Non avevamo dubbi. Non potevamo concludere il mese d’agosto senza un’altra strage compiuta da un uomo. Ha massacrato la moglie e due figli, uno di 19 anni e l’altro di 4. Poi ha ammazzato anche una donna di 79 anni che li ospitava.
La rassegna stampa non presenta molte diversità. Per tutti i quotidiani online presi in esame lui è principalmente uno malato di disoccupazione, un cassintegrato che per questo motivo avrebbe deciso di fare una carneficina per poi rincoglionirsi di farmaci e alcool. Qui le tesi si discostano. C’è chi dice che in preda al pentimento si sarebbe gettato dal secondo piano e chi invece specifica che – causa rincoglionimento – quando è uscito per aspettare i carabinieri è caduto e ha sbattuto la testa nella legnaia.
Definiamo i significati: innanzitutto la disoccupazione come male che farebbe diventare un sant’uomo un efferato pluriomicida.
Quante sono le donne che sono in stato di disoccupazione? Tante. Come mai a loro non viene in mente di massacrare la famiglia? Perchè il motivo degli omicidi non è la disoccupazione. Cosa fa una donna quando è disoccupata? Lavora a casa, cresce i figli, pulisce, rassetta, aiuta il bilancio familiare cucinando pietanze con poca spesa e rammendando abiti per riciclarli. Cosa potrebbe fare un uomo in stato di disoccupazione? Le stesse cose o se crede va a cercarsi un altro impiego, si applica in lavori manuali e aggiusta quella tal finestra che è rotta da un decennio.
Nella nostra società di donne ammalate di disoccupazione non si parla mai e non è che a noi piaccia da morire stare a casa. Si pensa in fondo che una donna abbia nella casa il suo habitat naturale e dunque non veda l’ora di tornarci. La reazione delle donne che rischiano il licenziamento però dimostra esattamente il contrario. Non c’è affatto una tendenza naturale delle donne nell’accogliere di buon grado la disoccupazione.
Dell’uomo invece si pensa che sia un animale sociale che per sentirsi virilmente a posto con se stesso, macho al punto giusto, dovrebbe uscire di buon’ora e andare a caccia per portare la bestia sconfitta in casa a pranzo per la sua donna e i suoi cuccioli. Parlare di un uomo senza lavoro diventa dunque molto più drammatico che parlare di una donna disoccupata. Come se entrambi non contribuissero al bilancio familiare o non avessero diritto ad una dignitosa autonomia economica per vivere.
L’uomo disoccupato, dicevamo, naturalmente deprimibile e difficilmente in grado di muovere il culo per darsi da fare in compiti differenti, è così legittimato, tra una grattata di natica e una scaccolata subumana, a sterminare la famiglia.
Tutto ciò ovvio non significa che restare senza lavoro non sia un male sociale che conduca a malesseri personali. Ma questo vale per tutti e non certo soltanto per gli uomini. Nessuno è perciò giustificato a pensare che in tempo di crisi economica sia corretto licenziare più donne che uomini per via di quella nostra presunta pulsione naturale a recuperare felicità di fronte ad un focolare in cui farsi il mazzo gratis tutto il giorno.
L’altro elemento da analizzare: la depressione di cui abbiamo già parlato in molte altre occasioni. Vedi qui, qui e qui.
E di nuovo la storia del suicidio che rende la faccenda pietosa, più tragicamente comprensibile, più orientata al gesto momentaneo, allo sproposito di una singola giornata. Nonostante le due versioni contrastanti, che descrivono un uomo fatto di psicofarmaci e alcool che per un verso si butta dalla finestra e per l’altro semplicemente scivola e sbatte il capo, in ogni caso in nessuno degli articoli si parla esattamente di come ha ammazzato moglie e figli. Quante ferite, quanto sangue, quanto orrore, quanta efferatezza, se li ha inseguiti, se moglie e figli hanno tentato di difendersi, se li ha presi nel sonno, di sorpresa, increduli, mentre vedevano il loro padre fare quello che tanti altri padri fanno abbastanza frequentemente: togliere di mezzo la famiglia che reputano di loro proprietà.
