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Creare la confusione per far sparire i fatti: l’occultamento delle violenze maschiliste contro le donne

Da Donne della Realtà:

di Patrizia Romito
docente di Psicologia sociale all’Università di Trieste

A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, nella maggior parte
dei paesi industrializzati sono avvenuti dei cambiamenti importanti
nella percezione e nel contrasto della violenza degli uomini contro le
donne: in vari paesi europei, sono state abrogate delle leggi che
sanzionavano la dominazione e la violenza maschile nella coppia[1];
sono state  altresì promulgate sia leggi maggiormente repressive nei
confronti degli aggressori sia leggi di natura preventiva, come
l’ordine di protezione o di allontanamento, sia leggi che configurano
nuove tipologie di reato, come quelle che reprimono le persecuzioni, o
lo “stalking”.

Nonostante questa evoluzione positiva, dobbiamo costatare che le
violenze maschili, o meglio maschiliste[2], contro le donne non sono
affatto cessate: restano frequenti, distruttrici e, nonostante tutti i
nostri sforzi, sono ancora banalizzate, minimizzate, occultate. Un
esempio emblematico. Nel novembre 2008, un deputato francese, JM
Demange, ha ucciso la sua ex compagna con due colpi di pistola alla
testa, dopo averla picchiata e inseguita mentre fuggiva; si è poi
ucciso. L’Assemblea nazionale (il Senato di Francia) ha decretato un
minuto di silenzio in onore dell’infelice collega deceduto; la donna
uccisa non è stata neppure menzionata[3]. I giornali hanno poi dato
grande enfasi al fatto che l’uomo fosse depresso (aveva perso alle
ultime lezioni), trascurando di raccontare come, durante il periodo
della convivenza, avesse maltrattato la sua compagna, prima che lei lo
lasciasse e che lui infine la uccidesse.

In un altro registro, consideriamo la Risoluzione dell’ONU 54/53
(2000) che istituisce il 25 novembre come “Giornata internazionale per
l’eliminazione della violenza contro le donne”. Come succede in tutti i
documenti internazionali sullo stesso argomento, da nessuna parte si
dice che la violenza contro le donne è quasi esclusivamente commessa da
uomini. Non si parla mai di violenza maschile o maschilista, e si
preferisce utilizzare dei termini generici come “violenza contro le
donne” o degli eufemismi come “violenza di genere”[4].

In un libro scritto alcuni anni fa (Romito, 2005), ho sostenuto la
tesi secondo cui si è passati dal silenzio al rumore. Da una fase in
cui la violenza era nascosta, o talmente connaturata con pratiche
sociali e leggi da risultare invisibile, e le vittime non osavano
parlarne, a una fase in cui le voci delle donne e delle bambine e
bambini che avevano appena iniziato a farsi sentire sono coperte da un
rumore, da una cortina fumogena creati e mantenuti ad arte, per
offuscare la realtà e coprire i responsabili (Armstrong, 2000; Crisma e
Romito, 2007).  Questo offuscamento è reso possibile dall’azione di
varie tattiche e strategie di occultamento.  Le strategie che ho
identificato sono la legittimazione e la negazione: metodi complessi,
volti a occultare le violenze maschiliste e a perpetuare i privilegi e
la dominazione maschili. Le tattiche – eufemizzazione o evitamento
linguistico, colpevolizzazione delle vittime e delle madri,
disumanizzazione, psicologizzazione, naturalizzazione e separazione –
costituiscono strumenti che possono essere utilizzati in maniera
trasversale nelle diverse strategie.

Le discussioni che hanno animato le presentazioni del libro in vari
paesi[5] hanno confermato la pertinenza di queste categorie e la loro
utilità per leggere una realtà in continuo movimento e spesso confusa,
in cui il peso di atrocità accumulate sembra a volte schiacciarci. In
questi ultimi anni, tuttavia, altre tattiche e strategie di
occultamento sono apparse e si sono precisate. Qui ne presenterò due:
l’attacco contro le vittime e il razzismo come strumento di
occultamento.

L’attacco alle vittime.

« La volontà del personale è di considerare le donne come delle cittadine e non come delle vittime
(Il direttore di un Centro di accoglimento e ri-inserzione  sociale a
Tolosa, a proposito delle donne maltrattate da un partner, accolte
nella struttura, 2006[6]).

