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Anna Lamberti Bocconi racconta il suo “Canto di una ragazza fascista dei miei tempi”!

Su questo blog era stata pubblicata una nota che parlava dell’ultimo poemetto di Anna Lamberti Bocconi [leggi una sua intervista autobiografica], anzi della presentazione di questo poemetto in un centro sociale romano (QUI il video integrale della presentazione). La nota era stata oggetto di vari commenti, critiche, opinioni, diverse tra loro, tra le quali quelle che sancivano la scelta di non ritagliare spazi di empatia con realtà neofasciste e quelle che guardavano all’opera da un punto di vista prettamente più artistico.

Anna, è rimasta ad ascoltare, ha espresso il suo punto di vista ma le ho chiesto di chiarirlo fino in fondo, perchè nessuno si sarebbe sognato di dire che il film di Lucchetti, Mio fratello è figlio unico, e il film American History X avessero l’intenzione di offrire qualche giustificazione ai contesti narrati, o nessuno si sarebbe sognato di definire “Romanzo Criminale” una sponsorizzazione diretta di comportamenti non accettabili.

Ho avuto modo, grazie alla sua gentilezza, di leggere per intero il poemetto e, come le ho scritto, mi sfugge il perchè, e da lettrice non mi deve interessare, lei abbia scelto di analizzare storie di militanza nera. Però di sicuro non ha reso un gran servizio e questo vale sia che loro, i fascisti, l’abbiano capito o meno.
Non è una esaltazione di modelli di vita quanto piuttosto la dissacrazione di miti che lei ha guardato scavando nelle miserie di ciascuno. In fondo sono personaggi molto tristi e tristemente conclusi. Quasi che fossero vittime di se stessi e delle miserie familiari.
In senso letterario mi sembra un esercizio di comprensione delle complessità che caratterizzano la specie umana. In senso militante e antifascista mi spiace che lei abbia restituito queste storie facendo diventare una terrorista, uno squadrista, un ultrà, delle vittime, restando in ombra le loro azioni di crudeltà, terrorismo, violenza e mettendo in primo piano parole e valori che fanno parte dei loro codici di comunicazione.
Come scrivevo tra i commenti al precedente post mi piacerebbe leggere molto della sorte di una vittima di un terrorista nero. Ma è il racconto di Anna e dunque ciò che scrive è insindacabile.
Indubbiamente però la trovo un’opera non banale che ti trascina in un mondo dal quale si ha voglia di uscire quasi subito e se questo è l’effetto che può fare a chi legge allora può essere definita una efficace azione antifascista.

Anna mi ha perciò inviato, perchè fosse condiviso in questo blog, una lettera che racconta quello che lei ha fatto. Includendo una intervista che è stata pubblicata sul blog Nazione Indiana e che lei mi ha dato il permesso di ripubblicare. Perciò ecco dalle sue parole quello che per lei ha significato questo “Canto di una ragazza fascista dei miei tempi”, edito Transeuropa. Buona lettura!

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Care tutte, cara Fikasicula. Eccomi qua. Salto la parte di autopresentazione, salto le premesse sui miei trent’anni di scrittura pubblicata, passo a parlare subito del mio poemetto, per chi avrà voglia di leggere. Cosa ho voluto fare. Cosa c’è dentro e cosa c’è dietro.
Il poemetto si compone di cinque canti. Nel primo, quello che si trova su youtube, la ragazza fascista racconta la sua storia, che è la storia di una crescita sbagliata e sbandata, di un forte ribellismo indirizzato in maniera decisamente fallimentare, in anni molto duri e violenti. Pur narrando il dipanarsi di una parabola di vita, si vede però che il fuoco dell’obiettivo, l’indice dell’accusa è puntato fin da subito sull’istituzione familiare, tanto socialmente indiscutibile, vero tabù e paravento per tutti, quanto in realtà – e penso che lo sappiate bene anche voi – tremenda e stracolma di violenze fisiche e psicologiche protette e benedette fra le mura di casa. In effetti, tutta l’opera ha come ambientazione il neofascismo, ma come cuore la denuncia della “famiglia” quando non capisce, non sa dare, non sa spiegare il mondo e renderlo vivibile ai figli che ha generato.
L’altra chiave di lettura importantissima è quella esistenziale: la propria anima, l’io messo a nudo dai contrasti e dalle situazioni estreme. Nel tutto e nel nulla che si chiama esistere, nella resa dei conti che ci è chiesta ogni secondo, se guardiamo la vita dritta negli occhi, denudati di ogni sicurezza. E per me personalmente, questo denudamento è dato proprio dal mettermi a specchio con gli aspetti della vita più difficili e più lontani da me. Ora, come già nel mio romanzo precedente, “Rumeni”, si tratta, sì, di opere corali, ma l’io narrante, il protagonista, qui non sono i neofascisti e là non sono i giovani immigrati rumeni: in “Rumeni” è Anna, nel “Canto” è la Poetessa.