In tutti gli articoli si parla solo di lui, del suo stato di salute, della sua psiche, della sua depressione, dei suoi lamenti, del suo stato di coma, delle sue pene infinite, di tutti gli elementi che servono ad "umanizzarlo", di tutte le attenuanti che serviranno a dire che quanto è avvenuto non dipende da nulla che non sia contenuto nell’elenco motivi di sterminio familiare dello schedario dei tutori della famiglia. Non abbiamo un solo articolo che ci dica chi fosse la donna, quanto meravigliosi fossero i figli, che fantastica creatura fosse l’anziana signora che li ospitava per alleviare, supponiamo, un momento di difficoltà. Se non ne parli non esistono. Se non ne parli abbiamo delle indistinte vittime che fanno semplicemente numero. Nulla che susciti pietà più di quanto non si cerchi di suscitarne a proposito dell’uomo. Le vittime di questo ennesimo sterminio continuano ad essere cose, oggetti. Lo erano per chi li ha eliminati dalla faccia della terra e continuano a non esistere per gli organi di informazione. Quale metodo migliore per fare ritenere inumane delle persone che sono state uccise?
Tutti elementi, questi, che tendono ad allontanare l’idea che la violenza contro le donne è maschile, a differenza di quanto dice certo pseudo-femminismo moderato e reazionario (che raccoglie donne che vanno dal pd al centro destra):
– ben attento a tutelare l’istituto della famiglia;
– ben attento a custodire il ruolo delle donne in seno alle famiglie come ammortizzatrici sociali di un welfare che agevola solo chi persegue come unico fine il profitto;
– ben attento a non turbare il volere di santa madre chiesa.
Resta da dire che le donne, secondo le regole scritte, non hanno una via d’uscita. Sono intrappolate in un meccanismo sociale che le obbliga a restare accanto agli uomini, in famiglia, ad assolvere ai ruoli imposti. Perciò le donne devono reagire indipendentemente da tutto.
Come chiamereste voi uno sterminio ai danni dei lavoratori fatto dal caporeparto di una fabbrica? Incidente sul lavoro? Immagino di no.
Quando muoiono le donne invece appare lecito dire che la famiglia è e rimane comunque un luogo fantastico e che gli uomini che in quel contesto agiscono da assassini sono solo un po’ folli, prodotti mal riusciti, scarti di fabbrica, nulla di preoccupante. Vedrete: la prossima serie di robot maschi che metteranno sul mercato sarà senz’altro migliore: quella attuale ha troppi difetti ma bisogna comunque piazzarli. D’altronde la nostra società produttiva cosa sceglie tra un kapo’ senza scrupoli omicida e stupratore ed un uomo idealista pieno di principi e valori etici e morali? Senza dubbio il kapo’.
Se sei una donna che vive in una situazione di violenza, reagisci. Se sei una donna che vive in una situazione di violenza e hai dei figli, reagisci. Se tu non reagisci rischi la tua vita e quella dei tuoi figli.
Il resto della filastrocca per donne vittime di violenza in famiglia puoi leggerla QUI.
State all’erta amiche e sorelle. State attente e trovate nella solidarietà tra donne il vostro elemento di forza.
—>>>L’immagine in alto rappresenta – in satira – uno dei modi in cui in america si denigrava e criminalizzava la lotta per i diritti delle donne. Le donne – si diceva allora e si dice ancora adesso – vogliono ottenere la parità per non fare nulla. Invece guardate il pover’uomo che suscita compassione mentre assolve ad umili lavori che lui non dovrebbe mai fare…
ale, appunto
se era lei a lavorare tanto più. lui avrebbe dovuto semplicemente muovere il culo e darsi da fare in casa.