Attaccare il concetto di vittima e le vittime stesse è un altro modo
d’impedire che l’indicibile – che la violenza contro le donne è
commessa da uomini –venga enunciato con chiarezza. Questo attacco
prende forme diverse.

Nella maggior parte dei paesi dove le grandi inchieste statistiche
hanno mostrato la frequenza di queste violenze – Stati Uniti, Canada,
Francia, Svezia – gruppi di uomini anti-femministi ma anche giornalisti
o intellettuali, uomini e donne[7] (nessuno dei quali peraltro esperto
sul tema delle violenze), hanno ripetutamente attaccato le ricercatrici
e i ricercatori, accusandoli di aver gonfiato le cifre, di aver creato
dal nulla il problema della violenza e di aver indotto le donne a
considerarsi e a comportarsi tutte come delle vittime piagnucolose
(Romito, 2003).

Queste accuse sono paradossali: le donne vittime di violenze
maschili, infatti, tendono piuttosto a negarle. Un esempio: in una
ricerca negli Stati Uniti (Phillips, 2000), ben 27 sulle 30 studentesse
intervistate avevano subito almeno un’esperienza che corrispondeva alle definizioni legali di stupro, molestia o aggressione;
eppure, benché fossero in grado di descrivere lo choc, l’umiliazione, 
il dolore e la paura provati, solo due usarono questi termini per
descrivere quanto era successo. Le altre preferivano formulazioni del
tipo «le cose erano andate storte», e spesso si attribuivano parte
della responsabilità: «non avrei dovuto uscire con lui» o «dovevo
immaginarmelo». Altre ricerche sullo stupro o sulle molestie sessuali
sul luogo di lavoro mostrano la stessa tendenza (Romito, 2005). Questi
meccanismi di negazione non devono sorprenderci. Storicamente, bambine
e donne stuprate, invece che essere credute e aiutate, sono state
trattate da bugiarde, provocatrici, seduttrici; colpevolizzate,
minacciate, punite. E ancor oggi in altri paesi le donne stuprate
preferiscono suicidarsi piuttosto che sopportare la vergogna, il
disprezzo, e l’isolamento sociale a cui sarebbero condannate; in altri
casi, sono i loro familiari che le uccidono per le stesse ragioni. E
ancor oggi, nei paesi occidentali, solo una minoranza di donne
maltrattate dal marito lo denunciano[8].

Ma il concetto di vittima mette in imbarazzo anche le studiose
femministe, in quanto sembra rinviare a un’idea di passività e quasi di
colpevolezza. Questa reticenza può assumere delle forme estreme. In un
articolo che riguardava le donne uccise dal marito, pubblicato su un
giornale femminista, l’autrice (Morgan, 2006) si è sentita obbligata di
scrivere una nota di 18 righe per giustificarsi dall’aver utilizzato il
termine vittima!

Paradossalmente, il termine “vittima” è oggi contestato o rifiutato
da molti – femministe e anti-femministi – lasciando un vuoto
linguistico ma anche politico per indicare chi, senza colpa, ha subito
un danno da parte di un’altra persona, o a causa di un incidente o di
un disastro. Dovremmo domandarci perchè troviamo accettabile parlare
delle vittime di un incidente sul lavoro o di un terremoto, mentre
invece siamo imbarazzate a parlare di vittime della violenza maschile.
Contribuiscono ad aumentare la confusione le “politiche del
linguaggio”: si parla infatti di donne che “fanno le vittime”, “si
sentono vittime”, o si “comportano da vittime”, mentre le donne, quando
ne parlano, è perchè sono state oggettivamente vittime di qualche violenza.

Un esempio recente viene dall’Italia. Nell’aprile 2010, è stata
lanciata la campagna mediatica “Riconosci la violenza”, con
l’obiettivo, davvero ambizioso, di “prevenire la violenza”. Le immagini
mostrano delle giovani donne, belle e sorridenti, abbracciate
teneramente a un uomo. Il viso di quest’ultimo è coperto da slogan
contro la violenza che, tutti, si rivolgono alle donne, che devono
“imparare a riconoscere la violenza”, “denunciare il violento”, o
“cambiare di fidanzato”: né gli uomini, violenti o no, né le
istituzioni sociali, vengono interpellate. Secondo il testo di
accompagnamento “Questa campagna contro la violenza sulle donne è
diversa da tutte le altre (…) perché non troverete né occhi pesti, né
occhi bassi. Non vogliamo mostrare altre donne nel ruolo di vittime. Non vogliamo che le più giovani tra noi a quel ruolo si sentano ancora inchiodate e condannate”[9].

