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La questione dei generi.

La Questione dei Generi,

ovvero: l’importanza del genere non-femminile nella lotta femminista,
e l’importanza del femminismo nella lotta non-femminista.

Premessa

Il faut libérer le féminisme.”

Wassyla Tamzali

Questa riflessione nasce il 14 marzo 2011 in seguito al tavolo sulla questione di genere promossa dal Festival delle Culture Resistenti all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.

E’ una riflessione che nasce dall’esperienza delle lotte studentesche maturate sia al liceo, e quindi all’università, esperienza culminata con gli scontri in piazza del 14 dicembre, per me molto significativi di ciò che sta succedendo nel nostro Paese.

Il 14 marzo 2011, al tavolo sulla questione di genere, si è in realtà oltrepassata la questione prettamente di genere femminile, poiché, grazie all’intervento del compagno di Maschile Plurale, e, ancora più personalmente, grazie all’esperienza non separatista nella mailing list di Femminismo a Sud, ho avuto la conferma che il contributo maschile all’interno del movimento femminista non sia più da vedere come contributo “speciale”, ma come vero e imprescindibile contributo senza il quale non è possibile continuare a lottare. Se la lotta infatti deve tener conto della questione di genere, e se tutti, a prescindere dal sesso, siamo vittime del sistema patriarcale, come si è illustrato per esempio nel progetto “Fallocrazie e corpi di servizio” I e II, video in cui si illustrava come sia sul sesso femminile sia su quello maschile vengano fatte delle vere e proprie violenze culturali affinché si aderisca all’idea, rispettivamente, di donna o santa o puttana, e di uomo macho – in questo contesto, mi chiedo com’è possibile che solo le donne femministe si facciano carico di mettere in evidenza tale repressione patriarcale all’interno dei movimenti di lotta, potendo contare solo su una sparuta minoranza di uomini, spesso visti dagli altri o come omosessuali oppure come strani tout court.

Considero la pratica separatista una lotta inutile, se non addirittura deleteria per il movimento femminista.

Essa può essere considerata un momento della lotta, momento in cui poter considerare le diseguaglianze sociali legate al proprio sesso, in cui considerare in quale misura si è vittime di questo sistema proprio a ragione del proprio sesso (o del non-essere un altro), essere che poi ovviamente deve fare i conti con il proprio orientamento sessuale. Insomma, il momento separato ci dovrebbe essere a mio avviso solo per poter dare un contributo ad una lotta generale, una lotta che quindi non riduca a zero le differenze che intercorrono tra sessi, ma che anzi le esalti, proprio come una ricchezza all’interno di un movimento. Senza queste ricchezze nessuna lotta di nessun tipo può avere la pretesa di considerarsi universale e liberatoria per tutti; pertanto tutti quei luoghi dove le parole d’ordine devono essere unità, unanimità, e tutti i derivati di questi due sostantivi che vogliono per forza ridurre l’individuo a unità minima di una massa che sia funzionale ad un qualche obbiettivo generale, sono da considerarsi, a mio avviso, lotte che vanno sempre a scapito di qualcuno, qualcuno che può essere un sesso, una categoria di persone con un certo orientamento sessuale e via dicendo. Infatti, fortunatamente, non siamo tutti uguali e non abbiamo tutti gli stessi bisogni, e quando le lotte vengono fatte sotto l’egida dell’unità, significa che vengono fatte in direzione normalizzatrice (e quando scrivo questo, penso al 13 febbraio, su cui poi si specificherà meglio).

In quest’ottica, che sono perfettamente conscia non essere onnisciente, ho deciso di servirmi di alcuni testi del femminismo degli anni Settanta (testi che a dir la verità mi hanno sempre incusso una sorta di timore reverenziale), e quindi di provare a fornire un contributo al movimento tramite la lettura di questi quarant’anni dopo – in un altro mondo, praticamente.

Un altro mondo che però si ritrova sempre con le stesse problematiche affrontate in quegli scritti, se non, addirittura, un mondo che vede la messa in discussione di diritti che si pensavano acquisiti, ma che non devono assolutamente darsi per scontati.

Chiedo venia se questa mia riflessione può sembrare una sorta di lezione o di predicozzo logorroico, o ancor peggio un tentativo di stabilire quale sia la ricetta giusta per la lotta migliore, non sono questi i miei propositi e proverò con tutte le mie forze a non scadere in banalità o dintorni. Ci sono tuttavia argomenti molto complessi da trattare, tanta è la rabbia e la solitudine che in questo Paese di preti e fascisti ci si porta dentro quando non la si pensa come la famigerata maggioranza, ché il rischio è veramente alto. Inoltre, questa non è da considerarsi assolutamente una riflessione definitiva, ma anzi, un tentativo di fare ordine nella mia testa che voglio condividere con chi legge.

13 febbraio: com’è potuto succedere?

 

Mi è dispiaciuto sentire poco
le voci degli uomini presenti
quando intonavamo cori
per i diritti delle donne,
voci che però tornavano
a farsi sentire
quando i cori erano indirizzati
al Presidente del Consiglio.”

