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Miss Lulù

Aveva la schiena ritta come se qualcuno le avesse infilato un bastone
nell’ano. Sopracciglia a punta, zigomi alti. Nell’insieme una faccia
che tendeva verso l’alto. Un po’ come crudelia demon. Fossi stato un
cane avrei deciso di pisciargli sulla coscia.

Parlava lentamente, di quella lentezza che produce prurito dappertutto.
Scandiva bene la pa-ro-le come se le persone presenti fossero tutte
poco più che ritardate mentali.

Un nomignolo che sarebbe stato più appropriato per il gatto della
signora del piano di sopra: Lulù. Coriacea nei dettagli e gentile
all’apparenza. La sua pianta sempreverde del pianerottolo era un po’
più grande e curata di quella della vicina. La maniglia della sua porta
brillava poco di più. La targhetta con il suo nome era lievemente più
bordata, il cognome di un oro poco più splendente. Di quelle che fanno
pesare la propria perfezione senza sputartela in faccia.

Proprio per questo era difficile averci a che fare. Alla signora del
primo piano era facile dirle un po’ di vaffanculo senza pensarci su. La
signora Lulù invece era di quelle che se la volevi vedere morire con
soddisfazione dovevi misurarti con i rodimenti di culo, con i sorrisini
a denti stretti, con la gastrite. Nessun attacco diretto. Niente
sfanculamenti liberatori. Con lei non potevi farlo. Era sempre così
“gentile” e se le rispondevi male di colpo si trasformava in una
bambina ferita. Lei la vittima e tu l’orca cattiva.

Mi tese una trappola che era pieno inverno. Una mia piantina non
resistette al vento e il balcone di Miss Lulù si riempì di terra. La
sua terrazza era quella più pulita tra tutte. Anzi no. Solo un po’ più
lucida. Giusto perché si vedesse la differenza, senza esagerare.

Dovetti scendere a chiedere scusa e lei mi fece accomodare senza
ritegno. Era perfettamente truccata e vestita come se stesse aspettando
ospiti. Mi disse che invece a lei piaceva conciarsi così per stare in
casa. Chissà che emozione pesare un chilo di fondotinta mentre si squaglia
al sudore della prima spolverata del mattino.

Mi offrì un ottimo caffè e una fetta di dolce che aveva preparato con
le sue spigolose manine. Vedere la sua casa da vicino mi fece uno
strano effetto. Non c’era nulla di quel posto che sembrasse familiare,
vissuto, normalmente caotico. Nessun segno di vita nelle camere,
nessuna foto di lei da giovane. Una biblioteca di titoli ordinati e
senza una identità precisa.

Solo un suono in sottofondo. Un lamentoso e drammatico pezzo di
musica gitana. Chitarra classica arpeggiata dal vivo da mani anonime e un
fastidioso fruscio del disco in vinile. Feci una battuta sull’esistenza
dei compact disk. Lei sembrò non cogliere e mi offrì un’occhiata
arcigna.

La terra infine era sul balcone. Fui pignola sull’intervento da fare.
Una spazzata lieve non era sufficiente e una lucidata con la cera
sarebbe stata eccessiva. Miss Lulù mi lasciò fare. Stava lì ad
osservarmi e i suoi occhi si schiantavano su di me per controllare
persino i miei pensieri.

Da quel giorno presi ad andare dalla vicina quasi ogni pomeriggio. Lei mi
faceva trovare il suo dolce e la sua ottima tazza di caffè. Abito,
trucco impeccabili. Un foulard di seta che le avvolgeva il lungo collo, un giro di perle e degli orecchini con dei piccoli diamanti a decorarle i lobi. Nulla di
vistoso, naturalmente.

Osservandola giorno dopo giorno la trovai persino attraente. Con una
sua armonia. La sua voce a tratti diventava un soffio sensuale. Era un
soggetto perfetto da odiare. Potevo dedicarle tutto il mio disprezzo
esercitandomi a inserirlo tra le fessure dei discorsi, nella cadenza
delle frasi, nelle espressioni sapientemente studiate davanti allo
specchio della mia camera.