Questo testo lascia sbalordite. Attraverso quale gioco di prestigio
una donna che è stata obiettivamente vittima di una violenza diventa
una donna che sta, o si mette “nel ruolo di vittima”? Perchè
l’espressione “essere nel ruolo di” significa che facciamo teatro,
stiamo impersonando qualcuno o qualcosa, ma non lo siamo per davvero. E
allora come definire una donna che il marito ha umiliato, picchiato,
violentato? Ci restano ancora delle parole, delle categorie cognitive e
politiche, per descrivere questa situazione? [10]

Mi sembra che, se il termine vittima disturba, è proprio perché
designa in maniera fin troppo chiara le relazioni di potere che sono in
gioco: c’è un aggressore, che causa un danno, e una vittima, che lo
subisce. Se così è, forse allora dovremmo reclamare, come scelta
politica, il termine vittima. Tuttavia, riconoscersi come oggetto di
violenze può essere doloroso e umiliante e non c’è da stupirsi che
molte persone si ritraggano da questa consapevolezza. E’ possibile
riconoscersi in quanto vittima e rivendicare questo status solamente in
un contesto politico che ci sostiene. La psichiatra americana Judith
Herman (1992) l’ha mostrato con chiarezza, sia riguardo le donne
vittime di violenze sessuali paterne (il cosiddetto incesto), sia
riguardo gli uomini vittime di traumi in guerra. Sarebbe inquietante
dover costatare che nel 2010, dopo tutte le lotte delle donne per
rendere visibile la violenza maschilista e per contrastarla, non è
possibile dichiararsi ad alta voce vittime di questa violenza.

In realtà il patriarcato (anzi, secondo l’accezione della grande
scrittrice bell hooks il « patriarcalo-capitalismo bianco e
suprematista, hooks, 1998) ha bisogno di donne vittime … purché
l’aggressore sia un “altro”, il nemico o, come vedremo nel prossimo
paragrafo, lo straniero, l’immigrato, l’uomo di un’altra cultura o
religione. Susan Faludi (2008) mostra come nella storia degli Stati
Uniti sia stato necessario trasformare donne energiche e a volte anche
violente in vittime indifese del nemico del momento, i cosiddetti
“Indiani”, perché questo permetteva di giustificare lo sterminio del
detto nemico. Un meccanismo simile a quello a cui abbiamo assistito più
di recente, in occasione degli interventi militari in Iran, Afghanistan
e Irak, e che si è intensificato dopo gli attacchi terroristici alle
Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001.

Un punto di vista limpido e convincente sulle vittime è espresso da Irene Zeilinger nel suo bel libro sull’autodifesa:

“Se parlo di vittime, non si tratta assolutamente di persone
passive, irrimediabilmente abbandonate al loro destino. Non si tratta
di uno stato irreversibile; inoltre, esser stata vittima a un certo
momento della vita non significa che vittima si debba restare per il
resto dei propri giorni. Utilizzo il termine vittima nel senso che
queste persone non sono responsabili della violenza che è, o è stata,
loro inflitta, nel senso che non hanno scelto di essere vittime, né
erano nate vittime. Le vittime sono persone che si trovano confrontate
a una realtà spesso brutale, e che fanno del loro meglio per tirarsene
fuori”
(Zeilinger, 2008, p. 9).

Nella sua versione “moderata” (come appare nella campagna italiana
“Riconosci la violenza”), il rifiuto della vittima si configura come
una posizione anti-materialista, un wishful thinking, una pia
illusione. E’ come se,  rifiutandosi di “fare la vittima”, o impedendo
alle altre donne di stare “nel ruolo di vittima”, si potesse eliminare
come in un gioco di prestigio quello che rende le donne obbiettivamente
vittime: l’oppressione patriarcale e la violenza maschilista. Nella sua
versione più estremista, l’attacco alle donne vittime di violenza
rientra in una strategia più ampia di discredito nei confronti anche di
altre categorie di vittime. Costruendo il fatto di essere vittima come
uno stato psicologico, quasi una debolezza della vittima stessa, e non
come una condizione obiettiva, il discorso anti-vittime contribuisce a
negare la violenza maschilista e l’ingiustizia sociale che rappresenta,
e a delegittimare le rivendicazioni delle donne che hanno subito
violenza (Cole, 2007). Diventa così  sempre più difficile contrastare
la violenza maschilista contro le donne e il sistema sociale che la
rende possibile.

