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Riflessioni su generi, potere, ruoli, lavoro

di Viviana Esposito
 
A proposito di questo bellissimo editoriale di Lea Melandri, che personalmente condivido abbastanza e che mi ha dato un sacco di spunti di riflessione.

Sono due i ragionamenti che mi hanno fatto più pensare:

– cambiare i modi, lo stile, le regole dell’organizzazione del lavoro segnata finora dall’uomo, non vuol dire spostare rapporti di potere, almeno finchè l’uomo ritiene di essere l’unico umano dotato di intelligenza, volontà e senso morale, e la donna il suo completamento ‘naturale’, e finché si aspetta che siano le donne a “conciliare” famiglia e lavoro, le uniche a caricarsi di una responsabilità che, come tale, riguarda uomini e donne. Una responsabilità collettiva rimasta finora destino naturale delle donne.

– Le esperienze, raccontate con tanta generosità e sincerità intellettuale, dovrebbero “allargare lo sguardo degli attori istituzionali”, mostrare il grande investimento di passione, crescita personale, ricerca di esistenza propria, che le donne fanno sul lavoro, e di quanta ingiusta fatica sia causa la discriminazione che subiscono, quanto di questo impegno non riconosciuto vada a beneficio della produttività. Non viene fatto caso al fatto che attendersi un riconoscimento da chi ti sta facendo una ingiustizia è il contrario che affrontare un conflitto, e che non cambia il ruolo secondario e integrativo delle donne anche nel lavoro extradomestico. Più importante è pensare che ad allargarsi sia lo sguardo di altre donne, che vivono situazioni simili e che hanno bisogno, per cambiare effettivamente i rapporti di potere, di intelligenza e forza collettiva.
 
Come darle torto? E’ proprio vero che per cambiare i rapporti di potere non basta dare dei limiti a quest’ultimo, perchè in fondo la struttura gerarchica che ne è alla base non viene scardinata, ma solo regolamentata con leggi meno "disumane". In poche parole ci danno la carota ma nell’altra mano reggono il bastone.

Alle mezze libertà, ai piaceri, alle concessioni e cose così sono sfavorevole, perchè mi appaiono elemosine di cui credo nessuna donna abbia bisogno ne voglia. Personalmente credo che esista un solo tipo di libertà, ed è quella totale, perchè se si parla di libertà regolamentarizzata, libertà limitata, "sii quello che sei ma non farlo vedere" (citando la destra illiberale), allora la parola libertà diventa sinonimo di schiavitù con qualche "privilegio", niente di più, niente di meno. E a tal proposito mi viene in mente il discorso che la Fallaci fà sulla libertà in "Lettera ad un bambino mai nato", dove dice che "le leggi dei prepotenti offrono solo un vantaggio: ad esse puoi reagire lottando, morendo. Le leggi della brava gente, invece, non t’offrono scampo perchè ti si convince che è nobile accettarle".

Tanto è vero che la figura della donna che "concilia" lavoro e casa, vita privata e pubblica, è osannata da tv e talk show, tutte si pavoneggiano di quanto sono ben organizzate, di quanto sono wonderwoman. Ma le donne come me, che a conciliare non ci riescono, che cercano di non farsi ingabbiare in ruoli (riuscendoci pure male, perchè tanto ne esci da uno e ne entri in un altro) e che non vogliono passare la vita a farsi il "mazzo" perchè devono essere alla pari di queste superdonne, perchè donne così devono sentire inferiori in quanto percepite tali? Perchè non posso essere fiera di voler condividere i doveri che comporta una famiglia, qualora l’avrò, senza sentirmi dire che non sono una buona madre/moglie/donna di casa perchè dovrei sobbarcarmi tutte le responsabilità?