Mi pare ci sia un particolare di cui non si parla: la famiglia si reggeva sullo stipendio della povera donna. Ora, metteteci la disoccupazione (mancanza di lavoro che fornisce un’identità ai maschi, più che altro) e il fatto di essere “mantenuto” da una donna. Credo che bisognerebbe indagare questi due aspetti del vivere insieme, per capire fino a che punto è colpita l’immagine di sé, la propria identità.
La moglie era un “elemento” da eliminare, in pratica. Ma a questo punto entra anche in gioco la società, il sistema. Ogni omicidio è ingiustificabile, e tuttavia il sistema/società crea i presupposti per agire in modo violento e a scapito di altri. Perché non impariamo a guardarci tra di noi come esseri umani, prima che come dottor Tizia/o, ing. Caia/o, arch. Sempronia/o, manager Caia/o, operaia/o Tizia/o, geometra Sempronia/o.
Certe volte ho la sensazione che il lavoro sia tutta l’esistenza di una persona. Il lavoro serve per vivere, non per fornire anche un’identità. Quell’uomo dovrebbe ficcarselo in testa.
Il problema di fondo nasce dal concetto di voler scusare anche solo parzialmente un assassino per il fatto che abbia lui stesso problemi di ogni sorta.
Siamo onesti, quante volte avete mai visto un vero folle ammazzare? Io ne ricordo solo uno, mi pare si chiamasse Stevanin o qualcosa del genere. In quasi tutti gli altri casi, si tratta di persone normalissime si appellano ad una presunta infermità mentale per sfuggire alla pena.
E poi, se io fossi anche matto come un cavallo, avrei forse diritto di andarmene in giro ad ammazzare?
Sul fatto della depressione non credo che ci sia una sola persona al mondo che non ne abbia sofferto. Dire che questa può giustificare impulsi omicidi è la più penosa delle ipocrisie.
E’ vero che noi abbiamo un concetto oppressivo della famiglia, nel senso che uno finisce col perdere la propria identità come individuo ed identifica la famiglia come ‘se’.
Ergo ragiona ‘non posso stare al di fuori della mia famiglia, se muoio io devono morire tutti’.
Questo ragionamento implica un profondo egoismo, e non può a parer mio essere una attenuante in nessun senso.
Credo che sia dannosissimo ogni tipo di riabilitazione sociale degli assassini. Tanto che essi, come in questo blog è stato spesso e giustamente sottolineato, si sono abituati a vestire i panni delle vittime da compatire ed aiutare.
E’ ora che si torni a considerare ogni assassino come un assissino, in ogni ambito o contesto. Nessun disagio sociale o personale può arrivare a giustificare un omicidio, ancora più vigliacco quando è un fidanzato o marito a compierlo
Condivido ciò che dice Celeste: certo non siamo tutt* uguali e non reagiamo tutt* allo stesso modo, ma anch’io (da uomo) ho sofferto di depressione e ho passato anche un po’ di tempo in terapia e mai ho pensato di ammazzare la mia famiglia, la mia ragazza dell’epoca o i passanti dal balcone. Ero stanco, logoro e volevo solo sparire. Nei periodi peggiori pensavo che suicidarsi sarebbe stato un buon metodo per sparire, in quelli migliori credevo che il dolore fisico, attraverso l’autolesionismo, avrebbe coperto le “fitte” interiori. Mai e poi mai ho cercato di fare del male ad altri per sentirmi meglio.
Questa, però, è solo la mia opinione non generalizzabile, eppure è partendo da qui che mi chiedo se queste manifestazioni di inaudita violenza non nascano dalla combinazione di stati mentali alterati (depressione o che altro) con una cultura che vede ancora nel marito/padre il “padrone” della famiglia. E’ un problema culturale, credo, e non lo si affronta adeguatamente con il solito articolo di giornale o con una puntata raffazzonata de “L’Italia sul 2” o di “Porta a Porta”.