INTERVISTA
Antonio: Cara Anna, da pochi giorni ho letto il tuo Canto, letto d’un fiato, perché non mi pare che si presti a molte interruzioni, e mi ha molto colpito. E allora mi piacerebbe parlarne con te, qui in pubblico: una recensione- intervista con l’autrice: la prima domanda è quasi d’obbligo: c’è qualche elemento autobiografico nella storia, o meglio nelle storie, che compaiono in questo vero moderno poema epico?

Anna: Più di uno. Innanzitutto per l’io narrante: se riguardo al mio libro precedente, Rumeni, ci tenevo a specificare che la protagonista mi somigliava ma non ero del tutto io, qui devo ammettere che il personaggio della poetessa è proprio un autoritratto, fa le cose che faccio io, gira da sola a piedi a tutte le ore, guarda tutto, interroga tutto, si siede sulle panchine, con quella libertà tra l’eroico e il trasognato di chi non ha più niente da perdere. Poi c’è Milano, il mio scenario d’elezione, una città che più autobiografica di così non si può. Al dritto e al rovescio, dal 1961 a oggi.
Per quanto riguarda le storie, quella di Filippo e quella di Francesco sono tutte inventate, anche se, per Filippo quando parla dell’alpinismo, mi sono ispirata a un paio di ragazzi di gran valore miei amici, entrambi “cuori neri”, che fanno scalate in solitaria e vivono questa pratica come una disciplina di elevazione spirituale, una sorta di arte marziale occidentale.
Invece la ragazza fascista ha degli agganci abbastanza puntuali con cose realmente avvenute. Era decenni che mi portavo dentro il ricordo vago ma rilevante di una ragazza un po’ più grande di me, la figlia di un collega di mio padre (per l’appunto, “un avvocato anni Sessanta”): un’adolescente difficile, prepotente, allo sbando per carattere, per famiglia, chi lo sa, che crescendo ha seguito davvero la parabola autodistruttiva che ho raccontato (anche se poi nel testo molte cose le ho aggiunte o le ho cambiate). Erano anni duri e io ero poco più che una bambina. Sai quando da piccoli si percepiscono delle cose ma senza capirle bene, e perciò rimangono nel mistero, si piantano a fianco della vita che passa, e acquisiscono persino un fascino, una teatralità laterale… Evidentemente questa immagine mi ha accompagnato in silenzio per tanti anni, e poi a un certo punto è venuto il momento di farla parlare.
Infine vorrei aggiungere che, dal punto di vista della mia autobiografia psichica, tutte le passioni perdenti, anche quelle non vissute in prima persona, fanno da travi portanti; e non chiedetemi il motivo, perché non lo so. So solo che – da tutta la vita – quel che colgo attorno a me di acceso, convinto, romantico, sbagliato, sbaragliato, morale, immorale, sacrificale, mi si installa subito in animo e non mi molla più, diventa mattoni.

Ant.: sono sempre curioso di capire, se mai è possibile, la genesi di un’opera. Ti chiedo quindi se c’è o c’è stato qualche episodio, fatto, sfumatura, fantasia della tua vita recente che ha provocato la composizione del tuo poema.

Anna: Certo, come no! Devo lo stimolo, la frustata decisiva al RicercaBo di novembre scorso, un convegno, festival, non saprei come definirlo, insomma un’iniziativa sulla letteratura di ricerca che si tiene a Bologna, con fantastici padroni di casa chiamati Nanni Balestrini, Renato Barilli e Niva Lorenzini. Sono stata invitata e ho portato la parte dell’opera fino allora esistente, quello che sul libro è il primo canto. L’accoglienza è stata ottima, e io felice, ovviamente. Poi mi si è avvicinato un bel tipo distinto, si è complimentato, io non lo conoscevo, lui si è presentato come Giulio Milani, il direttore editoriale di Transeuropa , e mi ha detto che voleva pubblicare il mio lavoro. Credevo, io, di cavarmela a buon mercato, di dargli quel breve poemetto, accompagnato dal resto delle mie poesie inedite… Eh no! Milani ha capito subito con chi aveva a che fare, e mi ha, come dici tu, provocato la composizione: “Lo voglio proprio, e te lo pubblico subito: ma tu mi scrivi un libro tutto intero, coi personaggi e con una storia. Altrimenti, nisba”. E questi sono i modi in cui si fa “produrre” la Lamberti-Bocconi. Mi sono sentita sfidata su una cosa che mi piaceva, e nell’arco di due-tre mesi l’ho portato a termine.

