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Storie di un padre NON separato #5

Questo è un mio racconto, letto in un “reading” – credo si dica così – nel quale si raccoglievano storie d’amore da raccontare a Loredana De Vitis, la scrittrice che le avrebbe raccolte. Nell’attesa che lei pensi cosa fare di questa storia, ve la ripropongo perché è molto autobiografica come le altre quattro, e perché ogni tanto è il caso anche di ridere, nella speranza di avere detto qualcosa di sensato.

Senti questa Loredà:
tu mi conosci difetti ne ho ma sono una persona coerente.

Allora, era un giorno qualunque all’università, cioè uno di quei giorni che si va li per trovare un buon motivo per non fare niente. Vedo il caro vecchio amico Andrea al tavolo dietro il bar. Devi sapere che Villa Mirafiori, sede della facoltà, è un parco pubblico, c’è il bar coi tavoli sotto gli alberi, se sono più i fuori corso che le foglie per terra non è per caso. Ti dico che siamo alla fine di maggio duemilaeuno Loredà, tempo d’esami – quelli di una volta, altro che nuovo ordinamento e riforma – quindi gira un’ansia che si taglia a fette. Insomma vedo Andrea e lo raggiungo al tavolo.
Non a caso è mio amico: curvo e chino sul tavolo, sta giocando a tresette, nota disciplina indispensabile per allenare la mente a un proficuo studio, insieme a dei suoi amici che non conosco. Non faccio in tempo in realtà manco a vederli in faccia, perché la mia mente da filosofo impegnato nel politico e molto attento alle cose del mondo viene subito dominata da un unico pensiero, tipico dell’olismo fenomenologico al quale mi fregio di appartenere.
Il pensiero è “ammazza questa quant’è bòna”.
Seduta di fronte ad Andrea c’era una donna, Loredà, una donna piena di cose bellissime splendidamente messe insieme, in un tutto che era molto ma molto migliore della somma delle singole parti – te l’ho detto che sono un convinto olista.
E pensa che io, che tu mi conosci difetti ne ho ma sono una persona coerente, c’ho il tresette apparecchiato e il bar aperto e sto lì perché col dottorato da finire e gli esami da fare per aiutare il professore che m’aiuta a me; insomma con tutte ‘ste cose in ballo quel giorno sono giunto a formulare un unico intendimento che da lì in poi mi condizionerà l’esistenza: “questa qui è veramente bòna”.

Eh, ma il bello deve ancora venire, Loredà.
Lì per lì mi presento e faccio il cretino come solo io sapevo fare all’epoca, e malgrado tutto non mi manda a quel paese – ho saputo poi che lei attraversava un periodo di grande crisi sentimental-psico-sessual-somatica quindi semplicemente non m’aveva proprio cacato. Ripensandoci è stato un bene che il mio disastroso primo approccio lei lo avesse praticamente ignorato, perché poi questi avvenimenti persi nell’oblio ti permettono di ricostruire la storia avvolgendola di epiteti generosi – destino, fatalità, predestinazione; laddove l’unica forza sovrumana in campo era una clamorosa botta di culo. Insomma lei resiste alle mie patetiche battute tipiche del maschio che si pavoneggia non si sa bene di che; e resiste anche, ulteriore merito, al mio abbigliamento di allora, che era a dir poco truce. Devi sapere Loredà che all’epoca quest’uomo – tu mi conosci difetti ne ho ma sono una persona coerente – girava equipaggiato nel seguente modo, dal basso verso l’alto:
– scarpone da lavoro in pelle nera con punta in acciaio;
– pantalone di pelle nera;
– cinta in pelle nera;
– maglietta nera;
– occhialone Ray Ban nero;
– capello biondo ossigenato corto;
– almeno dieci chili d’argento sparsi in anelli, bracciali, collane, cavigliere.
Sfoggiavo anche, a mo’ di decorazione, una maglietta della maggica Roma annodata in vita dato che all’epoca – maggio duemilaeuno, ti ricordo – ero fresco di scudetto insieme a tutta la mia città. Tutti questi aggeggi erano assemblati su 95 chili di corpaccione. La classica tenuta da esistenzialista ribelle, sedicente figaccione, vagamente anarcoide, sostanzialmente stronzo.