Opinione sul 13 febbraio a Roma

(da Report dalle piazze
con gli ombrelli rossi
,

di
Femminismo A Sud).

Penso sia d’obbligo iniziare dalla fine, cronologicamente parlando. Dal 13 febbraio, quindi, dall’ultima grande piazza che ha radunato tantissime donne. E che ha visto la presenza degli uomini in piazza. Forse una delle poche piazze al femminile dove la presenza maschile è stata massiccia, dove essa è stata più o meno uguale a quella femminile.

La domanda, forse un po’ maliziosa, sorge spontanea: come mai?

Cos’ha spinto così tanti uomini che si sono sempre disinteressati alla questione femminile a scendere in piazza a fianco delle donne?

La risposta si può trovare negli appelli del comitato organizzatore del 13 febbraio, ossia il richiamo ad una donna che, come si è più volte segnalato anche su Femminismo A Sud, è italiana (la forzata unione tra 150esimo dell’unità d’Italia e ruolo della donna/cittadina accentua di fatto questa figura femminile), e che non ne può più delle avventure sessuali del presidente del Consiglio1. Una donna quindi che divide le donne in “perbene” e “permale”, nonostante le promotrici abbiano pensato bene di considerare il loro appello una bozza fino alla fine. Questa divisione sante/puttane, la stessa vecchia divisione di sempre, ha dato motivo agli uomini (che mai prima del cosiddetto Rubygate si erano sognati di partecipare ad una manifestazione o piazza femminile, prima che femminista), di scendere in piazza a ritmo di battute e slogan maschilisti, contro la persona di Ruby stessa, che è stata presa come modello (volontariamente o meno) di tutte quelle donne che non sono madri, mogli, italiane ed eterosessuali.

Credo che il 13 febbraio, come giornata storica in senso stretto, possa essere considerata come uno di quegli eventi da non ripetere assolutamente, e il motivo sta nel fatto che può potenzialmente contribuire alla costituzione di un neomovimento femminile e fascista – e forse si è già costituito, visto che arriva a dire, in occasione dell’otto marzo, che le donne devono “rimettere al mondo l’Italia”.

Nonostante ci sia stato, da parte delle organizzatrici, un tentativo di spostare questa pesantissima espressione dal piano reale a quello più metaforico, credo che la funzione riproduttiva della donna sia stata messa in luce in maniera inequivocabile e anche abbastanza pesante, considerando che quando scriviamo, se scriviamo sull’Italia e/o per l’Italia, lo si deve fare pensando sempre che si ha lo Stato della Chiesa in casa.

Il 13 febbraio è stato un modo per mobilitare delle persone di sesso maschile e femminile contro un certo modello di donna che non corrisponde ai canoni della donna/madre/moglie.

Il contributo maschile in senso positivo è stato nullo al movimento del 13, poiché già esso stesso si prefigurava come negativo, e inoltre ha dato terreno fertile ai maschilisti e alle maschiliste dando loro la possibilità di confermare ancora una volta che se le donne si muovono, lo devono fare per la Nazione, contro tutte le donne “permale” o diverse da loro, riconfermando sempre gli stessi vecchi stereotipi della donna “perbene” e mandando a quel paese una cosa chiamata autodeterminazione. Che servirebbe anche agli uomini, per, come si è già detto, dare un contributo continuo e costante al movimento femminista, ma, in primo luogo, a se stessi.

Ma la domanda iniziale era: com’è stato possibile tutto ciò?

A questa domanda probabilmente non si può dare risposta subito, essa è in ciò che si andrà affrontando, nei testi, nelle riflessioni che ne seguiranno. Per ora però si può dire che una piazza dalle parole d’ordine così maschilista è figlia di un fascismo e di un sessismo che si sono impadroniti tanto dei nostri corpi quanto delle nostre menti, è figlia di una generazione che parole come autodeterminazione, antisessismo e antifascismo non le ha più volute dire dopo gli anni ’70, a parte in qualche isola felice, che però non basta.

Il Manifesto della Rivolta Femminile e Sputiamo su Hegel, quarant’anni dopo.

Chi non è nella dialettica servo-padrone
diventa cosciente e introduce nel mondo
il Soggetto Imprevisto”

Carla Lonzi, da Sputiamo su Hegel.

“Faccio la sarta, la cuoca, la lavandaia,
insomma la domestica tuttofare.
Ci sono poi i due marmocchietti che
non mi lasciano un attimo di respiro.
Avevo appena cominciato a immergermi
nello studio del carattere di Louise Michel
che ho dovuto soffiare il naso al n. 1 e
mi ero appena messa a sedere per scrivere
che ho dovuto imboccare il n. 2 …”
(22 marzo 1886) Clara Zetkin a Karl Kautzy

Penso che per questa riflessione fare pace con gli anni Settanta sia d’obbligo. Con “fare pace”, intendo che serve fare un attimo il punto della situazione, e da una parte richiamare alcune persone che quegli anni, magari inconsapevolmente, non li vogliono lasciare andare, e ne considerano le lotte sacre e intoccabili. Dall’altra, bisognerebbe far capire a chi è disposto a mettersi in discussione che in quegli anni sono state tirati fuori valori importanti, e che rigettarli solo perché ora non si è più negli anni ’70, proprio come quando si allontana chi ci ha tradito, non è la soluzione. Perché ora noi siamo qui, con questo Paese, e da questo posto, con questo materiale, con queste persone, bisogna ripartire.