Ant.: “Parliamo un po’ di piazza Aspromonte, che anche a me è cara e che ho scelto per l’immagine di testa, con i suoi alberi e le sue panchine, e di Filippo bello biondo e vagabondo; ci sono dei versi che ogni tanto mi colpiscono più di altri, perché suscitano echi inaspettati, “Volevo bere dove non si muore / dove scorrono i fiumi della stirpe, / al modo del cinabro celebrare / un ideale mistico e lucente…”; qui c’è un’eco inaspettata di provenienza dannunziana, del resto coerente con l’ispirazione principale di Filippo, che ne dici? Quei “fiumi della stirpe” …, che, per inciso, a me suona molto bene, visto che, malgrado nella sinistra parlar bene di D’Annunzio suoni eresia, io ne apprezzo molte cose. Hai voglia di commentare su questo e su eventuali altre eco, più o meno coscienti, che riconosci nel tuo poema?”

Anna: Mi chiedi di parlare di piazza Aspromonte? E io lo faccio con piacere! Come in buona parte della mia cara Città Studi, ci troviamo in un tessuto urbano compatto e integro, in stile primo ’900; forse la Milano più amabile, quella storica un po’ defilata, mai toccata da mode e corruzioni varie. In particolare, i giardinetti boscosi di piazza Aspromonte costituiscono un’area verde particolarmente bella, con alberi di pregio donati e piantumati all’epoca dai fratelli Ingegnoli, celebri agronomi di quella stirpe entusiasta, audace e creativa che ha fatto l’Italia. Pensate – divago un attimo – che c’è una lettera del 1888 indirizzata da Giuseppe Verdi ai fratelli Ingegnoli, i quali gli avevano mandato in omaggio sei esemplari di un frutto esotico di cui avevano appena iniziato in Italia la coltivazione: il caco! Il Maestro esprime grande entusiasmo per quella dolcissima delizia, e ne auspica la diffusione su tutto il territorio nazionale. Bene, tutto ciò per evocare le nervature storiche di una certa Milano, che è poi quella che metto in scena nei miei libri, impattata con la più dura contemporaneità. E dunque, capirai che mi ha fatto gioco il fatto che attualmente in piazza Aspromonte si trovi la sede di Forza Nuova… L’ambientazione ideale per il mio Filippo.
D’Annunzio: a me piace moltissimo. La sinistra, poveretta, lasciamo un po’ che parli o non parli di quel poco che può… Te lo dice una che ha sempre votato PCI e poi querce, ulivi, pds, ds, pd, caparbiamente fino alla catastrofe odierna. Così approfitto anche per chiarire inizialmente, e semplicemente, quel che magari potrebbe ingenerare un equivoco: non sono fascista. D’Annunzio fu il Vate letterario di quel tipo di fascismo roboante e vitale che in effetti ispira l’estetica di quelli come Filippo, una “minoranza nobile” che a tutt’oggi fa proprie quel tipo di visioni. Io la sento come un’epoca, uno sfondo che da una parte sfornava fregi, proclami, opere ardite, fermento artistico, individui affascinanti e grandi realizzazioni, dall’altra forgiava un terrificante crogiolo di sangue e atrocità. Mi pare che nei quattro versi che hai citato ci sia una buona sintesi dell’utopia di questo stile. Il cinabro, poi, oltre a essere un vocabolo di bel suono e un minerale di uno splendido rosso, l’ho messo per richiamare il titolo, Il cammino del cinabro, dell’autobiografia spirituale di Julius Evola, il “loro” maggior filosofo.
Altre eco, vediamo un po’… Le lenzuola nere che appaiono verso l’inizio sono quelle, anch’esse sedimentate in me da tempi remoti, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, uno dei miei film preferiti, dove Eros e Thanatos si intrecciano nelle fattezze di due grandiosi GianMaria Volonté e Florinda Bolkan. Per i dialoghi spezzati all’interno dei versi, che quando vengono bene mi danno un’immensa soddisfazione, riconosco come maestro Gozzano. Poi i fumetti: soprattutto il quarto canto, quello di Francesco, me lo vedrei bene sceneggiato da qualcuno in gamba, quelli giovani che non so neanche come si chiamano, tipo la rivista “Animals”, insomma. Anzi, mentre lo scrivevo lo immaginavo proprio visivamente. E infine: già per Rumeni, e poi anche per questo Canto (mi riferisco alla recensione di Nadia Agustoni su La Poesia e lo Spirito), più di una volta sono stata accostata a Pasolini. Beh, che questa eco risuoni o meno nei lettori, devo dire che è un onore talmente grande per me, che non ho la capacità di commentarlo.

