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In memoria di Rachele, mia madre!

Gli uomini violenti fanno così. Non si può dire di no e non gli si può parlare in modo diretto. Da secoli insegnano alle donne che il modo giusto per sopravvivere è sussurrare, parlare sotto voce, sottomesse, “rispettose” nei confronti di chi comanda.

Mia madre a proposito di mio padre, che violento era in ogni suo gesto, mi diceva sempre che non dovevo farlo arrabbiare, dovevo compatirlo, dovevo diventare invisibile, evitare di esistere perché lui si accorgesse di me. Io, giuro, provavo a non farlo arrabbiare, a compatirlo, a diventare invisibile, a esistere. Poi però, ogni tanto, avevo l’esigenza di respirare e già tanto bastava perché lui si arrabbiasse.

Un’adolescente è una persona fragile, ancora confusa dalle tante bugie ascoltate dai genitori che sono intenti spesso a proteggere se stessi e le loro contraddizioni invece che tutelare te che quelle contraddizioni le fai emergere. Un’adolescente è lo sguardo ribelle, l’anima viva di una casa, quella che si prende il diritto di vivere, amare, cercare qualcosa di buono per sé facendo un difficilissimo lavoro di selezione tra quello che ti proibiscono e quello che a te non sembra davvero nulla di male.

Cosa c’è di male a innamorarsi, scoprire il proprio corpo, la propria sessualità, avere cura di sé, soddisfare la propria vanità. Nulla, voi direte. Invece per mio padre era tutto sbagliato. Perché ci sono padri che sviluppano nei confronti delle figlie una sete di controllo e di possesso al pari di quella che hanno per la loro compagna. In qualche caso sembrano combattuti tra la tentazione di possederti fisicamente per non permettere che altri lo facciano e la tentazione di rinchiuderti in casa per non lasciarti vivere.

Mio padre era, come altri padri di alcune mie amiche, quello che la rete sociale rispettava come un professionista perbene. In casa era un isterico che veniva a rompermi la matita per gli occhi o che mi toglieva le cuffie dalle orecchie per controllare la musica che ascoltavo. Non tollerava che la mia porta fosse chiusa, non mi concedeva un attimo di privacy, non voleva che io parlassi con un compagno all’uscita della scuola, non voleva che ricevessi una telefonata da un amico.

Non sto parlando di un talebano, di un uomo religioso. Tutto sommato mio padre era anche abbastanza laico, talvolta perfino anticlericale. Parlo di un uomo qualsiasi, di quelli che si nascondono dietro la facciata perbenista che può concederti l’appartamento in un condominio con un portiere.

Non farlo arrabbiare, mi diceva sempre mia madre, perché il suo era un equilibrio instabile e questo mia madre lo sapeva bene. Perché non posso essere me stessa, perché sopporti tutto questo, perché non te ne vai, mamma? Perché poi restate in mezzo alla strada. Questo rispondeva lei a me e ai miei fratelli, due, altrettanto oppressi, in modo diverso, nella loro crescita.

Un uomo violento lo riconosci perché per parlargli devi fargli le moine. Devi fare la carina con lui, devi compiacerlo, prenderlo per il culo, non puoi mai mostrare che sei una donna decisa, in gamba, con argomenti che lui neppure si sognerebbe.

Un uomo violento lo riconosci perché ti chiede di abbassare lo sguardo, perché non sopporta il tuo tono di sfida, perché vuole dominarti, perché non tollera di discutere ad armi pari, perché quando tu gli parli in modo diretto dicendogli esattamente quello che pensi allora ti becchi una sberla, un pugno, una bastonata, qualche volta una coltellata al cuore.

Rispetto. E’ una parola che risuonava spesso nei discorsi di mio padre. “Tu mi devi rispetto”. Lo stesso rispetto che lui non destinava a nessuno di noi. Solo che il suo concetto di rispetto era piuttosto sottomissione, schiavitù. Rispetto per lui significava riconoscimento del capo, di un capo isterico che non sapeva essere autorevole ma era solo un triste e malandato omuncolo che non controllava i suoi istinti violenti.