@mat
se una donna vuole lasciare il marito lui la uccide e uccide anche i figli.
se una donna vuole lasciare il marito lui prende i figli e li uccide per toglierli alla moglie.
se una donna vuole lasciare il marito lui è talmente disperato, non sa affrontare il distacco, l’abbandono, pensa di non aver nulla da perdere, ritiene profondamente ingiusto che gli sia sottratto ciò che ritiene suo, se non vuole vivere lui allora non vivrà nessun altro.
se una donna vuole lasciare suo marito lui se va bene uccide solo lei, oppure solo i figli o stermina la famiglia.
tutto ciò E’ profondamente maschilista. risiede nella cultura patriarcale, nel concetto di famiglia=proprietà.
se una donna è depressa, ha problemi, è insofferente al rapporto che vive non ammazza nessuno. se ne va. l’infanticidio è una questione profondamente diversa.
capita di rado che i figli uccidano i genitori, che le donne uccidano parte della famiglia.
ogni giorno e ripeto OGNI GIORNO un uomo uccide una donna e spesso anche tutta la famiglia per gli stessi identici motivi.
hai visto il film un giorno perfetto?
se non l’hai visto guardalo. ti aiuterà a capire.
Io sono veramente stufa di sentir parlare di depressione in casi come questo. E’ un oltraggio a quanti, come me, di depressione soffrono o hanno sofferto davvero. Ci si ritrova a vergognarsi di dirlo, che si è – o si è stati – depressi, ci si ritrova ad aver paura di essere etichettati come possibili assassini. Ci si ritrova a tentare di nascondersi, limitando in questo modo le possibilità di guarigione e magari, chissà, alla fine ci si convince pure di essere davvero pericolosi.
In realtà il depresso non ha abbastanza energie per fare mattanze di questo genere, e mi stupisce il fatto che nessun esperto intervenga per chiarire questo concetto. Il “vero” depresso è pericoloso per sè, non per gli altri. Se trova un minimo di forza si suicida, perchè non ha voglia di vivere, non c’è rabbia in quello che fa, solo una grande stanchezza.
Tra l’altro, le statistiche ci dicono che le donne soffrono di depressione in misura doppia rispetto agli uomini. E allora com’è che non si legge mai di stragi commesse da donne depresse?
La disoccupazione può essere una concausa, certo non una causa. Stessa cosa per la depressione che comunque ha il suo peso.
Comunque sia non so se questo caso possa essere messo sullo stesso piano di stupri e violenze di matrice “maschilista”. Può darsi di sì, può darsi di no, bisognerebbe conoscere bene il fatto e le persone coinvolte. Infatti non tutti i massacri “familiari” nascono dal padre, a volte dalla madre, altre volte dai figli.
Insomma io credo che la ragione sia più profonda e vada cercata in quell’istituzione che è la famiglia. Ora mi dirai tu che è un’istituzione patriarcale e su questo ti posso dare ragione, ma cosa c’entra con il fatto che anche una madre ammazza i suoi figli? Se volessimo rimanere allo schema patriarcale la donna dovrebbe essere quella che accudisce i figli, che sta al suo posto a badare alla casa e quindi che non si ribella, che non può ammazzare la famiglia, ma anzi ne è la custode, il nume tutelare. Semmai questo può valere per il padre (nell’antica Roma aveva diritto di vita o di morte sui figli) che è il dominatore e quindi, potenzialmente anche il massacratore, essendo nel dominio implicita la violenza.
A meno che non si pensi che l’omicidio familiare da parte di una donna abbia una causa diversa di un omicidio familiare da parte di un uomo. Ma perché? In tutti e tre i casi, sia che il crimine sia commesso dal padre, dalla madre o dai figli abbiamo un minimo comun denominatore che non è il padre o il maschio, ma la famiglia, appunto. C’è quindi qualcosa nei rapporti familiari (non solo quelli marito-moglie e padre-figlio ma anche madre-figlio o genitore-figlio) di intrinsecamente repressivo.
Perchè noi, anche nelle notizie di cronaca, dove si dovrebbe riportare la verità più accurata, non abbiamo volto, neanche lì. Siamo il contorno di una vicenda che riguarda l’uomo, il capofamiglia.