Ebbene lei resiste a tutto ciò, Loredana, e invece di ridermi in faccia al solo vedermi risponde con gentilezza, mi rivela il suo nome che era Nicoletta, e accetta di buon grado un vago invito a fare un giro – insieme agli altri amici, ovviamente – alla da poco inaugurata Festa dell’Unità. Sì, ce le avevo proprio tutte le magagne, te l’ho detto: difetti ne ho ma sono una persona coerente. Infatti all’appuntamento mi presento accompagnato da un’amica.
Per decenza la chiameremo Ics. Ics si era appena lasciata dal suo fidanzato storico perché scopertasi cornuta multipla da molto tempo, e io, stronzo di fuori ma deficiente dentro, avevo creduto alla storiella che lei era tanto disperata e aveva assoluto bisogno di parlare con qualcuno. Neanche il suo abbigliamento di quella sera mi fece intendere che potessi essere stato eletto a strumento corporale della sua vendetta contro il piantacorna. A mia parziale scusante non posso che insistere sul fatto che un unico pensiero rapiva la mia mente, in quei giorni, e cioè: “Nicoletta è un sacco bòna”. Ma ancora non gliel’avevo detto, neanche in forme più educate, e quindi quando mi presentai all’appuntamento, scortato da Ics in tenuta da acchiappo feroce e dissoluto, non feci proprio quella che si dice “una buonissima impressione”. Comunque riuscii a non beccarmi il più scontato dei due di picche, perché passai la serata ignorando Ics e cercando in tutti i modi di parlare il più decentemente possibile con Nicoletta. Spuntai clamorosamente un appuntamento di lì a poco per lo stadio. Ebbene sì, Loredana: oltre a essere bòna, lei era anche malata di sport. Che vuoi farci, in fondo sono il maschio medio eterosessuale italiano: a una cosa posso resistere, a due no. Passi che fosse bòna, ma anche sportiva era troppo; avrei dovuto capire lì di non avere più scampo. Ma tutto preso dal mio pensiero fisso non potevo certo accorgermi di altre cose oltre alla sua bònitudine.

Fermiamoci un momento, Loredà, ti spiego cosa intendo con “bòna”. Che qui è la parola più importante, e se non ci capiamo su questa allora tutta la chiacchiera che stiamo facendo non serve.
“Bòna” vuol dire molto di più che bella. “Bella” purtroppo è un’espressione che è stata letteralmente comprata dalla moda e dal mercato delle immagini, per cui ormai significa per tantissime persone solo l’aderenza a un modello, l’adeguamento a certi canoni precisi – e decisi da qualcuno che deve vendere qualcosa. Novanta-sessanta-novanta, le tette e la coppa di champagne, la cellulite, le labbra/il naso/gli zigomi, i vestiti che ti esaltano, è tutta una macchina del gusto che condiziona i clienti, tutto lì. Basterebbe pensare a come tutti questi pseudo-concetti chiamati insieme “bellezza” sono cambiati nel corso degli anni per rendersene conto. Ma anche la memoria i più se la sono venduta per comprare la novità, e nessuno si accorge ormai che con questa storia della “bellezza” si viene continuamente presi in giro, uomini e donne, costretti a inseguire qualcosa che per definizione non possono avere.
Allora cambio parola. “Bòna” vuol dire che non conta l’altezza, il peso, la forma, contano tutte queste cose insieme, in un insieme che è contro qualunque modello eppure funziona meglio di qualunque modello, perché è unico. Quando il modello sei tu, le misure migliori sono le tue, le parole che usi sono le tue, i vestiti che indossi sono i tuoi, le persone a cui piaci sono le tue, le cose che fai sono le tue, i pensieri che pensi sono i tuoi, allora sei bòna. Insomma, sei una cosa che non s’è mai vista prima.
Ecco, io una cosa come Nicoletta non l’avevo mai vista prima. Perché noi uomini ci abituano da subito alla microscopìa: guardi le tette, guardi il culo, guardi le cosce; se hai studiato un po’ guardi anche la bocca, guardi le mani, guardi i piedi (quello anche se sei maniaco, per esempio) però nessuno t’insegna a guardare una donna tutta insieme. Perché è solo così, solo se la guardi tutta insieme, che scopri una cosa fantastica: una donna ha tutte queste cose! Le tette il culo le cosce la bocca le mani i piedi i capelli gli occhi il cervello e la fica ce l’hanno tutte le donne! E ognuna c’ha le sue, è diversa dalle altre! Invece noi uomini ci rincoglioniscono con donne tutte uguali, tutte con le stesse dimensioni, gli stessi vestiti, gli stessi colori, con la stessa faccia, con la stessa espressione. E ti dicono che quella è “bellezza”. E ti dicono che tu devi volere quella roba lì. Mah. Vabbè sto divagando, scusa.

