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“Mia sorella e’ figlia unica” riflessioni meridiane e femministe sull’unita’ d’italia
Il 26 Febbraio Tamar Pitch, docente di filosofia e sociologia del diritto a Perugia, scrive sul Manifesto un breve articolo che, prendendo le mosse dall’appello promosso dal Comitato “Se non ora quando” in vista dell’otto marzo, provava a tracciare con esso una profonda discontinuità sul piano del nesso troppo scomodo tra donne e nazione, o meglio, tra appartenenza nazionale e rivendicazione femminile che quell’appello sottolineava, proponendo di legare a doppio mandato la giornata internazionale delle donne alle celebrazioni prevista per il 17 Marzo, anniversario dei 150 anni dell’Unità di Italia.
L’appello in questione, quello che richiamava per l’otto marzo, in continuità con la straordinaria mobilitazione del 13 febbraio, una nuova giornata delle donne, era foriero di un punto di vista a nostro avviso inaccettabile e francamente esemplificativo del caos motivazionale che ha sostanziato le rivendicazioni della piazza femminile allarmata dal caso Ruby, quella appunto del 13 febbraio; una piazza sì moltitudinaria e finalmente pienamente costruita da donne e per le donne, ma pure una piazza costruita sulle parole d’ordine del perbenismo di stampo cattolico, una piazza pronta a giudicare e a condannare più di quanto fosse pronta a capire.
Quella convocazione in piazza , caduta onestamente un po’ nel vuoto di una mancata risposta verificatasi poi durante tutta la giornata dell’ otto, mostra la necessità da parte delle donne che si riuniscono attorno al comitato “Se non ora quando”, di accomodarsi nuovamente nell’alcova del perbenismo, teso a prender per buono tutto quello che si sottrae alla panacea del berlusconismo, e a mettere alla berlina tutto ciò che indigna la larga fetta del ben pensare, nonché ogni forma di ragionamento più complesso.
Dinanzi a questa spaventosa semplificazione la Pitch provava a ricordare che il richiamo nazionalista ed unitarista, tutto coperto di tricolore e di coccarde, non è certo per la storia femminile e soprattutto femminista di questo paese un fatto neutrale o peggio una scelta tattica. Esso ha in sè piuttosto il pericolo del mescolamento delle carte, della produzione di un senso confuso attorno a un valore (quello nazionalista) colpevole di aver disegnato sempre un profilo femminile subordinato , funzionale al patriarcato, relegato nell’ambito domestico e tutto dedito ad una cura familiare funzionale alla buona riuscita dei figli della stessa nazione.
Pochi giorni dopo, al testo della Pitch risponde, sempre sul Manifesto Annamaria Riviello, proprio una delle donne promotrici della manifestazione del 13. Nella risposta la Riviello insiste circa la necessità di rimodulare in questa epoca complessa e travagliata un ragionamento che tenga dentro , anche solo per necessità, un punto di vista nazionale, che riesca a raccontare un mondo di donne che in risposta alla corsa ai guadagni facili, alla prostituzione o alla mercificazione del corpo, strumentale alla possibilità di ottenere immediati vantaggi materiali, proponga piuttosto un modello virtuoso di donne instancabili, lavoratrici e mamme, sorelle, o nonne, dedite ancora e sempre alla “cura” familiare e per questo degne, unicamente “degne” del rispetto e dell’ammirazione del proprio genere e del contesto collettivo, quello appunto della “nazione”. La Riviello prova, per uscire fuori dall’evidente ambivalenza di questo richiamo alla nazione ed ai suoi valori collettivi, un disperato appello a Gramsci, nei termini di una nazione intesa come luogo dei rapporti tra governanti e governati, luogo necessario alla trasformazione delle passioni singole, in spinte collettive, fondamento della possibilità di ogni convivenza.
Proprio da questo richiamo ad Antonio Gramsci, a nostro avviso voce molto più meridiana che nazionale, fondatore di quegli studi subalterni che hanno fornito la possibilità di una emancipazione prima di tutto teorica dei subalterni dei sud del mondo, vogliamo esprimere un punto di vista di donne di Sud, donne militanti, rifiutando anzitutto l’omologazione di convenienza della esigenza di una nuova questione femminile, certamente resa evidente anche (ma non solo) dalla giornata del 13 febbraio, all’opportunistico richiamo a celebrazioni in pompa magna di quell’unità nazionale piena di buchi neri, di faglie, di vuoti di memoria e di strumentali oblii, che la sofferenza del presente nel mezzogiorno di Italia finisce per evidenziare senza riserve. Non crediamo che basti l’appello ad un autore, pure se di grande levatura politico-filosofica come nel caso di Antonio Gramsci, a liberare dalle derive reazionarie che il nesso donne-nazione tiene dentro pericolosamente.
