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I complici

Sono un uomo come tanti. Mi sveglio la mattina, vado a lavorare, quando posso torno a casa a pranzo per scambiare due chiacchiere con la mia compagna, poi torno ancora a lavorare e la sera sono talmente stanco che crollo sul divano.

La mia compagna è precaria e lavora part time. Ha una laurea e diversi altri titoli di specializzazione e non trova un lavoro decente. Io non ho finito l’università e ho un lavoro faticoso ma almeno quello ce l’ho.
Lei si sente frustrata perché dopo aver tanto studiato non riesce a usare le risorse che ha e io mi sento frustrato perché non vedo altra prospettiva davanti a me se non quella che ho adesso.


Un giorno
per strada mi ferma un tale che dice alcune cose che non capisco. Riesco solo a recepire che ha qualcosa a che fare con la mia compagna.
Torno a casa e le chiedo se conosce un tipo così e cosà. Lei diventa pallida e mi dice “è lui”.

Mi aveva parlato di un “lui” di molti anni prima ma ancora non capisco cosa possa volere da me. La mia compagna allora mi dice che probabilmente gli è venuta la mania ciclica di molestare. Le dico di non preoccuparsi, che tanto ci sono io, e altre ingenuità del genere. Ancora non avevo ben chiaro cosa fosse per una donna dover subire una simile persecuzione.

Il giorno dopo lo ritrovo fermo vicino la mia macchina. Gli vado incontro baldanzoso immaginando di potergli parlare da uomo a uomo per dirgli che ora basta, lei sta con me, fattene una ragione. Lui schiaccia la sua testa contro la mia, mi parla attaccato alla faccia, occhi negli occhi, i suoi sono minacciosi, continua a sputare, mi riempie di saliva, provoca, spinge, vuole una scusa qualunque per aggredirmi.
Provo ad allontanarmi dicendogli calmo che se continua così l’avrei denunciato. Come risposta mi spacca un faro della macchina.

Dico alla mia compagna quello che è successo e lei cambia di colpo. Non l’ho mai vista così, quasi non la riconosco, è letteralmente terrorizzata, respira a fatica, le sta per venire un attacco di panico e mi rendo conto di quello che deve aver passato. Continua a dire “mi dispiace, mi dispiace”, “ma mi dispiace di che?” rispondo io “di averti coinvolto…”.
E parla con convinzione, come se lei non avesse più diritto a niente, come se fosse una perseguitata dalla criminalità organizzata, una specie di latitante che deve stare attenta a cosa fare e a chi coinvolgere.

Le dico che sono io che mi sono voluto coinvolgere, l’amo alla follia, la stimo come nessuna, è la donna che ho cercato da sempre, non me la lascio scappare perché un criminale continua a pensare di avere dei diritti su di lei.


Il giorno dopo
esco convinto di andare a fare la denuncia. Lo trovo fuori dal portone a sfidarmi. Mi dice che se lo denuncio lui farà del male alla mia compagna. Sa dove trovarla, quando, che orari ha, quando rincasa, tutto.

Telefono al lavoro per dire che non mi sento bene e rientro in casa ad aspettare lei. Sono preoccupato. Non farò nessuna denuncia fino a quando lei non è al sicuro. Più che altro mi sento impotente. Cosa sono io, povero operaio, di fronte ad un altro uomo che pensa di essere dio? Chi altri può avere la presunzione di limitare la vita di un’altra persona, di ricattarla, di molestarla, di ucciderla, se non qualcuno malato di manie di grandezza e di dominio?

Sento il rumore del motorino della mia compagna, scendo le scale, faccio prima che posso, cado e mi faccio male, mi rialzo, apro la porta.

Lei è lì a terra, che sanguina, è ancora viva, lui mi impedisce di avvicinarmi, mi minaccia con il coltello. Lo spingo forte, mi ferisce un braccio, mi metto a urlare, arriva gente, lui scappa, la mia compagna continua a sanguinare.

Quando arriva l’ambulanza è troppo tardi, lei è già morta, tra le mie braccia, con i suoi sogni di donna che aveva tanto studiato e che sperava di cambiare il mondo.
Anch’io sono morto, assieme a lei, in quel momento, ed era morta con me la voglia di svegliarmi la mattina, andare a lavorare per due soldi, fare turno unico fino a sera perché non c’è più nessuno da cui tornare e poi crepare ogni sera sul divano sapendo di non essere niente di più che un semplice automa.

Lui l’hanno preso. Il difensore dice che è stato “raptus”. Dove sta il raptus per uno che va in giro con un coltello e che progetta di ammazzare una persona non lo capisco. Qualcuno dice che forse lei lo ha provocato.

Per me sono tutti responsabili, lui che aveva il coltello in mano, l’avvocato che lo difende e quelli che lo giustificano. Fino a quando esisterà gente così gli assassini resteranno impuniti e quelli come me non sapranno davvero che senso ha alzarsi ogni mattina, andare a lavorare…

—>>>Leggi il Bollettino di Guerra

Posted in Anti-Fem/Machism, Disertori, Narrazioni: Assaggi, Omicidi sociali, Storie violente.


2 Responses

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  1. Phoenix says

    L’errore che hai fatto è stato quello di lasciarsi intimidire dalle sue minacce per non chiamare la polizia, in questo modo ti sei isolato, bisogna parlare sempre, la violenza vive di silenzio, di omertà, se trova persone che parlano, che dicono la verità, che chiedono aiuto, che si tengono per mano e stringono patti di sorellanza / fratellanza, la violenza non prende piede, per il futuro aiuta chi subisce violenza e chiedi aiuto se la subisci.

  2. Livio says

    E dopo aver subito intimidazioni di vario genere, minacce e tentativi di aggressioni, se tenti di difenderti attaccando per primo, perché credi di avere ragione e che se uno ti minaccia ritieni giusto non aspettare che ti uccide e che uccide la tua compagna per reagire, finisci per essere processato, di non essere creduto, di finire dentro come un normale delinquente e di lasciare la tua compagna senza nemmeno il tuo appoggio morale, in balia di quel pazzo ed è allora che in galera ti penti di non averlo ucciso. Così un bravo ragazzo diventa un criminale! Vogliamo leggi giuste che puniscono anche chi minaccia solamente, punizioni che lasciano il segno e che facciano abbandonare la voglia di riprovarci. La storia l’ho letta su di un giornale vecchio di qualche anno fa. Però è valida a tutt’oggi.