Skip to content


Avevano perfino la “zanzariera”!

C’è una intervista, che per forza di cose dobbiamo considerare vera, fatta dal Corriere alla sopravvissuta tra le dipendenti della maglieria di Barletta.

Parla dell’altra faccia della storia, di quella in cui si diffonde il mito della bontà dei padroni, quelli che “danno lavoro”. Svela una ricattabilità massima e racconta come lo sfruttamento venga perfino inteso come atto umanitario.

In fondo eravamo tutte ragazze madri” racconta l’intervistata, come dire che chi prende le “ragazze madri” per lavorare compie un’opera buona.

Prendi delle donne ricattabili, che non hanno alternative e le paghi 4 euro l’ora in nero messe in fila in un corridoio lungo, basso, chiuso e stretto. Per alleviare il sacrificio e dimostrare il buon cuore ci metti anche una zanzariera.

E poi il riferimento al fatto che si erano accorti del danno strutturale ma per autocensura era vietato dirlo perché “altrimenti qui ci chiudono“. E qui bisogna capire se si può parlare di complicità delle dipendenti o meno.

Ricordo che svariati anni fa, tra le altre cose, in uno dei lavori per arrotondare, essendo anch’io più o meno una ragazza madre, fui perfettamente addestrata a raccontare balle nel caso in cui arrivassero i controlli.

Una volta vennero e io feci finta di essere un’amica di passaggio. Grandi risate e abbracci per far intendere una confidenza e un’amicizia con un tale che mi sfruttava e che mi faceva sputare sangue per dieci ore consecutive, dalle 17.00 alle 03.00 di notte, con una paga “di favore” di 40 mila lire al giorno. Avevo un lavoro anche al mattino, dalle 09.00 alle 14.00, ma non era sufficiente.

C’erano i tizi delle cucine che scappavano a gambe levate mentre io intrattenevo quelli dei controlli e fui così convincente che questo mi fece guadagnare consensi all’interno di quel luogo infame. Perché se vivi in schiavitù ti ritagli spazi e consensi come puoi, per respirare un pochino. Come quando vivi in una famiglia dove un uomo ti picchia e tiranneggia la tua esistenza, allora tenti di compiacerlo in tutti i modi perché ti muovi entro quello schema. Relazioni viziate da una situazione di disparità, da uno squilibrio dato dalla gerarchia tra chi domina e chi è dominato.

Così c’è da capirli i dipendenti che molti anni fa, quando i cavalieri del lavoro catanesi furono messi sotto inchiesta per associazione a delinquere di stampo mafioso, fecero perfino uno sciopero e ci fu chi disse che “la mafia dà lavoro“, dunque erano e restano cattivi quelli che immaginano che si debba vivere in un mondo in cui le regole valgano qualcosa. Regole buone, di quelle che consentono soluzioni eque e garanzia di diritti a tutti, che immaginano che il lavoro debba essere un diritto e non un favore da svolgersi dopo uno scambio di clientele, un accordo privato, come pure pretende confindustria e quei sant’uomini di pomigliano & company.

Sono cresciuta in un posto in cui tentavano di convincermi in ogni modo che i miei diritti dovevano essere subordinati alla volontà di fare profitto di pochi ed è questa la filosofia vincente. E non essere d’accordo con questa cosa significa essere “comunisti” o “anarchici” o peggio “femministe”. Qualcuno ci chiama “antitaliani” e chi si oppone allo sfruttamento a Barletta sarà chiamato “antibarlettiano”. Perché lo sfruttamento è connaturato addirittura al sentimento patriottico. Fai parte di qualcosa, di un luogo, di un gruppo e dunque taci per il bene dell’Italia, di Barletta, della fabbrica.

Non so voi ma le parole di questa donna le trovo di una tristezza infinita perché non viene fuori, e sicuramente si porrà il problema, che se in quella fabbrica ci fossero stati i controlli e qualcuno avesse messo anche i sigilli, le 5 donne, figlia dei titolari inclusa, sarebbero ancora vive. Invece sono morte, di incuria e abbandono, di sfruttamento e di omertà, di ricattabilità e silenzio, di mille cose che sono tanto peggio di quello che viene addebitato in Cina, perché da noi è sempre accaduto e perché i cinesi che lavorano da noi in clandestinità non hanno politici conniventi dato che non hanno diritto di voto. I nostri imprenditori invece si, li hanno e quei politici straparlano, perfino ora, dopo la morte delle 5 donne.

Tina, Matilde, Giovanna, Antonella, Maria, sono come noi, vittime prima di essere vittime, costrette ad essere complici per non morire e poi morire comunque. Persone che acchiappano quello che possono per bisogno, per necessità, in una situazione che rivela tutta la sua tragicità e che non può essere archiviata come una questione di speculazione edilizia.

Queste donne sono morte per ragioni precise, come muoiono ogni giorno tanti lavoratori e lavoratrici in luoghi in cui non vengono rispettate le norme di sicurezza. Donne, uomini, stranieri, sacrificati in nome del profitto. Bisogna parlare. Pretendere. Bisogna reagire e cambiare prima di morire. Prima di spegnerci del tutto.

—>>>Quelle che muoiono di taglio e cucito

—>>>Donne, precarie, murate vive

—>>>Erano solo precarie

—>>>Sono precaria, sfruttata e voglio restare viva!

Posted in Omicidi sociali, Pensatoio, Precarietà, R-esistenze.