Una comunicazione di un gruppo di compagne di Bologna, per la categoria delle “Memorie collettive” dove potrete trovare tutti gli interventi e i racconti che stiamo raccogliendo sul #15ott. Per inviarceli scrivete a femminismoasud[chiocciola]inventati.org. Buona lettura!
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Safety, autogestione e resistenza: una comunicazione femminista sul 15 ottobre
Siamo femministe e antifasciste, il desiderio d’esprimerci sull’esperienza del 15 ottobre parte da una serie di sommovimenti interni ai nostri corpi, più che da un’esigenza di far parte della tempesta di “comunicati”. Un comunicato è un participio passato, noi speriamo di metterci in comunicazione.
Il crampo allo stomaco nasce dal fatto che pur essendo in testa al corteo, non abbiamo capito cosa stesse succedendo davvero, dove e come. Non c’è stata una pronta comunicazione, non c’è stato nessun segno, nessuna voce che sapesse informarci del nostro stesso posizionamento. Questo ci porta a chiedere di “ripensare” strutture che già in passato, nelle nostre azioni, avevamo messo in discussione.
Cosa è una “testa” del corteo? Cosa è uno”spezzone”? Quale è la differenza tra creare “safety” invece che richiedere ordine e sicurezza? Soprattutto come si organizza un corteo? Chi decide? La “decisione” come prende forma? Come accade che vi siano “scazzi” tra gli stessi organizzatori del corteo rispetto alle azioni e alla modalità di gestione? E soprattutto, dati gli “scazzi”, come si dovrebbe procedere se si sceglie di esserci e di esprimersi in un corteo i cui contenuti “contano” ?
Quello che crediamo è che la forma e i nostri corpi contino quanto i contenuti.
Crediamo che la forma idonea a combattere quell’ordine patriarcale che vogliamo lasciarci alle spalle sia l’orizzontalità. L’orizzontalità è qualcosa che si pratica, si sperimenta, nel modo in cui ci si mette in relazione personalmente, all’interno di un collettivo e nella creazione di alleanze e reti. Gli scazzi e l’arbitrarietà da “accordi del giorno prima” sulle pratiche di garanzia della “safety” non funzionano come “pillola del giorno dopo”.
Riteniamo che la condivisione sia un passo imprescindibile per ogni grande manifestazione. Per condivisione ci riferiamo anche alla comunicazione degli “scazzi” stessi, che, evidentemente non c’è stata a livello nazionale, ma si è autocensurata internamente a geografie autoreferenziali, se non…quasi-elitiste di gestione dello spazio pubblico. L’esperienza della manifestazione contro la violenza maschile sulle donne del 2007, le nostre esperienze indecorose e libere, hanno portato i nostri corpi in relazione, attraverso settimanali assemblee locali e mensili assemblee nazionali a Roma. L’esperienza della Val di Susa ci insegna che la trasparenza degli intenti porta alla rivolta legittima e unita: i media hanno provato a dividerci in buon* e cattiv*, ma non ha funzionato perché l’unità delle differenze non è stata messa in discussione dal movimento stesso: c’era un percorso, e ci sarà.
Portiamo una felpa nera quando vogliamo, a volte indossiamo il pink.
La non-violenza non è tra I nostri valori, come donne che lottano contro la violenza patriarcale, degli uomini e dello stato.
Il “riot” è una pratica che condividiamo, ma rimandiamo alla capacità di autogestione come coscienza della responsabilità e dell’intenzionalità dei nostri riots. L’autogestione è una dialettica tra l'”io” e il “noi”: il personale è politico ci guida ancora nella riflessione. L’autogestione è pratica orizzontale che non esula dallo “spontaneismo”. Quello che richiede è la capacità preventiva di
“immaginazione” degli eventi e “creatività” rispetto all’orizzonte delle azioni, resistenze, modalità di autodifesa e gestione della “safety” possibili.
Crediamo che sia necessaria una riflessione sulla gestione della Piazza. Perché la scelta, il “sentirsela” o “non sentirsela”, ha finito per essere “costretta” e “imposta” dal contesto? Legittim@ chi attacca la violenza dello stato, legittim@ chi decide di non farsi “normare” dal contrattacco come pratica di guerriglia urbana, non precedentemente concordata o “immaginata” e poco “aperta” all’idea di “safety” delle/gli “altr@”, che diventano “altr@” perché il contesto, non scelto da loro, lo impone.
La data del 15 ottobre costringe il movimento tutto a riportare l’attenzione sulle questioni dell’orizzontalità, della safety, dell’autogestione. Ma non ci stiamo a “partire da capo”. Veniamo da esperienze di orizzontalità e anche da esperienze di scontri. Serve una consapevolezza dell’autogestione come responsabilità politica, come accordo. Un accordo è un’armonia, non una dissonanza. Non si possono ignorare le critiche interne ed esterne, limitandosi a mantenere rigide posizioni minoritarie di “rivendicazione”. Ma non possiamo nemmeno ragionare sentendoci ostaggio della distorsione dei media e tanto meno dell’approccio individualista da “sfogo emotivo da faccialibro”.
In Piazza, a resistere, eravamo in tant@. La favolosità della resistenza, il numero (migliaia) di compagn@ in Piazza, e l’ “indignazione” contro la polizia è un prodotto di decine di anni di accumulazione di rabbia contro l’uso di armi illegittime, contro anni di torture e repressione assassina. La stessa che i giornali, e certe proposte stile ’75, propagandano come luogo sicuro, a cui “serenamente” consegnare donne e uomini di quella Piazza. La delazione non ha bisogno di commenti, fa il gioco del regime.
A differenza delle azioni che hanno messo in pericolo i nostri corpi durante il corteo, con una pratica alla “appicco il fuoco e mi barrico dietro la gonna di mamma/folla”, nello scontro con la polizia in Piazza S.Giovanni, nella resistenza alle cariche indiscriminate, si è espressa la politicità della rabbia, il diritto all’autodifesa.
Non sono i colori a normarci, non sono i compagni maschi, non è la nostra uterina irrazionalità, che pare ancora tabù, visto lo shock massmediatico alla visione di “donne black block”. Le quali, Repubblica aggiunge, quasi a tranquilizzarci, dopo aver lanciato un sanpietrino corrono a baciare i fidanzati (stessa “azione” che le “buone manifestanti” avrebbero voluto fare in piazza, stando a ciò che la stampa racconta: un bel bacio eterosessuale a coppie, per un po’ di pepe, e per rassicurare l’ordine patriarcale e la struttura famigliare). Chiediamo a chi ci legge di uscire da queste dinamiche stigmatizzanti. Il feticismo da “black bra” lo lasciamo a Repubblica, chiediamo invece attenzione alle rivendicazioni di donne, femministe e lesbiche che in quel corteo c’erano e che continueranno a parlare per sé.
CANE SCIOLTE