Dal blog di Malafemmina, una precaria qualunque:
Dorotea, il mio boss “artistico”, stamattina ha avuto una conversazione telefonica dai toni accesissimi. […]
Alle prime tre frasi che lei ha pronunciato, piene di colorite espressioni, mi è venuto in mente che effettivamente nella vita c’è chi può dire quello che pensa e c’è chi invece no. Io, per esempio, no o non sempre.
Dipende dai contesti. Dipende soprattutto dai soldi.
Se hai soldi allora è tanto più semplice fare la voce grossa senza temere che quell’altro ti denunci per oltraggio a questo o a quell’altro. Se invece non ce li hai, dopo che hai fatto due conti in tasca, la tua, concludi che l’unico posto in cui puoi bestemmiare è il tuo sgabuzzino, facendo attenzione di bestemmiare in slang cinese perché anche i muri hanno orecchie.
Credo di essere una delle troppe persone costrette alla clandestinità, che devono misurare le parole, che non possono dire ad un docente che è un gran maiale o che non possono dire alla sua assistente che è ignorante. Che non possono dire al datore di lavoro che è uno sfruttatore e che sicuramente non possono dire a chiunque sia impegnato con incarichi di tipo pubblico che ha la stessa capacità di discutere con i cittadini che aveva Hitler nei suoi tempi migliori.
Non so se posso concludere che tutte le persone che hanno soldi possono essere libere di pensare e di esprimersi con facilità. Quel che è certo è che per loro è sicuramente più facile che per quelle come me.
Alle persone come me non è riservata neppure una stanza, un metro quadro, di libertà di espressione.
E sono convinta che sia un’illusione anche qualunque forma di manifestazione in cui a dire le stesse cose si è in tanti e in tante, perché dopo ogni manifestazione, da quel che leggo, c’è sempre qualcuno che passa a portarti il conto.
E’ una domanda che mi faccio sempre più spesso ultimamente, dato che i movimenti di opposizione critica finiscono per essere trattati da criminali e alla parte opposta fingono di passare da martiri.
Sono i numeri che contano o i soldi?
Davvero l’unione fa la forza? E se si di che unione parliamo? Dei conti in banca o delle persone?
Non voglio essere disfattista ma ogni volta che vado ad una manifestazione vedo soprattutto persone che gioiscono nello stare insieme e nel constatare di non essere soli, ma se le manifestazioni si sono ridotte ad essere un palliativo alla solitudine ideale che ne è stato delle lotte?
Noi siamo qui, tutti e tutte ricattabili, senza alcuna possibilità o forse nessuna voglia di diventare martiri facendoci derubare perfino dell’ultimo briciolo di speranza che abbiamo.
Siamo sorvegliatissimi/e, le nostre parole sono pesate e soppesate in una azione di dossieraggio degna della Gestapo, e la minaccia più grande che si può subire in questi casi è quella della privazione della libertà.
La libertà di dire quello che si pensa, di esprimere una opposizione critica alle opinioni altrui, di vivere senza ridursi ad una clandestinità obbligata, di tenersi fuori dalla galera, che è sempre stata fatta per gli oppositori politici e mai per chi sta al potere, di non farsi togliere di bocca l’ultimo briciolo di pane che ti rimane.
Mi guardo attorno e c’è tanta gente che si affatica a convincermi che io sono tanto libera. Ma non posso non chiedermi: libera di fare cosa? Di dire cosa?
E l’altra cosa che mi chiedo spesso è: a chi giova che tutta una generazione di persone sono state costrette alla precarietà e sono state private della libertà?
Ecco… almeno per un giorno, solo un giorno, vorrei avere la stessa libertà che oggi ha Dorotea.
E voi siete liberi/e? Liberi/e come? Di fare cosa?
Martedì, 10 maggio 2011
Malafemmina, la precaria