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#15ott: Claustrofobia e assenza di libertà!

La rabbia e la frustrazione, l’assenza di spazio, il soffocante senso di divisione, chi si indigna contro le lettere delle banche ma anche contro le vetrine rotte, chi chiama in campo più polizia (la stessa con gli idranti, mi chiedo?), chi pensa che un potere violento non reagisca in un modo violento, il cellulare che non prende non a caso, il sapere che piazza san giovanni è chiusa e non c’è verso di entrarci e tu sei fuori perché ti tengono fuori, impotente.

I fascisti rossi, i compagni guerriglieri che se la prendono con le cose a caso, gli indignati nostrani che pensano che a Roma si vada a fare una bella passeggiata al sole, come non abbiamo saputo capire prima che sarebbe andata così senza un piano, come si possa reiterare sempre lo stesso schema senza rendersi conto che non funziona.

Sabato sono stata a Roma.
Faccio fatica a scriverne perché sono arrabbiata e confusa, solo ora inizio a darmi tregua da tutte le domande, le immagini e le parole che mi si sono fermate tra i pensieri e a riorganizzare le mie impressioni.

Credo che a Roma ci fossero due cortei, non uno dei buoni e uno dei cattivi, come molta stampa sta cercando di fare emergere, ma piuttosto uno dove c’era l’inferno e uno dove l’inferno non era arrivato ma dove la tensione era molto alta perché non si sapeva cosa sarebbe successo.

Sono arrivata un po’ in ritardo sull’inizio della manifestazione e ho cambiato posizione un paio di volte in mezzo al corteo, rimanendo sempre verso la fine. Nella mia prima mezz’ora, dalle 14.30 alle 15, ho pensato che la percezione che avevo a casa, che sarebbe successo qualcosa, fosse in fin dei conti sbagliata, e che ci sarebbe stata sicuramente qualche carica, il tentativo di sfondare e qualche deviazione non autorizzata, ma che la situazione fosse più tranquilla di quelle che erano le premesse.

Sono stata smentita nei miei pensieri quasi subito, quando ho chiamato una compagna per chiedere dove fosse lo spezzone che volevo raggiungere, quello dei ventagli rossi. Mi ha detto che stava prendendo fuoco una caserma e che la polizia caricava. Ho posato il telefono allarmata e anche stupita, dove ero io c’era un sacco di musica e gente che camminava serena, in lontananza in effetti si vedeva il fumo, ma era -appunto- lontano. Un altrove.

La notizia è arrivata alla mia parte di corteo molto più tardi. In ogni caso, siamo andat* avanti, cercando di vedere anche altri pezzi di corteo e soprattutto di raggiungere compagne e compagni in piazza, per non lasciarl* sol* nel massacro.
Verso la fine di via Cavour la tensione è aumentata, perché ci sono stati atti violenti nei confronti di qualche cassonetto e da lì in poi era così alta che bastava che passasse qualcuno con un casco che si iniziava a correre di qui e di là, nel terrore. Erano balletti continui, che si facevano senza sapere se stavamo fuggendo da una carica, se ci fosse un incendio da cui scappare o se fosse solo sfogo di tensione.

In via del Colosseo mi chiedevo cosa fare. Mi chiamavano compagni e compagne, soprattutto da casa, ma anche da spezzoni più avanti del mio, dicendomi che avevano deviato per evitare le cariche, che in piazza San Giovanni era impossibile entrare e la polizia aveva di fatto chiuso in piazza una parte del corteo, senza permettere che l’altra parte di corteo lo potesse raggiungere, con i blindati a tutta velocità che facevano caroselli e gli idranti.

Davanti a me la fiom piegava lo striscione, deviando verso i giardinetti, la gente iniziava a disperdersi.
Scene di corsa, di nuovo, scene in cui alcune compagne e compagni isolavano lateralmente altr* compagn* che stavano sfasciando casualmente qualcosa: la guerriglia di piazza San Giovanni nella mia parte di corteo era uno strale, una coda di rabbia e di impotenza che si sfogava in maniera qualunque sulle vetrine come sui cassonetti disseminando il panico e una rabbia che tutto sommato non giudico, perché le divisioni tra buoni e cattivi non portano a nulla, perché anche io ero incazzata da morire e perché non c’era spazio per fare altro.
Abbiamo cercato di entrare in piazza San Giovanni, di avvicinarci, poi il cellulare ha smesso di prendere e ci siamo ritrovat* in isolamento perché le notizie arrivavano lentamente, senza sapere come fare a raggiungere la testa, senza la possibilità di muoverci, spaventat*, divis* perchè a quel punto come la fiom anche tante altre persone avevano deviato.

Verso le 18.00 ero in via Labicana, a fare di nuovo i balletti, con un mare di gente che scappava, questa volta da una carica, lo so per certo.
Ho deciso poi di prendere il treno e abbandonare la manifestazione. Per il senso di non poter andare dove volevo, perché ormai non sapevo più con chi stare e perché non c’era più il punto di arrivo di una manifestazione .
Con rabbia, perché sono stata tutto il giorno in una situazione di tensione indotta, senza poter comunicare realmente, senza poter fare praticamente nulla se non camminare e scappare.