Ant.: Sì, Milano è indubbiamente lo scenario principale di tutto il poema; ma certi voli vanno ben più in là: “Voi vivi, voi borghesi, voi distanti / voi padri e madri, voi giorni passati: / siete la fossa dove abbiam buttato / i soli cuori che ci avete dato”, hai voglia di commentare questa quartina, tra l’altro da te corsivata, del quinto canto?

Anna: Di fatto, la quartina che riporti ha un’importanza particolare. Oltre a costituire un inciso, un’altra voce rispetto a quella della poetessa, alla quale è affidato tutto il quinto canto, questi versi sono un po’ la chiave di senso di tutto il libro: ecco i due motivi per cui la quartina è isolata e messa in evidenza dal corsivo. Anche nella parte di Francesco c’è una quartina corsivata, ma in quel caso solo perché è una strofetta da stadio che il ragazzo sta canticchiando. Qui invece si tratta di ben altro. Questi versi sono da immaginare come il coro di tutti i protagonisti del libro, e di tutti quelli come loro: la sintesi del loro fato, il senso profondo e comune di vicende esistenziali con uno stesso nocciolo, benché tanto diverse le une dalle altre. Io immagino come un gruppo di giovani che viene avanti con passo scandito dal destino, inesorabile, senza scampo; una visione forte e cupa; una marcia funebre d’accusa. Accusa a che? O meglio, descrizione ineludibile di un fato, che nella sua nudità diventa accusa: allo spaventoso e ipocrita mondo “borghese”, l’insofferenza verso il quale è la molla di ogni ribellismo; alla sua povertà di cuore, alla sua freddezza e distanza, alla sua bassezza di orizzonti, alle sue messinscene, ai panni sporchi da lavare in casa; e soprattutto al sistema familiare, sua più compiuta macchina da tortura.

Ant.: Il ritmo molto ben cadenzato dell’endecasillabo tiene tutto il poema, si spezza solo in alcune parti del quinto, e ultimo, canto, come mai? È una specie di congedo, è un rilassarsi dal rigore precedente?

Anna: Certo, è un congedo: “Io ho scritto versi e versi, e tanti e tanti / e con loro vi voglio salutare”, dice la poetessa introducendo il finale. Ma non si tratta di un rilassamento, bensì di un gioco compositivo, col quale la poetessa-personaggio del libro e la poetessa vera Anna L.B. confluiscono “a vista” l’una nell’altra, creando un duplice livello di espressione: per questo il saluto con cui la poetessa si congeda dal pubblico dei lettori è costituito da quattro poesie “diverse”, come se fossero testi esterni al poemetto stesso, che lei prende dalle sue carte e inserisce dentro a scopo di congedo. Precisamente quel che ho fatto io: ho scelto dai miei quaderni quattro poesie che andavano bene per la mia conclusione, e le ho come “donate” al personaggio della poetessa. E non a caso l’unica altra poesia “mia” oltre alle quattro finali si trova nel secondo canto, quello più intimo, dove si parla delle madri. Una verità delicata ma esplicita, che chi vuol vedere potrà vedere benissimo.

Ant.: Accenni a Gozzano, anche a me caro, e mi ci aveva fatto pensare soprattutto il dialogo dell’insegnante con Filippo. Ma è Gozzano, per me, anche la voce della città, con uno scarto di colore, di tono, anche se il verso ha una limpidezza paragonabile. Intendo dire che proprio quando la vicenda è calata dentro la città avverto all’improvviso una sensazione di estrema vicinanza e contemporaneamente di brutale allontanamento. La vertigine di un angolo imprevisto, vicino da sempre, mai scorto prima. E’ voluto? E’ una mia impressione?

Anna: Posso rispondere in breve? Sì, è voluto, e mi fa estremo piacere questa tua osservazione. Più il mio poemetto darà vertigine, più sarò contenta. Vuol dire che sono riuscita a esprimere quel che volevo. Grazie!

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