La prima volta che ho preso in mano il volume “Sputiamo su Hegel e altri scritti”, ho pensato che non ce l’avrei mai fatta. A capirlo, intendo. Perché Carla Lonzi sembra scrivere da un altro tempo, da un altro mondo, e ciò che mi restava da fare era affrontare la lettura come il credente affronta il proprio testo sacro.

Difatti la prima volta è andata veramente male, allora ho deciso di chiuderlo, e ho pensato che ci avrei riprovato più in là.

In un secondo tempo, affrontando il testo non più come qualcosa che non si potesse più mettere in discussione ma come qualcosa che avrebbe potuto offrire spunti di riflessione anche a me (sennò perché si scrivono, i libri?), che leggevo circa quarant’anni dopo dalla stesura del testo, le cose tra me e il libro sono andate decisamente meglio, e con ciò voglio dire che l’ho potuto osservare e criticare in tutto il suo splendore.

La prima cosa che mi ha lasciato veramente stupefatta, del Manifesto di Rivolta femminile che introduce il volume, è la sua estrema brevità e chiarezza: la sintesi estrema di ogni paragrafetto include in sé concetti rivoluzionari non solo per le donne, ma anche per il loro rapporto col genere maschile. Nonostante in questa sede ho deciso di parlare dell’importanza del genere non-femminile all’interno del movimento femminista, credo sia importante passare in rassegna gli argomenti di cui parla il Manifesto: totale rigetto del patriarcato, e quindi di tutti i valori che esso porta con sé: maternità colonizzata, matrimonio, rigetto dell’idea dell’uomo-autorità, rivendicazione del diritto all’aborto, messa in discussione del lavoro di cura svolto costantemente dalle donne (lavoro di cura di genere di cui ancora, quarant’anni dopo, si parla). In questa sede però mi voglio soffermare sull’idea che nel Manifesto si ha dei partiti, e su quel lapidario, finale “Comunichiamo solo con donne”.

Sui partiti, perché le cose sono cambiate da un lato, ma dall’altro no: Rivolta Femminile non aveva una buona considerazione dei partiti, e se prima chi scriveva pensava al PCI a sinistra, alla DC al centro, al MSI a destra, i partiti-chiesa per antonomasia, ora partiti con questa forma non esistono più, infatti si parla di partiti-elettorali (come li definisce Galli in I partiti politici italiani (1943-2004), Giorgio Galli, Bur), ossia partiti “stile USA”, che si mettono in evidenza, cioè, solo quando si avvicinano le elezioni. Quindi noi femministe a chi pensiamo quando ci allontaniamo dai partiti-elettorali? A quale famigerata “logica partitica” facciamo riferimento, quarant’anni dopo? Penso che si è ancora scettiche nei confronti di chi dice di volersi occupare delle donne (quando lo dice), ma non lo fa, né l’ha mai fatto nelle sue politiche, nonostante sia anni che sta dove sta, a governare, votare, legiferare, e, in finale, a ricoprire la propria carica, e nell’esercitare il suo potere mette sempre (se lo mette), il punto delle questioni che riguardano le donne alla fine del proprio programma. Perché, ci si chiede? In fondo anche noi da un po’ di anni abbiamo diritto al voto. Sono gli uomini, non le donne, a fare politica rappresentativa. E quando sono donne, sono state letteralmente colonizzate in senso maschile dal modo di fare politica, che non si ricordano più che la possono fare perché c’è stato un movimento femminista che glielo ha permesso.

Per questo è ormai d’obbligo, per chi si definisce “di sinistra”, e con questo intende stravolgere completamente la società patriarcale e capitalista, partecipare alla lotta femminista. Senza lotta femminista non ci può essere rivoluzione, né in Italia, né da nessun’altra parte. Un esempio lampante di ciò, sono gli stravolgimenti quantomeno culturali avvenuti in Paesi come l’Egitto, la Tunisia e lo Yemen, dove le donne, manifestando, hanno fatto capire agli uomini che non erano quelle che i genitori gli dicevano che loro fossero: erano esseri umani esattamente come loro, incazzate, che scendevano in piazza a dire no ai loro regimi.

Se veramente si vogliono stravolgere tutti i regimi, abbiamo bisogno di parlare. Il dialogo ci può essere però solo dove c’è la consapevolezza che di femminismo non solo c’è bisogno, ma che è indispensabile per una rivoluzione.