Della manifestazione di sabato conservo il senso di assenza di spazio che diventa ben più che un simbolo della nostra vita precaria, diventa un’azione tangibile nel momento in cui non sapevo dove andare e non potevo andare dove volevo. Una claustrofobica paralisi impotente.

Penso che la gestione della piazza da parte della polizia sia stata la creazione di una volontaria situazione di guerriglia e di repressione, per dividere un corteo che aveva molto da dire e che ha generato come conseguenza un aumento della tensione, perché le cariche e la gestione di San Giovanni non hanno avuto senso, per come sono iniziate tardivamente e senza il reale intento di garantire l’ordine pubblico.

Penso che la rabbia che ne è venuta fuori successivamente abbia motivazioni che conosciamo, ma pratiche che ad oggi dobbiamo analizzare insieme, perché in piazza c’era chiunque e soprattutto tante idee diverse di stare dentro e bisogna essere chiar* e capire insieme come gestirsi le situazioni che vengono fuori, perché se no finisce che ti trovi a doverti difendere anche da* compagni, quelli che ti incendiano le cose di fianco e gli indignati nostrani che si appuntano nome e cognome e invocano più polizia (ma esattamente quale polizia? la stessa dei caroselli?)

Penso che non si possa credere che andare a manifestare contro un poter repressivo possa essere considerata una passeggiata colorata, perché la finanza è crudele sulla vita di tutt* noi e la politica garantisce questo sistema, non basta camminare al sole come anime belle per suscitare un cambiamento e basta vedere che anche altrove, magari non sabato, ma prima, la polizia ha caricato e devastato, non ce li ricordiamo più i Mossos d’esquadra e come sono finiti compagn* di Occupy Wall Street? Davvero crediamo che sarà facile distruggere un sistema? Che Draghi sia davvero un ribelle quando dice peccato per le violenze ma hanno ragione? Che ci ascolteranno perché siamo bell* e abbiamo ragione?

Penso che sono stanca di rischiare di diventare l’agnello sacrificale di una situazione di tensione e di tornare a casa dicendo fino a qui tutto bene fino a qui tutto bene (cit.), ma che non ho nemmeno voglia di iniziare a credermi Attila per avere una stellina in più sul pastrano, penso che la presenza dei fascisti rossi mi inquieta, fascisti nelle pratiche, nei metodi prima ancora che negli slogan, che è facile il giorno dopo dire che c’erano gli infiltrati, ma è una frase che non tiene conto del fatto che non c’erano solo loro e che la violenza era di molte persone differenti, da chi se l’era programmata a chi ha reagito con rabbia al soffocamento.

Penso che non si possa improvvisare, ché poi quando sei in mezzo alla tensione impreparat* non si sa se finisce che sei quell* che butta giù una vetrina o quello che fugge e sei giovane, incazzat* ed esasperato* ci sta che la tua violenza si sfoghi in questo modo, perciò credo che abbia più senso ripensare alle pratiche e capire come si possano davvero riprendere gli spazi, forzare per arrivare a ciò che ci vogliono impedire di riprenderci.

Penso che non ha più senso scendere in piazza così, che la manifestazione di sabato dimostra che siamo arrabbiat*, ma questo lo sapevamo già, e che bisogna capire strategie nuove e ragionare insieme sul come. Perché non abbiamo provato a forzare i palazzi di potere? Perché non abbiamo trovato un altro modo di gestire le cose e oggi siamo -in molt*- perpless*, a cercare di capire cosa è successo e perché le cose siano andate così? Perché ultimamente è sempre così e il discorso successivo si imposta soltanto sulla conta dei feriti e delle vetrine rotte? Perché non lo rifiutiamo questo scontro frontale e non nel nome di voler essere buon* e disciplinat* ma riprenderci lo spazio in un modo che nessun* si aspetta? In un modo che non potranno normare e reprimere nel sangue? Io non ho voglia di farmi usare nella spettacolarizzazione di un’esigenza, ho voglia di discutere, collettivamente, senza andare allo sbaraglio pavlovianamente, sempre nello stesso modo.

Così torno da Roma. E l’impressione che mi rimane, in mezzo a tutte queste domande, senza risposta, è che Roma mi è servita, se non altro, per capire fisicamente come si asfissia quando non puoi neanche muovere il tuo corpo dove vorresti, riprenderti quei due metri di agibilità che sono tuoi, esprimere la tua volontà di essere libera.
Il concentrato della nostra vita di tutti i giorni.

Posted in Anti-Fem/Machism, Fem/Activism, Memorie collettive, Pensatoio, Personale/Politico, Precarietà, R-esistenze.


One Response

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  1. Madicken says

    Grazie. un bel post, ‘thought provoking’ e pieno di intelligenza