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Donne mantenute? O è meglio dire schiave?

Dicono che le donne si facciano mantenere. Tutte balle. Così può sembrare perché gli stipendi li passano gli uomini ma poi esistono realtà molto diverse in cui uomini e donne solidarizzano tra loro, in cui chi ha lavoro aiuta l’altro/a, in cui non si usa la povertà o il difetto economico di partenza o il modo in cui una società sceglie di organizzare il welfare – è il nostro è di stampo cattolico/integralista – per tenere le donne in casa a svolgere gratis ruoli di cura in sostituzione di servizi che lo stato non vuole offrire.

Gli uomini tengono il portafoglio e le donne puliscono culi di vecchi e bambini. Questa è sempre stata la regola e i contesti più reazionari continuano a desiderare che si torni indietro, definendo le donne che vogliono lavorare “in carriera” (carriera di che?!?), disprezzando quelle che non rinunciano al lavoro per i figli, anzi spingendo le donne a rinunciare al lavoro per corrispondere al desiderio di paternità di un qualunque uomo.

E nel frattempo, comunque, sembrerebbe che le donne stiano a non fare un cazzo, a grattarsi le natiche o a giocare a freccette. Invece no e bisogna andare indietro con la memoria su su fino ai giorni nostri per sapere di che balle ci riempiono la testa tutti i giorni.

Dal personale al politico.

Mia nonna lavorava come un mulo, nei campi e a casa, marito, figli, parenti tutti. Fece la resistenza, lei, da sola, in casa, mentre il marito stava altrove per non andare in guerra, quell’altrove gli costò un filo di carcere e lei, prontamente solidale, si fece anche molestare da camicie nere e campieri e poi pure dagli americani, ché aveva tre figli piccoli da gestire e i campi e tutto il resto e la notte stava chiusa dentro quelle povere mura pregando che nessuno arrivasse a rubare il poco raccolto rimasto. Si alzava all’alba e faceva tutto in casa, pane, pasta, conserve, medicinali fatti d’erbe, amore e braccia e schiena dritta a tinchitè. Rimase presto vedova e potè fruire solo di una minuscola pensione sociale e fu aiutata dalla figlia per tutto il tempo rimasto.

L’altra mia nonna lavorava come un mulo, in casa e dove capitava, a ore, a minuti, a secondi, marito, figli, parenti tutti. Poi il marito la lasciò perché lei, si diceva, non avesse un carattere facile. Figuratevi che non si faceva picchiare e questo costituiva motivo di disprezzo perché avrebbe dovuto e invece si accontentò di restare con quattro figli piccoli di cui il maggiore faceva il padre padrone e gli altri portavano il pane in casa. Si alzava all’alba pure lei ma non aveva niente da impastare, solo pane duro, bagnato con l’acqua, insaporito con un pizzico di zucchero, che era lusso a quell’epoca, da dare alle creature. Qualcuno le mise una mano sotto la gonna mentre lo comprava al mercato nero e quella femmina sdisonorata ebbe la sfacciataggine di non reagire perchè teneva stretto il pacco di zucchero e siccome il tizio mentre la sbatteva al muro glielo ruppe allora lei si preoccupò di tenere la mano a coppitello per non perderne nemmeno un grammo. Anche a lei dettero una miserabile pensione. Fu aiutata dal figlio fino alla sua morte.

Mia zia fu data in sposa a 12 anni ad uno che se l’era fuiùta, che poi vuol dire che l’aveva stuprata. Aveva vent’anni più di lei ed era brutto come la morte. Lei non voleva dormirci assieme e lui se ne rammaricava. Il rammarico si traduceva in sberle e le sberle in pugni e pugno dopo pugno quella bambinetta fuggì e si rifugiò dai carabinieri i quali prontamente la riportarono indietro, dalla famiglia che se non c’era suo fratello a dire che mai più tra le grinfie di quella merda l’avrebbero riportata là. Così, perso l’onore, fu esiliata a studiare altrove. Si diplomò, grazie al fratello, riuscì a trovare un lavoro e visse indipendente fino alla sua morte.

Mia madre lavorava come un mulo, a casa, marito, figli, parenti tutti. Come correva lei. Me la ricordo sempre a correre di quà e di là, con la fretta nel culo e il sorriso negli occhi, fino a che ebbe un male di quelli che ti stroncano per un po’ e quel sorriso fu mortificato. Con i lineamenti stravolti lei continuò a guadagnarsi il pane, sempre sveglia all’alba, a lavare panni con l’acqua gelata, nella pila in terrazza, fuori, d’inverno, a fare pietanze prelibate per la famigghia senza mai poter decidere nel merito di niente. Una schiava a tempo pieno che veniva sollevata dall’incarico solo quando era in punto di morte e anche allora, imbottita di farmaci, prendeva e si tirava su perché il marito, i parenti tutti, i vecchi da gestire, lei da sola, i figli, noi piccini che non capivamo un cazzo di quello che accadeva. Ricordo che lei lavorava veramente tanto e non riposava mai. Mio padre invece faceva le sue ore, tornava, tutto era pronto, voleva silenzio e ordine, poi andava a riposare, lui, e lei lavava i piatti provando a non far rumore perché il rumore, che in certi casi è vita, in casa mia era quasi perseguito per legge. Spazi stretti, vite mischiate, una risata era rumore, un pianto era frastuono. Poi lui si alzava, si dedicava ai suoi hobby, lei continuava a lavorare, lui portava a spasso qualcuno dei figli, infine andava in piazza a chiacchierare con gli amici e lei ancora lì a lavorare, fino a tardi.