Non so quindi in quale contesto collocare quel “Comunichiamo solo con donne”, che attualmente non ha più nessun senso. C’è chi ovviamente la pensa diversamente, e crede che il rapporto uomo/donna è solo una relazione tra oppressore ed oppressa. Fortunatamente ci sono uomini come i compagni di Maschile Plurale e altre soggettività sparse, con i quali personalmente non potrei non comunicare, perché sono esseri umani che hanno deciso, forse percorrendo una strada ancora più difficoltosa della nostra, dovuta al loro sesso di appartenenza, di disertare il patriarcato, proprio come se fosse un esercito di soldatini. Una donna, madre di due gemelli, in mailing list aveva ideato questo slogan in occasione del 13 febbraio: “è più dura crescere come maschietti disertori che come femminucce ribelli”, una frase molto intelligente ed estremamente vera e realista, e che rende molto più di tutto il discorso che ho fatto finora, probabilmente. Inizialmente, leggendo “Sputiamo su Hegel”, e leggendo tutta la critica che Carla Lonzi fa alla rivoluzione del metodo marxista-leninista, debbo ammettere che non ho potuto che inorridire. La Lonzi non risparmia niente e nessuno, tant’è che ho dovuto affrontare più volte il testo, per avere il tempo di litigarci e farci pace.
E’ dura slegarsi dai propri idoli e dalle proprie convinzioni. Quarant’anni dopo questo scritto è probabilmente tanto rivoluzionario per una persona cresciuta con certe idee addosso, quanto lo fu allora. Per questo, è uno scritto prezioso. La Lonzi dice, in sostanza, che il fallimento degli esperimenti socialisti nel mondo è dovuto principalmente ad una mancata rivoluzione del privato. La Cina, l’Urss, infatti, si reggono e si reggevano su un sistema patriarcale che ha come sua unità economica minima la famiglia patriarcale. Ciò non può non insegnare che senza rivoluzione culturale non ci può essere rivoluzione dei poteri. E finché il genere non-femminile e femminile non prenderà coscienza del fatto che lo sfruttamento si regge proprio sul lavoro di cura, che permette agli uomini di produrre più lavoro perché c’è qualcuno a casa che fa le faccende, mentre alle donne permette di produrre per due, cioè per la propria famiglia, della quale è colf, baby sitter, aiuto compiti, addetta alle pulizie tutto in una volta, e per la propria azienda, allora la schiavitù del lavoro non avrà mai fine. In questo momento, il sistema sta togliendo qualcosa all’uomo-padre (disertore del patriarcato, però!), per esempio, privandolo del suo diritto ad essere genitore. Sta togliendo, inutile dirlo, qualcosa alla donna, che non ce la fa più a sostenere da sola il peso di una famiglia che non riesce più a godersi, e di cui è effettivamente schiava. Siccome la donna ricopre tutt’ora il ruolo di angelo del focolare, che le piaccia o meno, al momento che si sposa o che va a convivere, le domande su cosa si sta perdendo l’uomo, su cosa lascia alla donna da fare, su cosa non vuole più mettere in discussione di sé e del suo ruolo, sono importanti e non possono non essere affrontate (quando scrivo ciò ovviamente penso alla famiglia tradizionalmente intesa). L’uomo marito/convivente, spesso padre, si sta perdendo, come si è già detto, la possibilità di viversi il congedo parentale, innanzi tutto. Di esso ne usufruisce sempre la madre, quasi mai il padre (ricordandoci del fatto che in Italia la legge non permette ad entrambi i genitori di prendersi la maternità/paternità in contemporanea). Credo che effettivamente, come disse Jones Mannino al tavolo di Tor Vergata “Non puoi dire che quello è tuo figlio finché non stai a casa con lui a giocarci, farlo addormentare, pulirgli il culo.”
La questione della paternità è una questione di primaria importanza per gli uomini che decidono di diventare padri. Lo è perché portandola nel movimento femminista potrebbero potenzialmente porre l’accento sulla maternità colonizzata delle donne, dove con “maternirà colonizzata” intendo dire che non si ha la libertà di essere madri se non si rispondono a certi canoni di madre ideale. Quasi tutti i giorni leggiamo sui giornali presunte ricerche scientifiche che pretendono di rispondere al malessere dei bambini riconducendo tutta la responsabilità alla madre. La domanda è: il padre, dov’è? Ancora: un programma televisivo che va in onda su La7, di nome SOS Tata, descrive perfettamente questa situazione: i genitori – anche se solitamente quello più preoccupato è la madre – chiedono aiuto, disperati, ad una tata, affinché rimetta in riga i loro figli. Quasi sempre lei non fa nient’altro che ripristinare i ruoli classici della madre e del padre, assegnando e ricordando loro il loro ruolo di genitori.
Ho notato che solitamente alle donne (mentre si barcamenano tra lavoro e figli) viene consigliato di stare più tempo con la prole, senza distinzione di sesso, invece agli uomini viene dato affidato il figlio maschio che non riesce a sviluppare un carattere forte, da piccolo macho. Dall’altra parte, alle figlie femmine, invece, viene in qualche modo imposto di calmarsi, se sono troppo estroverse, magari consigliando loro di fare giochi che richiedono più riflessione e pazienza, tipo la lettura, il fare braccialetti e collane, doti che probabilmente si ritengono innate, nelle donne. La domanda che spesso faccio ai maschi che ho intorno, sui venti-venticinque anni, è se a loro non dà fastidio quella rappresentazione di padre come figura assente, con un nonsoché di leggendario e ultraterreno, e che quando torna (dal lavoro, dal bar, dal circolo, dal puttantour, da dove vi pare) non partecipa alla vita del figlio se non in maniera distaccata (così come un vero uomo macho deve fare). La risposta è stata quasi sempre sì. Non sono uomo, ma penso che questo malessere nasca dal fatto che i giovani uomini con cui parlo non si sentano “all’altezza” (per fortuna!) di ricoprire un ruolo di questo tipo. Si sentono più che altro vicini alle loro madri, presenti, reali, stanche, distrutte. E, che lo vogliano o no, si ritrovano a pensare che è più probabile che rassomiglino a loro, nel pensare la vita, che al padre. Ho ravvisato la causa della maggiore affinità alla figura materna che a quella paterna, nel tipo di contratto di lavoro che la nostra generazione ha davanti a sé: precario, senza sicurezze. Che probabilmente li porterà a dover gestire più lavori insieme, esattamente come hanno visto fare per una vita dalle loro madri, che si dovevano barcamenare tra lavoro e famiglia.
Per ritornare alla Lonzi, quindi, che rigetta la maternità imposta, credo che quarant’anni dopo sia lecito allargare il discorso agli altri sessi, e in particolare agli uomini e domandarsi se, tramite il loro nuovo modo di vivere la paternità, dopo un percorso di autocoscienza maschile già iniziato da Maschile Plurale ed altre soggettività, non possano non contaminare in positivo il movimento femminista.
Personalmente rifuggo dall’idea di diventare madre, perché la vedo non solo come un’idea colonizzata, ma da cui non ho altra scelta se non aderire a quel modello: o sei madre amorevole, che si sfonda il culo per la famiglia, o sei una donna cattiva, contronatura. E’ l’istinto di sopravvivenza che mi porta a non voler diventare madre, e forse anche un po’ di paura per la possibilità di non avere altri modelli cui rifarmi. E’ un fuggire sano, il mio, ma ingiusto nei confronti di me stessa, perché il precludersi di fare qualcosa perché non si vuole essere come quel modello, è costruire la propria vita in negativo, e la paura che non rimanga niente di costruttivo è tanta.
Non credo nella scelta tra famiglia e carriera. La scelta non ci dovrebbe essere, perché agli uomini non si chiede di scegliere tra i figli e il lavoro. Esattamente come noi, loro non hanno scelta se non andare a lavorare. Se lo si pone come problema, la maggioranza dirà che il figlio deve stare con la madre.
La madre, già reduce da nove mesi di maternità che non sono sempre una passeggiata, si ritrova così relegata a stare con il figlio a casa. Per poco tempo, se il nido le accorrerà in aiuto, a lungo, se dovrà aspettare la materna.
Lo Stato italiano, in questo senso, non ha mai investito per le donne, su un welfare decente. Anche su Femminismo a Sud è stato più volte messo in evidenza come lo Stato italiano veda le donne come veri e propri ammortizzatori sociali, e come esse praticamente siano considerati dei riempibuchi.