Il razzismo come strumento di occultamento della violenza

Se esiste una questione femminista che merita di essere
approfondita (…) è proprio quella dell’intreccio tra l’oppressione
basata sul sesso e le oppressioni basate su razza, etnia o cultura, che
possiamo raggruppare con il termine di “razzismo”. (…) l’oppressione
sessista infatti non si iscrive e non si legge nel corpo astratto di
una donna universale e a-storica, ma nel corpo di donne specifiche,
uniche, in un contesto sociale determinato, e caratterizzato  da altri
rapporti di dominazione
» (Benelli et al., 2006, p. 4).

Il termine inglese di “intersectionality” ci rimanda all’intreccio
intimo tra sistemi di dominazione diversi, e ci permette di capire
meglio la situazione di donne immigrate o appartenenti ad altre
culture, e dunque “razzializzate”[11]. Questi intrecci possono
influenzare in modi diversi l’esperienza delle donne che sono vittime
di violenza e cercano di uscirne: oltre al sessismo, devono sopportare
il razzismo di poliziotti e operatori sanitari; rischiano di essere
emarginate dalle persone della loro comunità, che possono sentirsi
tradite dalla denuncia della violenza; e possono incorrere in
conseguenze catastrofiche, come l’essere espulse dal paese di
immigrazione, se il loro permesso di soggiorno è legato a quello di un
marito o padre violento (Patel, 2000; Creazzo, 2003).

Questo intreccio ci interessa qui anche perché può diventare un
altro modo di occultare le violenze maschili: infatti, quando la
violenza è compiuta da un uomo di un gruppo o di una cultura
minoritaria, questa violenza è considerata come “tipica” o esclusiva di
quella cultura, e non come tipica del patriarcato. Questa lettura
finisce per “naturalizzare” le altre culture, che appaiono come sistemi
monolitici, quasi delle “culture-istinto”, da cui gli individui non
potrebbero prendere consapevolmente le distanze. Attraverso questi
meccanismi si finisce per scusare il comportamento di questi uomini
violenti, per banalizzare la loro violenza e abbandonare le vittime al
loro destino. In alcuni paesi occidentali, è successo che uomini
appartenenti a una cultura minoritaria, o “razzializzata”, che avevano
commesso violenze gravi nei confronti di una donna dello stesso gruppo,
fossero condannati a pene leggere, con la motivazione che tale violenza
era “normale” nel loro paese. Per esempio in Gran Bretagna, un uomo
originario dall’India ha pagato solo un’ammenda per aver quasi
ammazzato la moglie di botte, in quanto “immigrato” (Patel, 2000). In
Germania, un giudice ha ridotto la pena a un uomo che aveva
sequestrato, torturato, violentato e fatto violentare anche da altri la
sua ex fidanzata, perché era sardo.  Il giudice tedesco ha infatti
ammesso come circostanze attenuanti l’appartenenza “etnica e culturale”
a una cultura arretrata come quella, secondo lui, della Sardegna. Va
precisato che la vittima era lituana, e non tedesca…[12]