Questa è stata la sua vita per tanto tempo e mi ricordo tutte le volte in cui lei chiedeva i soldi per fare la spesa o pagare le bollette e lui che la rimproverava perché le dava della spendacciona, lei che misurava ogni centesimo e che riusciva a farci mangiare tutti con niente. Ad oggi mia madre non ha una pensione. Non gliela danno. Neppure un centesimo, perché lo stato dice che deve dipendere dalla pensione del marito e dunque continua a dipendere economicamente nonostante abbia lavorato per tutta la vita.

Poi ci sono io che dipendevo da mio padre, ebbi una figlia, matrimonio riparatore, sopravvissuta a violenze e ad un tentato omicidio, fine della storia e quella figlia me la sono cresciuta con l’aiuto dei miei e con i miei tanti lavori. Mi sono spaccata la schiena e nel frattempo studiavo con l’illusione di poter migliorare il mio futuro. La cosa che ricordo con certezza è che sebbene io lavorassi e ricevessi stipendi in varia misura e forma comunque la sensazione era sempre quella di pietire elemosine tant’è che mia madre diceva che chiedere per chiedere tanto valeva dipendere da una persona che ti vuole bene almeno la conosci, sai a memoria i suoi limiti, di che pasta è fatto e la mortificazione è contenuta.

Quello che a mia madre sfuggiva è il fatto che ciò che va perseguito è il diritto di ciascun@ di noi. Accontentarsi della umiliazione fatta in casa non limita l’entità della mortificazione. Che si tratti di una cosa che si può gestire in contesti in cui esiste affetto è tutta da discutere. Io non l’ho mai pensata così per quanto mio padre non mi abbia mai fatto mancare niente. Per quanto mia madre non mi abbia mai fatto pesare quello che subiva e per tanto tempo lo ritenesse perfino un fatto normale.

E’ vero però che chi ti paga uno stipendio ti tratta come fossi una puttana. Quello che fai non basta mai. Come se i soldi dati te li regalassero. Come se non avessi fatto nulla per guadagnarteli. Come se ci fosse perennemente bisogno di sottolineare la tua inefficienza, di mantenerti in stato di soggezione e di inferiorità, subordinata, umiliata, mortificata, mai valorizzata, mai nessuno che mi abbia detto “scusami perché ti pago molto meno di quello che tu fai”. Proprio mai.

L’aria svagata di chi ti dà un assegno e si aspetta che tu ringrazi. L’aria viscida di chi ti dà contanti dopo una settimana di camerierato e non accenna a staccarti gli occhi di dosso aspettandosi un cedimento, che tu tenga gli occhi bassi, pretendendo che tu offra la mano per renderti complice del pagamento che viene offerto alla puttana.

Si, certo, inteso in questo senso parrebbe che le donne siano “mantenute” dagli uomini ma non è chi è “mantenuto” che in realtà “mantiene” i paganti? Non sono gli operai che fanno la ricchezza degli industriali e degli imprenditori? Non sono tutte le classi subordinate a fare la ricchezza di chi gerarchicamente è posto ai piani superiori?

Ed è in questa logica perversa che non accetto neppure di fare la guerra tra poveri con quelli che mentre avevo lavoro ho aiutato io se stavano con me. E ce ne sono donne che lavorano e che tengono in piedi le famiglie e quando questo accade lui subisce una pressione indefinibile perchè tradisce il patto che lo lega al patriarcato, quello che lo vuole a fare lo schiavista in casa affinchè lui faccia lo schiavo fuori.

Ma non vedete che ci sfruttano tutti? Non vedete che le donne sono solo uno degli ultimi anelli della catena e con noi gli stranieri e le straniere? Non vedete che qualunque sia la provenienza di quei soldi te li ributtano in faccia come se li rubassi? Che magari avessi rubato in vita mia e invece no, sono stata abbondantemente derubata e nessuno mi restituisce niente e sentirmi dire poi che il mio contributo alla società sia pari a zero, io che ho lavorato fin da piccola, addestrata a stirare camicie e a far specchiare i pavimenti, educata a compiacere gli uomini e a non pensare al mio futuro, costretta ad apprezzare un corredo che poi non avrei usato e finendo per stimare di più mio padre, unico parente a decidere di investire sulla mia istruzione, unico a immaginarmi indipendente. E mia madre rassegnata a vedermi coi libri in mano invece che a fare un corso di taglio e cucito, che forse mi sarebbe servito di più, ma che comunque non mi metteva al sicuro giacché ero carne avariata, una che non poteva più contare su un buon matrimonio, una che a qual punto era bene consegnare al mercato del lavoro precario… E come questa di storie ce ne sono tante, diverse, analoghe, comunque mai semplificabili e banali.

Insomma, le donne che ho conosciuto io avrebbero volentieri fatto a meno di essere mantenute.

Allora ciò che serve è molto semplice:

– lavoro per le donne;

– un welfare che non parli mai più di conciliazione e che assegni alle donne un ruolo identico a quello degli uomini nella società;

– redistribuzione dei lavori di cura e del carico familiare e investimento su strutture e servizi di supporto;

– bisogna smettere di parlare di contributi e assistenza agli uomini affinché gli uomini assistano le femmine (tipo padri separati). Attenzione verso le parti sociali deboli, senza mediazioni di sorta.

– eguali stipendi per le donne;

– asili, consultori, reddito e casa per le donne in difficoltà;

e molte altre cose…

Potete aggiungere all’elenco ciò che volete. Tra i commenti.

Posted in Critica femminista, Narrazioni: Assaggi, Omicidi sociali, Pensatoio, Personale/Politico, Precarietà, R-esistenze.


One Response

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  1. Luz says

    Grazie per questo post. Un abbraccio!