Insomma dopo lo stadio scatta l’appuntamento clou, quello “io e te da soli in un posticino molto romantico ma non te lo dico direttamente ma tu lo hai capito insomma vabbè”. Ho scelto un locale a Trastevere – che adesso non c’è neanche più, ‘sti stronzi – di quelli proprio intimi intimi: in nove metri quadri c’erano almeno quaranta persone. Data la densità di corpi era praticamente impossibile non baciare qualcuno lì dentro; la difficoltà stava nel baciare chi volevi tu. Comunque ce l’abbiamo fatta, abbiamo dovuto aspettare le due di notte ma ce l’abbiamo fatta. E poi, via. Parte la splendida epopea di una storia appena cominciata: e ci vediamo sempre, e facciamo tutto insieme, e i weekend a casa mia – abitavo da solo, io porco scapolone impenitente – e il sesso atletico, e le vacanze insieme, sì! Come due pazzi, vacanze insieme a settembre e proprio lì in Salento. Un giro per campeggi, da Otranto a Punta Prosciutto lungo la costa. E io sempre lì a pensare,e a darmi ragione: “sì sì, è proprio bòna”.

E poi siamo tornati dalle vacanze ed è cominciata la vita “normale”, il quotidiano, i soldi il lavoro i genitori che ti rompono le scatole – capirai, tutti e due sopra i trent’anni, ti puoi immaginare che palle che ci fanno i rispettivi genitori; e cominciano le prime discussioni. Eh sì, perché io avevo cominciato una cosa seria, secondo me, e dovevo mettere a posto tutte le altre: quindi Loredana – tu mi conosci difetti ne ho ma sono una persona coerente – comincio a fare il giro delle ex per riprendermi la roba mia. E glielo dico a Nicoletta, mica le nascondo nulla. Ma adesso che ci ripenso forse non fu una buona idea, sincera sì, ma non una buona idea.
Da una mi riprendo i libri, da quella qualche aggeggio elettrico, da quell’altra mi riprendo i vestiti – aho, faceva la sarta, mi dava una mano anche così – diciamo che tutti questi giri non giovavano alla mia immagine, ecco, ed è così che ho scoperto un lato di Nicoletta ancora più interessante: quando s’incazza diventa ancora più bòna. Ho detto interessante, però, mica piacevole. Comunque scazza tu che scazzo io superiamo anche questa fase di assestamento, ma il rapporto comincia a incrinarsi. Te lo devo dire Loredà: lei era sempre bòna però le cose cominciavano a non andare bene. E lo stress del passato, e lo stress del presente, e il lavoro che non c’è, e i soldi che non bastano, e la convivenza non se po’ fa perché sennò mamma che dice, e abitiamo lontano, e i tuoi amici non mi piacciono, e la carriera universitaria non decolla, e insomma tutte le cose che non ci dovrebbero entrare e invece c’entrano.

Vabbè, te la faccio breve Loredà, che ormai te sei rotta le scatole pure te: dopo sette mesi che stavamo insieme siamo arrivati a dirci le fatidiche parole. “O ci sposiamo o ci mandiamo a fanculo”. Aho, che dovevo fare? Io le ho chiesto di sposarmi e lei ha detto sì. E adesso sono passati dieci anni, abbiamo due figli, una gatta, un mutuo, una casa, una macchina, un motorino, l’abbonamento a Sky per guardarci pure il campionato del mondo di freccette, e più passa il tempo più lei è bòna. Eh, c’avevo proprio ragione. Loredà, lo sai: tu mi conosci difetti ne ho ma sono una persona coerente.

Posted in Disertori, Narrazioni: Assaggi, Personale/Politico.