Un uomo violento è un tiranno, che fuori casa forse si batte perfino per la democrazia, ma dentro casa esercita la dittatura.

Un giorno gli scrissi una lettera, io, Severina, così mi chiamo, la scrissi a lui. Era l’unico modo per dirgli quello che pensavo senza guardarlo negli occhi, senza infastidirlo con la mia dignità e la mia fierezza. Credete che un uomo violento possa avere interesse per quello che voi gli dite? No. Diede un’occhiata alle prime righe e poi cestinò lo sforzo intimo di una figlia che raccontava di sé e rivendicava “rispetto”, quello vero.

A un uomo violento interessa solo di se stesso. Non puoi disturbarlo, non puoi parlargli in modo diretto, non puoi neppure sperare che si preoccupi per te perché sceglierà sempre e solo se stesso. Tu rappresenti un ostacolo, tu sei un insetto, una nemica da abbattere perché solo così il folle violento può sopravvivere.

Quando cominciai a preparare la valigia pensai che nessuno potesse opporsi alla mia scelta. Ero già grande, avevo perfino una possibilità di lavoro. Invece mio padre si oppose. Cominciò a urlare e allora gli parlai chiaramente, senza risparmiargli nulla, dicendogli del miserabile uomo che era. Cominciò a infierire su di me come non aveva mai fatto prima. Non mi avrebbe lasciato andare se non alle sue condizioni. Piuttosto mi avrebbe uccisa. Perché gli uomini violenti sono possessivi anche con le figlie. Mia madre si mise in mezzo, lei che quasi non esisteva, che non parlava mai, che non lo contraddiceva “per non farci restare in mezzo alla strada”. La vidi cadere e sanguinare e fu un attimo che smise di respirare. Mio padre era furioso, l’aveva picchiata per scansarla perché io ero il suo obiettivo e lui doveva arrivare a me ad ogni costo. Fu a quel punto che guadagnai spazio per scappare e cominciai a correre senza fermarmi mai.

Mi piacerebbe tanto che mia madre fosse ancora qui, con noi, per dirgli che non è vero che senza di lui siamo in mezzo alla strada. Questo è quello che qualunque uomo violento vuole farti credere. “Non sei nessuno senza di me, chi vuoi che ti prenda, cosa farai per dare da mangiare ai tuoi figli… puoi fare solo la puttana…”.

Non è vero, mamma, che siamo in mezzo alla strada. Ci manchi tu. Ci manchi davvero tanto e siamo fieri di te, del tuo coraggio, di quel gesto di coraggio che hai compiuto per permettere che almeno i tuoi figli fossero liberi.

Questo sono le madri. Questo sono gli uomini violenti. Questo siamo noi.

In memoria di Rachele, mia madre.

—>>>Diamo un grande abbraccio a Severina, i suoi fratelli e un abbraccio simbolico a questa donna che è morta per mano di un uomo violento (i nomi non sono quelli veri a tutela della loro privacy). Di tutta questa storia, noi, traiamo quello che abbiamo sempre detto: se le donne non hanno una indipendenza economica restano in stato di schiavitù di uomini violenti per tutta la vita, fino a quando quegli uomini non decidono di sopprimerla. E’ indispensabile che gli uomini violenti siano allontanati dalle famiglie, che le donne e i figli siano protetti da uomini del genere e che le donne abbiano l’opportunità, attraverso un reddito, di poter provvedere a se stesse e ai figli senza dover dipendere mai da nessuno. Una società che discrimina le donne sul lavoro, che le licenzia, le obbliga a restare a casa ad eseguire lavori di cura è una società che condanna a morte tutte le donne. Leggi il Bollettino di Guerra.

Posted in Narrazioni: Assaggi, Omicidi sociali, Storie violente.


One Response

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  1. rachele says

    mi son venute le lacrime agli occhi leggendo..si perchè anche mio padre era cosi’.Un uomo violento.
    Si somigliano tutti allora gli uomini violenti? Sono cosi’ banalmente scontati? Cosi’ pusillanimi e vigliacchi? L’unica cosa che sanno fare è pestare a sangue i propri familiari? che schifo…
    .Fortunatamente mia madre è ancora viva.
    Grazie Severina.
    rachele