Il problema, per il movimento femminista, è che finora ha evitato di pensare che anche gli uomini potessero essere vittime inconsapevoli di questa mancanza di welfare, accecati dall’illusione di essere liberi perché stanno tutto il giorno fuori casa, o, se in casa, impegnati a guardare la televisione sul divano. I problemi cominciano, per il sesso maschile, con le separazioni: se infatti io uomo ho a casa chi cucina, lava, stira, cura i figli al posto mio, nel momento in cui mi separo da mia moglie non ho più a disposizione una cuoca, una domestica ed una baby sitter. Da qui molte violenze, ovvero perchè la donna ancora una volta viene ridotta, come già detto, a lavoratrice (non retribuita) anche in casa sua. E nel momento in cui l’uomo ammazza la moglie che lo vuole lasciare perché si sente solo, o meglio, che si sente incapace di gestire la propria vita senza una donna, lì vedo lo Stato connivente, in ogni femminicidio. Non voglio dire con questo che gli uomini che uccidono sono vittime. Voglio dire che bisognerebbe iniziare a pensare agli uomini come indispensabili nel movimento femminista anche per prevenire femminicidi e violenze domestiche.
Perché gli uomini che uccidono le loro mogli, al momento della separazione, non sono pazzi, non sono geneticamente predisposti alla violenza, non più di quanto non lo siano i compagni che hanno deciso di mettersi in discussione. Sono figli di una cultura che li ha sempre giustificati nel loro non-fare, nel loro deresponsabilizzarsi. Mettere in luce questo fenomeno è estremamente importante, perché personalmente da femminista provo spesso un sentimento di impotenza quando leggo del femminicidio del giorno. C’è chi pensa che l’unico modo d’agire per cambiare queste situazioni di violenza sia allontanare la donna vittima di violenza, dal suo carnefice; io credo che non basti, penso che serva una prevenzione vera che faccia vedere ai maschi quello che non devono diventare.
Credo sia compito del femminismo, questo, perché ha un vantaggio di almeno mezzo secolo di riflessione sulla violenza di genere.

Appunti sul movimento studentesco.