Crediamo piuttosto che sia necessario, oggi più che mai, ripartire da dove si è lasciato, o da dove ha lasciato chi è stato protagonista degli avanzamenti in termini di diritti (e non solo) delle donne di questo paese. Crediamo di sapere come non dover fare confusione tra la nostra storia e la storia di chi ci vuole ancora subalterne ed ancora costrette nelle grinfie delle pretese patriarcali. Crediamo che l’educazione ad un pensiero femminile abbia un merito sopra ogni altro, che è quello di aver operato una cesura netta con richiamo all’universale, identificando con questo un prodotto storicamente determinato frutto dell’invasione culturale
del maschile. Il pensiero femminile è pensiero singolare e della differenza perché non ha bisogno di cedere al fascino dei grandi valori universali di patria, famiglia e nazione . Il pensiero femminile insegna a leggere i fenomeni del mondo con la parzialità del proprio punto di vista, fuori dal tatticismo delle scelte di comodo. Ecco perché proprio il pensiero femminile ci costringe a partire dalla terra che abitiamo e dalla vita che viviamo, per decidere in quale direzione essere donne e cosa rivendicare da donne. La terra che viviamo a sud, la città che abitiamo ai margini della periferia della sua stessa periferia meridionale ci ha insegnato che l’unica narrazione che ci appartiene è quella della ribellione necessaria ad una subalternità, che da donne avvertiamo in modo ancora più eclatante, nei confronti di una Nazione che per centocinquant’anni ha costruito sulla nostra pelle i fasti delle sue conquiste, cucendoci addosso profili antropologici volti a giustificare un degrado a cui le speculazioni ci condannavano, gettandoci nel vortice senza ritorno della devastazione dei territori, delle discariche abusive che servono ad inghiottire gli scarichi di aziende che producono altrove, ad ospitare grandi impianti industriali per decenni spacciati come unica medicina per salvare il Sud dalla sua irrefrenabile tendenza all’inedia, e poi rivelatisi invece solo centri di propulsione di tumori di massa.
Ecco da Sud, da donne militanti, perché non possiamo cedere al fascino indiscreto della nazionalità come feticcio collettivo auto-assolutorio, non soltanto delle esperienza passata che oggi resta cicatrice indelebile sui nostri corpi nudi, ma di un presente che rincara la dose della nostra subalternità. Ecco perché alla luce di questa subalternità non si arrestano, nonostante la consapevolezza dei rischi, i processi di divisione economia e territoriale come il federalismo fiscale e municipale, ecco perché ancora le risorse artistiche e culturali delle nostre regioni dei sud sono lasciate all’incuria e al clientelismo connivente con i governi nazionali che generano crolli-simbolo come quelli delle domus pompeiane. Così come in nome proprio delle subalternità come applicazione scientifica di un universale antropologico, spesso le terre del sud hanno mostrato di diventare banco di prova dei più reazionari provvedimenti padronali nel mondo dell’industria e del lavoro in generale, così come luoghi della più becera devastazione ambientale e territoriale. In tutti questi casi, alla risposta di chi viene oppresso da questa spoliazione arbitraria di diritti, lo Stato ha risposto sospendendo le norme ordinarie, utilizzando la forza del manganello e del lacrimogeno, calpestando i corpi e le vite, spesso proprio delle donne, che combattevano in difesa dell’ambiente e della salute dei propri figli o del posto di lavoro, la cui assenza pesa a Sud molto più che altrove. Allo stesso modo e nella stessa direzione vanno tutte le forme di austerity a cui strumentalmente la crisi ha costretto e che a Sud si è trasformata in tagli alla spesa pubblica, ai servizi scolastici all’assistenza sanitaria, che in un territorio già devastato, amplificano enormemente la crisi sociale.
Per tutte queste ragioni abbiamo sentito la necessità di smarcare il nostro punto di vista singolare, collettivamente ragionato, dall’occasione delle celebrazioni unitariste, consce di un rifiuto completo della genitorialità patriottica (Il Padre/Stato o la Madre/Nazione), come figura d’antitesi allo smarrimento di valori, mandato in scena dai video a luci rosse di Ruby, smarrimento a cui non si può rispondere riproponendo il topos insopportabile della donna che imbandisce la tavola nei giorni di festa, che provvede alla cura dei figli, e che provvede pure lavorando alla produttività della Nazione a cui fieramente appartiene. E’ questa la storia di uno spot, lungo il tempo di esser smentito dalla fotografia del Paese reale, quello in cui le contraddizioni schierano le appartenenze molto prima che possa farlo la retorica, che per un giorno almeno ogni 150 anni vuol farci sentire “Sorelle d’Italia” , trattandoci tutti gli altri come figlie uniche.
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