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La sopravvivenza dentro una valigia

Volevo essere sicura di aver sistemato tutto. Sarà stata la forza dell’abitudine ma non sono riuscita a chiudere quella porta senza aver prima lucidato a specchio i pavimenti della casa, spolverato le mensole, lavato e asciugato tutti i piatti, cambiato le lenzuola, sistemato la biancheria pulita dentro i cassetti, ripulito il bagno, disincrostato perfino le piastrelle e schiarito i vetri delle finestre. Avevo proprio fatto il mio dovere, anche se me ne andavo senza un preavviso. Però lasciavo il frigo pieno di pietanze già pronte. Bastava solo riscaldarle. Perché mai lui si sarebbe dovuto lamentare?

Presi l’aereo per una nazione qualunque, la più lontana dei confini europei. Era troppo complicato fare il passaporto senza che lui lo sapesse.

Mi ero fatta prestare i soldi da mia madre. Le feci giurare di non rivelarlo mai a nessuno. Avrebbe dovuto dire semplicemente che non sapeva dove me ne fossi andata.

Mi sentii al sicuro solo quando varcai la soglia dell’aereo. Fino a quel momento temevo di essere braccata, fermata, rinchiusa. Eppure non avevo fatto nulla di male.

Scendere dall’aereo comportò alcuni problemi. Odio le scale e non avrei mai voluto affrontare neppure un gradino se non fosse stato per la mia voglia di vivere.

Avevo scelto una nazione a caso, un posto vicino al mare, un po’ di sole, ottimo clima per le mie ossa indolenzite. Non mi lamentai per tutto il viaggio, riuscii a sbarcare e consegnarmi alla polizia aeroportuale.

Ci fu bisogno di un interprete perché essendo nuova del posto sicuramente non conoscevo bene la lingua.

Chiamarono un medico perché gli antidolorifici non facevano più effetto. Furono sorpresi di sapere che quello scempio risaliva alla sera prima. Avevo una spalla rotta, una lesione al braccio destro, con il quale avevo tentato di difendermi, grossi lividi su tutto il corpo, soprattutto sulla schiena, una lacerazione non profondissima su un fianco rattoppata alla meno peggio che mi faceva perdere sangue a piccole dosi. Riuscivo però ancora a stare in piedi, per volontà di sopravvivere.

Sapevo che non sarebbe stato sufficiente andare in ospedale o in un rifugio raggiungibile che il mio convivente avrebbe trovato in un baleno.

Il paese che avevo scelto mi accolse con una autoambulanza efficiente, una signora dall’espressione disinvolta che scherzava sul fatto che non sapeva che le organizzazioni a tutela delle donne del suo paese erano diventate così famose al punto tale da sollecitare un espatrio in quelle condizioni.

Fui pronta a denunciare, con l’assicurazione che non sarebbe stato necessario tornare in patria o testimoniare al processo. Avrebbero pensato a tutto loro, grazie alle perizie mediche e alle testimonianze dei parenti.

Cominciai a lavorare in una mensa, una cosa senza pretese, che mi permetteva di tirare avanti. Diventai volontaria dell’organizzazione contro la violenza sulle donne per parlare a quelle che venivano dall’italia. Non ne sono arrivate tante, purtroppo o per fortuna, ma ogni tanto ne è arrivata qualcuna, sulla scia di un “turismo” di necessità basato sulla rinuncia agli affetti, sulla latitanza per proteggere la propria vita.

Vivevo con loro, in una casa comune, di quelle che radunano donne maltrattate e autonome, già in grado di pagarsi l’affitto. La nostra amica del centro antiviolenza veniva a trovarci spesso, era un po’ la sentinella che si assicurava che tutte stessimo bene.

Oggi faccio la bidella in una scuola per bambini. Ho 59 anni e il mio ex convivente è morto in un incidente stradale.

Non voglio tornare a casa perché oramai è questa la mia casa ma prenderò di nuovo l’aereo, in condizioni fisiche migliori, sarò in grado di fare le scale senza dover comprimere il fianco ferito, godrò del panorama dall’alto e tornerò a dare un saluto a mia madre che nel frattempo è morta pure lei.

Vado a visitare una tomba, a ringraziare quella donna che ha mantenuto il segreto fino alla fine e che per vedermi due volte l’anno prendeva l’aereo, con o senza turbolenze, e arrivava sempre pallida, dopo aver vomitato l’anima.

Vado a riprendermi gli odori ai quali ho dovuto rinunciare, ad annusare le stanze della casa dove sono cresciuta, a rimettermi in pari con le emozioni vissute a distanza.

Vado nel posto da cui sono partita mentre pensavo di morire. Vado per fare scorta di calore, radici, tutte cose che potranno saziare le nostalgie che ho patito in questi anni.

Vado a rassicurare i miei quaderni della scuola, i libri che ho lasciato, quell’abito che mi piaceva tanto, il cappello di mia madre, che sono viva, intenzionata a restarlo ancora, il più a lungo possibile.

—>>>immagine da Humanity is Trash

Posted in Corpi, Narrazioni: Assaggi, Omicidi sociali, Storie violente.