e anziani.
    A volte mi chiedo: ma chi ce lo fa fare? purtroppo lo facciamo perchè nessuno lo farebbe al posto nostro, nel senso che non c’è condivisione dei compiti tra marito e moglie e perchè non ci sono nemmeno le strutture per accolgiere bimbi e anziani e tutto grava sul nostro peso anche quando abbiamo un lavoro retribuito che rischiamo di perdere a causa degli obblighi familiari. Schifo e pensare che mi sto laureando, ma per cosa?

  4. Paolo84 says

    “però ci sono ancora donne che per amore o per forza (perchè ad esempio sono licenziate o spinte a licenziarsi se hanno un figlio, o magari si accorgono che il loro stipendio se ne andrebbe tutto in baby sitter o rette troppo alte per l’asilo)” comunque ciò che importante sottolineare è che, mamma a tempo pieno o lavoratrice, non è questo che ti rende una “mamma migliore”, le casalinghe non sono “migliori” di chi lavora e viceversa

  5. Paolo84 says

    quanto poi allo Stato che dovrebbe “risarcire” le ex mogli in difficoltà, bè sono d’accordo. Secondo me allo Stato spetterebbe sostenere economicamente tutti coloro uomini e donne che stanno in condizioni di indigenza e non riescono a vivere dignitosamente

  6. Paolo84 says

    Penso che il lavoro sia un diritto, una necessità e possa essere pure una scelta. Anch’io credo che non si dovrebbe mai rinunciare all’indipendenza economica (anche per non trovarsi nella situazione di essere mantenute dall’ex coniuge o da chiunque altro) però ci sono ancora donne che per amore o per forza (perchè ad esempio sono licenziate o spinte a licenziarsi se hanno un figlio) ci rinunciano e non le giudico per questo, e credo che i padri dovrebbero reclamare un ruolo di cura dei figli maggiore già durante la convivenza e non solo dopo la separazione (se non lo fanno, non possono lamentarsi se i pargoli vengono affidati alle madri) ma non voglio nemmeno giudicare chi si sente “appagata” stando a casa. Sono ovviamente d’accordo che ci vogliono asili nido, sostegni per le famiglie e bisogna fare in modo che una precaria incinta non rischi di essere licenziata se incinta.
    io non sono fidanzato però mi piacerebbe e mi piacerebbe convivere con la ragazza che amo e che mi ama..non so se questo desiderio sia “culturale” o meno..non mi interessa (è nella nostra natura produrre cultura..), ma so benissimo che ci sono ragazzi e ragazze che hanno aspirazioni diverse e totalmente legittime: è legittimo desiderare un rapporto stabile, una famiglia( etero o no), dei figli come è legittimo non desiderarli (e s deve anche essere liberi di cambiare idea)..entrambi queste aspirazioni sono legittime. se una persona che non vuole una famiglia sta con una che non la vuole, la rottura mi pare inevitabile a meno che uno dei due non cambi idea (e ce ne sono tanti/e che dicono “no io non mi sposerò mai” oppure io non voglio una storia stabile e poi cambiano idea, anche quello succede e non c’è nulla di male)
    Per quanto riguarda divorzio breve e riconoscimento delle coppie di fatto, etero e omo, io sono pienamente favorevole

  7. ath.hellè says

    Eh ma i fatti sono chiari.
    Il lavoro non l’ha MAI creato il Governo. Semmai i privati. E se non c’è non c’è.
    Mica possiamo fare tutti i dipendenti pubblici.
    ————————————————–
    Rispetto ad altri paesi europei le coppia in cui le donne non percepiscono alcun reddito si contano per il 33,7%. Di queste l’Istat racconta una situazione anacronistica:

    “Nelle coppie in cui la donna non lavora (30% del totale) è più alta la frequenza dei casi in cui lei non ha accesso al conto corrente (47,1% contro il 28,6% degli uomini); non è libera di spendere per sé stessa (28,3%), non condivide le decisioni importanti con il partner (circa il 20%); non è titolare dell’abitazione di proprietà”. Inoltre le moglie separate o divorziate sono più esposte al rischio di povertà a fronte dei mariti nella stessa situazione: 24% contro 15,3%.””