In alternativa, in Italia le violenze contro le donne commesse da
uomini immigrati sono enfatizzate dai media e strumentalizzate a fini
politici: recentemente (ottobre 2009), l’assassinio di una ragazza di
origine marocchina, Sanaa Dafani, uccisa dal padre, ha occupato per più
giorni le pagine dei giornali[13]. La Regione Friuli Venezia Giulia,
dove è avvenuta la tragedia, ha annunciato di volersi costituirsi parte
civile contro il padre assassino di Sanaa. Sarebbe un gesto importante
di assunzione di responsabilità nel contrasto della violenza maschile
contro le donne, se non fosse che questo gesto non è mai stato fatto
nei numerosi casi di donne uccise dai loro familiari, indigeni
italiani. Attribuendo alle culture minoritarie una tendenza quasi
genetica alla violenza maschile contro le donne, questi discorsi e
queste pratiche misogine contribuiscono così ad occultare la violenza
degli uomini di casa nostra. Negli ultimi anni, abbiamo infatti
assistito alla proliferazione di un discorso pubblico in cui la
violenza contro le donne viene presentata come tipica o esclusiva di
alcune culture, in particolare quelle “musulmane” o “islamiche”[14]. In
molti paesi è diventato accettabile dire e scrivere che la violenza
contro le donne è una questione che riguarda solo culture non
occidentali: da noi, sarebbe un problema residuale, che riguarderebbe
solo uomini con disturbi psichiatrici: ecco all’opera la strategia
della “psicologizzazione” (Romito, 2005). Questo è il discorso tenuto
in Francia, per esempio, dalla filosofa Elisabeth Badinter, la stessa
che ha attaccato ripetutamente l’inchiesta nazionale francese sulla
violenza, accusando le ricercatrici di aver gonfiato la categoria
“violenza” e di aver “creato” la figura della donna vittima (Delphy,
2006). Questo discorso è tenuto anche in Italia, soprattutto a partire
dal 2007, in occasione di un gravissimo episodio di violenza – lo
stupro e assassinio di Giovanna Reggiani- compiuto da un immigrato. Ai
funerali della donna intervennero numerosi politici[15]: un omaggio mai
attribuito ad altre donne, altrettanto atrocemente uccise, ma da uomini
italiani.  A questo, va aggiunta la campagna, in Francia e più
recentemente anche in Italia, contro l’utilizzazione da parte delle
donne del cosiddetto “velo islamico”, considerata sempre ed
esclusivamente come un’ulteriore prova dell’oppressione “islamica” nei
confronti delle donne, mentre a volte si tratta di una scelta autonoma
di donne e ragazze, anche motivata dal rifiuto e dal razzismo della
società di immigrazione. E’ inoltre paradossale che la religione
islamica sia additata come fonte di violenza contro le donne, mentre si
dimentica o si occulta il ruolo attivo della religione cristiana, e in
particolare cattolica. Basterebbe considerare l’Inquisizione e la
caccia alle streghe, e, ben più di recente, le violenze sessuali
commesse da preti su bambine e bambini[16]. Queste violenze,
enormemente estese, sono state fino a ieri occultate dalle più alte
autorità della Chiesa, compreso il cardinale Ratzinger, oggi papa dei
cattolici, e autore, nel 2001, della lettera « De delictis gravioribus
», che imponeva il “Segreto pontificio” a quei preti che fossero venuti
a conoscenza di violenze sessuali commesse da altri preti[17].
Occultando le violenze, la Chiesa ha protetto gli aggressori,
lasciandoli liberi di continuare ad agire, e ha abbandonato le vittime,
mettendole a tacere, minacciandole e discreditandole se parlavano. La
questione è “scoppiata” dapprima in Nord-America, e almeno un decennio
dopo in Europa (Irlanda, Germania, Austria, Italia….), in America del
Sud e in Africa. Ricordiamo inoltre che lo stesso cardinale Ratzinger
ha curato, poco prima di essere eletto papa, la nuova versione del
Catechismo, secondo cui adulterio, masturbazione e stupro sono messi
sullo stesso piano, come peccati contro la castità.

Conclusioni

La violenza maschilista contro le donne non solo continua ad esistere,
ma resta tuttora occultata o addirittura indicibile, o può essere detta
solo utilizzando degli eufemismi mistificatori. E’ solo grazie al
lavoro di tante donne, nelle associazioni e nelle istituzioni nazionali
e internazionali, e di alcuni uomini compagni di strada, che queste
violenze sono state svelate, che si è iniziato a contrastarle, e che
tante donne sono riuscite a liberarsene.  E’ solo continuando questo
lavoro che possiamo sperare di mettere fine alle violenze, e di
costruire una società  in cui siamo tutte e tutti meno oppressi e più
liberi.