Per quanto riguarda invece l’argomento del riconoscimento, beh mi trovo sicuramente tra quelle che lo hanno cercato e ancora spesso lo cercano, perchè insicure e quindi alla ricerca di appoggi. Lo so che è sbagliato perchè in realtà non si combatte cercando di compiacere il nemico, ma credo derivi dalla cultura del "devi dimostrare di valere". E in quanto donna la dimostrazione è quasi obbligatoria, perchè sei vista come una che "deve dimostrare di essere all’altezza del ruolo datole" non solo perchè alle prime armi, ma anche perchè donna. I trattamenti iniqui nel mondo del lavoro come in altri sono davvero palesi, e a questo punto la ricerca di un riconoscimento del proprio lavoro non fa altro che consolidarli. Ma dall’altra parte c’è la voglia di sentirsi gratificati, di sentirsi utili… in fondo se qualcuno riconosce che il tuo lavoro è stato buono è una soddisfazione e ti ripaga per tutta la fatica. Secondo me non è sbagliato cercare riconoscimenti, lo diventa quando li si cerca nel sistema sbagliato, perchè a quel punto devi stare alle loro regole, alle loro leggi. E’ questo quello che và cambiato. Voi cosa ne pensate?

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di Kzm

Mi ha fatto pensare che ci educano fin da piccoli col "bastone e la carota".
Ma quello che meglio impariamo è l’abitudine al metodo del "bastone e della carota".

Fai il bravo e verrai premiato, fai il cattivo e verrai punito.

Fai il tuo dovere e i tuoi cari ti vorrano bene e saranno contenti.
Altrimenti piangeranno e non ti vorranno più, subirai il rifiuto e l’abbandono.
E questo succede, in buona fede, nelle "migliori" famiglie.
Il ricatto sentimentale si sublima fino al punto che le tue cattive azioni faranno "piangere la madonnina".

Poi succede che cresci, e ai genitori si sostituiscono i maestri e i professori.
Ai professori i datori (anche detti donatori) di lavoro, passando per i "capuzzielli" del quartiere.

E così ci abituiamo a compiacere chi ha potere, chi ha accesso alle risorse, così che con la sua benevolenza possiamo gestire una parte di quel potere, possiamo accedere a una parte di quelle risorse.

Ma la soddisfazione dovrebbe essere nella forza creatice del lavoro, fisico e intellettuale, nel trovare la "Qualità" (per citare "Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta").
Ma invece? Succede invece che il lavoro venga svuotato della sua energia creativa, e diventa un modo per creare profitti, per vendere merci, e ben che vada per arrivare a fine mese.

Allora la soddisfazione che resta è quella del piacere al nostro capo, la sensazione di essere accettati dalla nostra comunità, ormai regredita a un branco. Fior di libri di "gestione aziendale" diffondono i modelli "di successo" da imitare, per creare un surrogato di quella originale soddisfazione del lavoro creativo, ed aumentare infine la produttività.

Nel mio lavoro, provo a volte piacere nel ricevere un riconoscimento da una persona che stimo, e che sopratutto è stimata nell’ambiente di lavoro.
Sia perchè immagino e spero che questo mi possa aprire delle porte in futuro, dare accesso a delle opportunità di lavoro, sia per un incoscio piacere nel piacere a chi, a qualsiasi titolo, detiene una sua fetta di  potere.
Poi mi rendo conto della pochezza di queste soddisfazioni.
Sarà questa la "meritocrazia"? Ottenere un giudizo favorevole da questa o quella commissione, dall’ente di certificazione di turno?
Cos’altro sono, in effetti, la scuola e l’università, se non "enti di certificazione"?
Il rapporto diretto tra l’individuo e la materia, qualunque sia la "materia" su cui si agisce con il lavoro, si perde proprio di vista.
Resta sullo sfondo, avvolto nell’oscurità, e viene sostituito dal rapporto tra gli individui, e quindi dalle relazioni di potere. 

—>>>L’immagine viene da Riotclitshave

Posted in Omicidi sociali, Pensatoio, Precarietà.