“Caro compagno sessista, a me non mi freghi.
Puoi avere il Che tatuato in fronte,
falce&martello cuciti sulle mutande,
il Capitale nella tua libreria nell’edizione originale
e saper cantare l’Internazionale in russo,
ma per me sempre fascista rimani.
Perché il potere del maschio ti piace, te lo tieni stretto;
non m’importa di che colore te lo rivesti:
sempre schifo mi fai.
Questo uomo no.”
Questo uomo no #14,
di Lorenzo Gasparrini
(tratto dal blog: questouomono.tumblr.com)

La ragione principale per cui ho deciso di mettere nero su bianco questi pensieri sparsi, è che ho sempre partecipato alle lotte studentesche (sia alle scuole superiori, che all’università), e lì ho potuto constatare che la presenza femminile è importatissima. Senza ragazze non ci sarebbe il movimento studentesco, praticamente, perché dietro ad ogni manifestazione, sit-in, corteo, protesta, c’è un lavoro pratico di comunicazione (scrittura degli striscioni e loro ideazione, scrittura dei comunicati, e molto altro) che viene svolto principalmente dal sesso femminile. Prima di continuare a parlare di questo argomento bisogna specificare che con “movimento studentesco” si fa riferimento a moltissime realtà, alcune più organizzate, altre meno, in ogni caso non essendo io tesserata ad alcuna associazione, ho potuto partecipare e assistere da esterna a microrealtà, che però possono essere prese come eloquente esempio per un’analisi.
Ho constatato che molte ragazze non hanno coscienza del fatto che come donne sono più attive dei loro compagni maschi, ma che tuttavia questi ricoprono ruoli più gerarchicamente importanti. Nella maggioranza dei casi se si fa un’assemblea, nonostante magari essa sia stata precedentemente preparata dalle ragazze, saranno i ragazzi ad introdurla, fare il punto della situazione, moderare, insomma, a dirigerla. Un altro ruolo ricoperto solitamente dai maschi è quello di guardie. Se si teme che un gruppo di fascisti possa aggredire chi sta facendo assemblea, cosa che a volte accade, i maschi del movimento si piazzeranno fuori dal luogo in cui si svolge la riunione a tenerli alla larga. Molto spesso si ricorre a mani, spranghe, a metodi violenti, insomma, che non sono, a parte alcune eccezioni, estremi rimedi cui si ricorre per difendersi, ma al contrario diventano uno dei pochi modi in cui i ragazzi finiscono per fare politica. Il fatto che non si sia mai riflettuto su quanto è fascista questo metodo di lotta, su quanto poco abbia a che fare con l’antifascismo fieramente propugnato in assemblee varie, mi fa venire in mente che in quei contesti il femminismo potrebbe essere di grande aiuto innanzi tutto per le ragazze, per far capire loro il grande ruolo che giocano nella politica della loro microrealtà, e potrebbe insegnare ai ragazzi altri codici per esprimersi che non siano per forza di cose quello della violenza. Insomma: i metodi di chi si dice antifascista, senza coscienza femminista, sono veramente tali? Oppure si ripropongono le stesse logiche fasciste che si dice di rifiutare?
Anche i maschi del movimento studentesco (che poi spesso vanno ad ingrossare le fila dei movimenti del lavoro), debbono essere coscienti delle loro pratiche, perché io donna con loro ci
lotto, che mi piaccia o no, ed è con loro che voglio costruire un presente diverso. E trovarmi a lottare a fianco di uomini e donne maschilisti, che, come raccontava di sé sempre Jones Mannino, stanno dodici ore a fare politica “antifascista” fuori casa, ma la possono fare perché c’è qualcuno a casa che gli fa il letto e si occupa di loro, insomma, perché si deresponsabilizzano un’altra volta – con questi uomini non si può costruire niente di diverso, semplicente perché il loro privato è fascista. Di nuovo: non si può lottare con uomini che vedono in me donna, qualcosa da proteggere da un potenziale attacco. Non abbiamo bisogno di qualcuno che ci protegga. Probabilmente le lotte separate nascono proprio laddove si rinuncia a capire che dall’altra parte non c’è un oppressore, ma un uomo che non ha capito che la lotta non è solo quella tradizionalmente intesa (assemblea, corteo, sit-in), ma è anche discutere se stessi e il modo in cui la si fa. Si deve ridiscutere la divisione dei ruoli, i metodi della lotta stessa, e soprattutto bisogna ridefinire bene gli obiettivi. Il movimento studentesco ha intenzione di incrociarsi casualmente con la riflessione femminista, oppure è disposto a mettere in discussione i propri obiettivi davvero? Se il movimento studentesco si occupa, infine, di futuro, che futuro prevede per i generi?
Credo che la riflessione nel movimento studentesco sia importantissima, al di là degli obbiettivi, delle perdite e delle conquiste, soprattutto perché è in quegli anni che i ragazzi e le ragazze si
formano, e che iniziano a stabilire una relazione (positiva o negativa) col mondo circostante, e i maschi, guardando ai ragazzi del movimento, potrebbero pensare che in ragione del loro sesso gli si chieda determinate cose, che magari non possono o non vogliono dare. Stessa cosa la possono pensare le femmine nel momento in cui si interfacciano con ragazze che si fanno in quattro per far funzionare le cose, ma che poi si ritrovano a non avere praticamente voce in capitolo nel modo di agire del movimento, se non aderendo ad una pratica di lotta che non appartiene loro. Mi azzardo ad avanzare l’ipotesi che molto probabilmente il movimento studentesco ha perso di vivacità anche perché in una forma più o meno rigida come quella che si è andata costituendo nel tempo (che in realtà va poi a rassomigliare moltissimo ad un partito oberato di burocrazia), la vivacità e l’entusiasmo vengono smorzati da chi crede di avere il libretto d’istruzioni della lotta tra le mani – oltre al fatto che ultimamente le cose si muovono solo d’autunno, che le manifestazioni serie si fanno esclusivamente da ottobre a dicembre, come se ci fosse un periodo dedicato allo sfogo collettivo, e poi si torna tutti a studiare, da bravi bambini. In ogni caso, non trovando molti, tra ragazze e ragazzi, altre alternative al movimento studentesco di ora, gli si adattano, nelle pratiche. Ciò l’ho potuto constatare coi miei occhi, e le conseguenze più terrificanti sono che queste persone diventano frustrate e arrabbiate, e quando decidono di distaccarsi da certe pratiche, disertando quel modo di fare politica che ha troppi connotati fascisti, fanno un vero e proprio coming out, subendone ovviamente tutti gli effetti collaterali negativi, tra cui l’emarginazione, molto spesso. Tantissime energie positive e rinnovatrici vengono disperse, lasciando a se stessi molti ragazzi e molte ragazze che si trovano a non poter dare alcun contributo al cambiamento delle cose, ad un nuovo avvenire. Molto spesso queste persone si accodano a cortei organizzati da altri, perché è l’unico modo che hanno per protestare, per andare contro la realtà dei fatti. Il femminismo, che si è sempre occupato della donna, nella sfera privata così come in quella pubblica, può dare un contributo decisivo nel ricordare a tutti una cosa fondamentale: quando lottiamo, per cosa lo facciamo, ma soprattutto per chi, e per quale futuro? Mi sono ritrovata a lottare contro una riforma (una qualsiasi, tanto i tagli li hanno applicati tutti i ministri dell’Istruzione). Ma quando c’era da proporre, da condividere la propria visione del mondo, le divergenze erano veramente abissali. Mi rendo conto che possano costituire una ricchezza interna al movimento, ma non posso lottare con persone che vedono il problema solo nel contingente, o ancora, che isolano la questione della riforma come qualcosa di a sé stante. I tagli non sono nient’altro che una delle mille sfumature del capitalismo, e so che c’è chi nel movimento l’ha capito, ma purtroppo manca di efficacia nel comunicare, o comunque mette sempre dei recinti intorno al proprio spazio: o dentro, o fuori. O con noi, o contro di noi. Se sei contro di noi, sei fascista. E questo aut-aut mi ricorda a sua volta, di nuovo, un tipo di pratica, quest’ultima, sì veramente di destra.