NOTE

[1] Alcuni esempi: in Italia, nel 1981 è stato
abolito il “delitto d’onore”; tra il 1991 e il 1998, Olanda, Gran
Bretagna e Germania hanno abrogato l’“eccezione coniugale per lo
stupro” (lo stupro da parte del marito non era considerato reato dal
codice penale).
[2] Parlare di violenze “maschili” ha il vantaggio di
indicare chiaramente che la maggior parte degli aggressori sono uomini;
parlare di violenze “maschiliste” (o machiste, come si fa in Spagna)
indica che il problema non sta nel “maschile”, cioè nel sesso
biologico, ma nel “machismo” o maschilismo, che è prodotto dal sistema
patriarcale.
[3] Una sola deputata, Martine Billard, ha trovato
scandaloso questo comportamento e ha protestato. « La minute de silence
qui dérange », J. Aridj,  Le Point, 19 novembre 2008.
[4] Questo termine può essere appropriato per indicare
violenze commesse da donne su donne in un contesto patriarcale, come le
mutilazioni genitali sulla bambine. Diventa un eufemismo  quando
applicato a violenze commesse da uomini su donne.
[5] Il libro è stato tradotto in spagnolo, francese e inglese.
[6] « Accompagner les victimes de violences conjugales », Lien Social, n° 7889, mars 2006, consulté en novembre 2009.
[7] In Francia,  tra le donne anti-femministe più
aggressive, e più ascoltate dai media, c’è Elizabeth Badinter; negli
Stati Uniti, Katie Roiphe.
[8] Secondo i dati dell’Istat, il 34% delle donne che
ha subito ripetute violenze fisiche o sessuali da parte di un partner
non ne ha parlato con nessuno, e il 93% non l’ha denunciato alla
polizia. Istituto nazionale di Statistica (ISTAT) La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia. Anno 2006 (21 febbraio 2007)
[9] Riconosci la violenza. Scaricato il 1 aprile 2010.
[10] Fin dagli anni ’70, si è proposto di sostituire
il termine “vittima” con il termine “sopravissuta”: questo termine pone
a sua volta vari problemi, ma soprattutto non tiene conto del fatto che
non tutte le donne sopravvivono alle violenze.
[11] Il termine racialized, “razzializzato” è un
neologismo che permette di indicare persone individuate e discriminate
per le loro caratteristiche somatiche o la loro posizione sociale di
immigrati, senza far ricorso al concetto di razza, concetto superato
sul piano scientifico e inaccettabile sul piano politico. Per una
eccellente discussione, vedi i due numeri della rivista Nouvelles
Questions Féministes : Sexisme et racisme : le cas français, 25(1),
2006, e Sexisme, racisme et post colonialisme, 25(3), 2006.
[12] « Germania, violenta la sua ex, sconto di pena perché è “sardo””, La Repubblica, 11 ottobre 2007.
[13] Va precisato che nella maggior parte dei paesi
occidentali, a differenza dell’Italia, i giornali non possono
specificare la nazionalità degli autori dei crimini. Dato che la
tendenza non è simmetrica – non viene mai indicato esplicitamente
quando i crimini sono compiuti da indigeni -, rendere pubblica
esclusivamente la nazionalità degli stranieri potrebbe configurarsi
come incitamento all’odio razziale.
[14] Naturalmente non esiste una cultura islamica o musulmana monolitica, non più di quanto non esista un’unica cultura cristiana.
[15] Erano presenti: il Ministro degli Interni, Amato,
il sindaco di Roma, Veltroni, lo sfidante alla poltrona di sindaco,
Alemanno, il Presidente della Regione, Marrazzo, e altri politici, tra
cui Fini e Casini (Corriere della Sera, 3/11/2007).
[16] Finora i media hanno soprattutto parlato di
bambini e adolescenti di sesso maschile, ma si inizia ad avere maggiori
informazioni su bambine e donne vittime di violenze sessuali da parte
di preti, vedi: http://www.snapnetwork.org/female_victims/women_face_stigma.htmhttp://bit.ly/beqgpy, http://bit.ly/a2jgFj).
La focalizzazione su vittime di sesso maschile potrebbe spiegarsi con
il fatto che così è più  facile insinuare che le violenze siano dovute
a “devianze individuali” dei preti, e cioè a una pretesa omosessualità.
Ciò permette inoltre di occultate lo sfruttamento sessuale delle suore,
denunciato soprattutto in Africa.
Va aggiunto che socialmente si tende a considerare più grave quel che
viene fatto a un bambino, un futuro uomo (Ringrazio Martin Dufresne per
queste informazioni e considerazioni).
[17] Segreto pontificio. I crimini sessuali nella
Chiesa nascosti da papa Wojtyla e dal cardinale-prefetto Ratzinger,
Kaos Edizioni, 2007.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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