Lulù diventò in effetti la mia personale ossessione. Tutte le signore
del palazzo ne avevano una. Il cane della studentessa del quinto piano,
gli zoccoli del musicista del terzo ammezzato, le urla della neonata
del pianterreno. La mia era Lulù. Quella perfetta, compostissima,
odiosissima donna.

Finii per raccontarle tutto di me. I miei fallimenti, il mio divorzio,
le umiliazioni del mio schifosissimo datore di lavoro. Le dissi dei
debiti e dello sfratto quasi imminente. Della atroce morte di mio
padre, travolto da un tram vicino al parco, quello in centro, proprio
dove andava tutti i giorni a leggere il giornale e a fare quattro
chiacchiere con gli amici.

Lei era perfetta persino nella commozione. La giusta piega del labbro
superiore. Uno scintillio degli occhi che a pensarci ancora oggi mi
viene una rabbia enorme. E’ qualcosa che non si può capire, mi rendo
conto. Vediamo. Come posso spiegarvi.

Lei per prima cosa mi offrì il numero di un avvocato. Disse che
avrebbe sicuramente risolto la questione dello sfratto e che al peggio
mi avrebbe fatto ottenere una dilazione. Giusto il tempo di tirare un
po’ di fiato.

Me l’avesse detto chiunque altro avrei ringraziato, urlato di gioia.
Invece detto da lei mi sembrò un affronto. Era la sua vittoria sulla
mia. La sua vita così perfetta e la mia invece drammaticamente in
rovina.

La solidarietà di Lulù in realtà era un’offesa. Di quelle che si fanno per dimostrare di essere migliori. E non fu l’unica.

Appena un paio di giorni dopo con il suo solito sorriso di classe, mi
disse che era riuscita a ottenere un colloquio per me da un suo amico
che cercava dipendenti.

Fu davvero troppo. Non solo voleva umiliarmi ma
desiderava definitivamente vincere, mutilarmi della libertà di odiarla,
di esserle nei secoli infedele. Non sarebbe stato più mio diritto
storpiare le frasi per sfottere il suo modo di parlare. Ne’ lo sarebbe stato quello di restare dritta con la tazzina in mano per simulare la sua posa da
manichino teso.

Non sarei più riuscita a ridere di lei, a sentirmi viva ogni giorno.
Non avrei più avuto un obiettivo da raggiungere, un motivo per
vestirmi, parlare, sognare ad occhi aperti. Non avrei più avuto alcuna
ragione per vivere.

C’era questa donna che doveva restare una mia cordiale nemica. Non
potevo affezionarmi a lei. Decisamente non potevo permettermi il lusso di
amarla.

Le permisi di offrirmi un’ultima fetta di torta, un ultimo caffè.
Ancora qualche parola gentile e perfino una carezza in pieno viso. Sento ancora
il tepore delle sue mani. Come erano lisce. Che fiammata al cuore.

Quello che accadde dopo fu davvero molto semplice. Una botta in testa e
tanti tagli in mille parti del corpo. Non crederete mai come sia
difficile trafiggere con la lama la carne, le ossa, gli organi di una
persona. E’ difficile anche con uno dei fantastici coltelli miracle blade dello chef Tony. Perciò c’e’ bisogno di provare
più volte. Per essere sicure che alla fine quella muoia.

Quando Lulù smise di respirare, i suoi occhi continuarono a fissarmi
sereni. La sua bocca era socchiusa in un mezzo sorriso. Sembrava quasi
felice o era il suo modo perfetto di affrontare la morte.

Io avevo salvato il mio odio. Qualche volta è necessario ammazzare qualcuno per sopravvivere.

La vidi piegata su un fianco. La gonna le lasciava le gambe scoperte.
Le accarezzai a lungo. All’inguine la vidi per quello che era. Una
donna per nulla perfetta, come me. Allora mi innamorai di lei, per
sempre.

 

 

Posted in Narrazioni: Assaggi.


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Continuing the Discussion

  1. storiemalate linked to this post on Dicembre 13, 2008

    Lei era perfetta persino nella commozione. La giusta piega del labbro
    superiore. Uno scintillio degli occhi che a pensarci ancora oggi mi
    viene una rabbia enorme. E’ qualcosa che non si può capire, mi rendo
    conto.

    via Femminismo a …