Conclusione.

Negli anni ’60-’70 una generazione ha combattuto perché le cose cambiassero. Io non so cos’hanno provato, quando negli anni Ottanta tutto è finito, posso solo ipotizzare come ci siamo arrivati a questo punto, lo posso ipotizzare proprio a partire dall’analisi di quel 13 febbraio che non mi auspico si ripeta più. So di per certo che ci sono state delle donne che hanno proposto dei concetti nuovi, forti, che ci sono state delle conquiste gigantesche, ma che ora queste non solo necessitano di essere salvaguardate (visto che vengono messe in discussione tutti i giorni), ma, di fronte all’enorme crisi capitalista, attraverso questi e altri concetti, abbiamo bisogno di riappropiarci delle nostre vite (e con ciò non voglio essere retorica: penso veramente che esse siano in tutte le mani, fuorché nelle nostre). E credo che ciò sia possibile solo tramite il superamento della questione di genere come lotta fine a sé, per parlare invece di questione dei generi. Non voglio dire con questo che le donne sono emancipate e che sulla questione del genere femminile non ci sia più niente da dire; credo che questo “dire” sulla lotta di un genere, abbia senso solo se integrato alle riflessioni degli altri generi. Ciò, come ho provato a descrivere in questa riflessione, comporta tanto lavoro (personale e politico) da parte di tutt*, ma credo che senza questo modo di affrontare le crisi capitalistiche, la questione del lavoro, dello studio, della salute, dell’energia, dello Stato, del Potere, insomma, senza affrontare la Vita nell’ottica della questione dei generi nessuna lotta avrà molto futuro.

S.G.
Roma, 29 marzo 2011.

 

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3 Responses

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  1. S.G. says

    @Luisa. Domande legittime.
    Ho scritto questi pensieri pensando a degli uomini in particolare
    che so per certo sono interessati a queste tematiche.
    Penso che non siano casi speciali, penso che veramente negli uomini ci sia
    la volontà di aderire ad un nuovo modello, modello messo in luce
    da maschile plurale, per esempio, associazione che non tutti conoscono
    o di cui magari non condividono le pratiche ma il pensiero in generale.
    Non credo quindi che il contributo maschile non arrivi. Comunque, nel caso,
    si continua a fare come si è sempre fatto, anche se secondo me sarà una lotta
    limitata. Non volevo dire che la questione femminile debba essere messa in secondo
    piano, anzi, verrebbe addirittura esaltata se arricchita dall’esperienza maschile.
    Non penso vadano educati. Penso che nel momento in cui un uomo sente un disagio,
    allora ha la possibilità di affrontarlo sotto questo aspetto. E’ lo stesso discorso
    per una donna non femminista: la devi educare? No, semplicemente le fai vedere quello
    che non ha o che ha in quanto donna. Ci parli.
    Per il resto: ho specificato che gli uomini debbono farla l’autocoscienza da soli
    (momento separatista), così come le donne, ma per me non è utile questa cosa come
    fine a sé. Li conosciamo perchè i maschi femministi sono pochi, le donne femministe
    parecchie..
    Per inciso, non ho detto che gli anni Settanta fanno schifo, anzi. Mi sembra d’aver
    scritto quello che può essere ripreso da quegli anni e quello che no, secono me che ho
    vent’anni negli anni ’10 del 2000.
    Per il resto, sono d’accordo con te. Non li considero persone da evangelizzare, né
    tantomento figli miei,
    ma semplicemente persone da render partecipi a percorsi che sono stati
    quasi sempre ovviamente femminili, perché se sei uomo credi di aver la vita facile,
    ma tra il tuo io e quello
    che poi la società patriarcale vuole che tu sia, ce ne passa. Ed è lì che nasce
    il disagio, ed è lì che il femminismo dovrebbe lavorare, o almeno personalmente
    sarebbe interessante che lavorasse.
    Il discorso sulla paternità: bè, credo che il patriarcato si possa cambiare anche
    da dentro. Nel momento in cui uomini e donne sono coscienti che il modello di famiglia
    patriarcale non ha senso, esso si disfa.

  2. Luisa says

    Domande tecniche, ma premetto che sono separatista:
    E se il contributo maschile non arriva, che si fa ?
    Aspettiamo altri millenni di questione femminile che viene messa in secondo piano? Arriva da solo il contributo maschile o li dobbiamo educare? E facendolo, quante speranze hanno di essere soggetti? (ricordo che anche noi siamo state educate secondo i parametri dell’altro genere e non è che sia andata molto bene alla nostra diversità)
    Le diversità insite nella società si valorizzano perchè i vari gruppi o gli individui prendono coscienza della loro, o ci vuole un piano prestabilito in partenza?
    Su che parametri avviene il confronto fra gruppi/diversità/generi?
    Perchè gli uomini non possono fare autocoscienza da soli? Ma soprattutto perchè sono solo più o meno 15/20 in Italia gli uomini che la fanno? E come mai li conosciamo tutte mentre collettivi ben più numerosi di donne che operano per decenni su un territorio sono sconosciuti alle più e ai più? E quant’anche si abbandonasse la lotta “scellerata” degli anni settanta e il suo separatismo, perchè dovrei buttarmi nella evangelizzazione dei maschi (non è che tutte possiamo avere contatti con i due o tre piacevoli e divertenti dei 15/20 che hanno preso coscienza, per quanto loro preferiscano aver contatti con le donne piuttosto che con i beceri del loro sesso) proprio adesso che ho scoperto il piacere di fare politica con le donne (ammetterai che le politicizzate sono molto più versatili degli uomini)? Perché chi non fa politica separatista pensa che stare fra donne sia un partito preso e non un seguire la legge del desiderio?
    Non gli farà male avere sempre davanti un tappeto rosso, qualsiasi cosa facciano, tipo quella di essere esseri umani normali e non beceri maschilisti? Non dimentichiamoci che hanno costruito la loro identità con noi come specchio.
    In ultimo: il sistema patriarcale è piramidale: non opprime tutti allo stesso modo: esempio una donna bianca borghese sarà sempre meno oppressa di un iraniano maschio in un carcere statunitense. Ciò non toglie che affinché l’oppressione sia attuabile ci vogliono delle categorie in cui fare rientrare gli oppressi e queste hanno le caratteristiche che i maschi hanno affibbiato alle donne.
    Per finire forse ho più fiducia io che sono separatista, che anche gli uomini abbiano la possibilità di cambiare, però l’esperienza mi insegna che quando cambi tu intorno anche gli altri cambiano e lavorare sul cambiamento delle donne è un buon sistema per far nascere dei maschili plurali o degli uomini in cammino, senza doverli per forza considerare come figli nostri.
    Il discorso sulla paternità è invece molto più complesso, in quanto il concetto esiste unicamente nelle società patriarcali ed è stato inventato per essere funzionale ad essa. Non vedo come si possa cambiare il patriarcato assumendo e rimodernando un assunto che trae significato dal patriarcato stesso e che fuori di esso non ha senso.
    Luisa Bologna

  3. francescap. says

    Tanti Tanti Tanti complimenti per questo post: la strada della consapevolezza è lunga da percorrere ma è piena di gente di ogni genere.