Avete voglia di vacanza e siete già con il culo ammollo, in topless o bikini o slip aderenti che fanno vedere il pacco? Epperò se siete trendy e avete la chiavetta per la connessione dalla spiaggia, e state lì annoiat* perchè dopo tanti "bla bla" avete bisogno di stimoli forti, potete dare un’occhiata a questa lettura leggera. Please, provate a tenere attivo l’unico neurone che vi è rimasto…
Su Liberazione oggi viene anticipato un saggio di Alessandro Dal Lago dal volume dedicato alla situazione italiana, allegato al numero di Micromega sulle olimpiadi in uscita oggi. Ecco il testo riportato.
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L’idea
di biopolitica, coniata da Michel Foucault in alcuni corsi al Collège
de France della fine degli anni Settanta, designa oggi, nel dibattito
filosofico-politico, i diversi campi in cui si esercita il governo
della vita, ovvero la definizione incessante e pratica del vivente come
oggetto di controversia pubblica: dal conflitto sulla personalità
dell’embrione all’etica sessuale e al controllo demografico delle
migrazioni.
Infatti, l’attore più potente in campo biopolitico è
oggi la Chiesa cattolica, che esercita, legittimamente o no, la pretesa
di governare in ogni campo le espressioni della vita. Ma, in generale,
«come vivere» (e ovviamente come morire) è la posta in gioco nel
conflitto tra destra e sinistra, laici e cattolici eccetera. Dai valori
da trasmettere ai nostri figli alle campagne contro l’alcolismo
giovanile, il bullismo, le droghe leggere eccetera, fino alla «buona
morte», la condotta di vita è terreno di scontro politico e quindi di
«governamentalità». Questo non significa che stia rinascendo qualcosa
come lo Stato etico (benché Chiesa e la destra fondamentalista, in ogni
parte del mondo, abbiano sicuramente in testa qualcosa del genere), ma
che l’«etica» (e quindi la condotta individuale) tende a sostituire i
grandi temi del Novecento: il benessere collettivo, la giustizia
sociale, la libertà politica e così via.
Un aspetto della
biopolitica, in senso molto lato, che mi sembra oggi rilevante è ciò
che definirei come Daseinpolitik, ovvero «politica dell’esistenza» o
dell’esserci. Innumerevoli segnali fanno ritenere che aspetti della
condizione umana che, nella filosofia del Novecento, erano di stretta
competenza del soggetto individuale (stando al classico in materia,
Essere e tempo di Martin Heidegger) siano oggetto di investimento
politico. Al solito, non stiamo parlando di un complotto o di grandi
fratelli ma di una tendenza, al tempo stesso culturale e politica,
pervasiva e articolata. Consideriamo, per esempio, l’onnipresente
questione dell’ «insicurezza». Oggi questa non ha nulla a che fare con
«l’insicurezza ontologica» di cui parlava quarant’anni fa
l’antipsichiatra Ronald Laing nell’ Io diviso , e cioé il senso di
inconsistenza o di incertezza esistenziale che prima o poi prende
chiunque, in forme più o meno sopportabili. Invece, l’insicurezza è una
questione in senso stretto sociale e concreta. «Quando esco per strada
non mi senso sicuro», «I reati sono più o meno stabili ma cresce
l’insicurezza della gente», «L’immigrazione clandestina produce
insicurezza»: ecco espressioni tipiche che ogni giorno leggiamo sui
quotidiani e su cui il ceto politico si esprime instancabilmente. E che
quindi sono divenute sotto ogni punto di vista politiche.
Che la
sicurezza – e quindi la riduzione dell’insicurezza – sia uno degli
obiettivi primari di ogni buon governo è noto fin dai tempi del
cameralismo. Anzi, della fondazione dello Stato moderno, quello che si
chiama westphaliano e corrisponde più o meno alla definizione weberiana
dello Stato come «monopolio della violenza legittima». Come si sa, la
sicurezza in gioco nelle teorie politiche classiche riguardava la vita
in senso stretto: nella famosa allegoria hobbesiana del Leviatano, i
cittadini delegano al principe ogni uso delle armi per essere protetti,
nell’incolumità e nei beni, da assassini, fazioni religiose avverse e
nemici. Hobbes era particolarmente sensibile a questo tema. All’inizio
della sua autobiografia in versi, Vita carmine expressa , egli ricorda
che la sua nascita prematura fu causata dal panico che si diffuse in
Inghilterra, all’arrivo dell’Invencible Armada: «And hereupon it was my
mother dear/Did bring forth twins at once, both me and fear» («E fu
così che la mia cara madre partorì a un tempo due gemelli, me e la
paura»). Negli ultimi versi, Hobbes dichiara che solo ora, alla fine
della sua vita, quando ha fatto tutto quello che riteneva giusto e
attende solo la morte, «non ha più paura».
La protezione della vita
e dei beni è dunque il minimo che uno Stato deve assicurare ai
cittadini. Naturalmente questa ragion d’essere primaria delle strutture
pubbliche è declinata in modo molto diverso a seconda delle culture
politiche. Negli Stati Uniti, in cui sostanzialmente i cittadini hanno
diritto di usare le armi per difendere la propria casa dagli intrusi,
la mancanza di un sistema sanitario nazionale fa sì che una quota non
trascurabile della popolazione non goda di una vera e propria
protezione della salute. Ma in ogni caso è evidente che uno Stato
strutturalmente incapace di operare in questo senso vede erodere le
basi stesse della sua legittimità.
Apparentemente, quanto precede va
esattamente nel senso della retorica pubblica della sicurezza che ho
evocato sopra come un aspetto della «politica dell’esistenza». Qualcuno
che magari conosce le mie precedenti opinioni in materia penserà che mi
sono convertito, che so, alla filosofia politica – se vogliamo
chiamarla così – di Maroni o Veltroni (le cui idee in tema di sicurezza
sono molto simili). Ma è esattamente il contrario: io ritengo che
proprio l’incessante retorica pubblica dell’insicurezza dilagante non
abbia a che fare con la sicurezza dei cittadini, ma con il loro
governo, e cioè con la loro subordinazione. Che apparentemente i
cittadini approvino tale retorica, stando ai sondaggi, non mi sorprende
più di tanto. E non solo per quel fenomeno che l’amico di Montaigne,
Etiene de La Boetie, cinque secoli fa, chiamava suggestivamente
«servitù volontaria». Quanto e soprattutto perché è molto difficile che
una retorica prodotta oggi dalla totalità del ceto politico (con
lievissime differenze d’accento tra governo e opposizione) non goda di
favore per un certo tempo, anche perché alimentata quotidianamente.
Naturalmente, nessun ciclo storico è eterno: nulla esclude che prima o
poi l’opinione pubblica non si decida a chiedere conto ai suoi
governanti di quello che dicono, con una semplice domanda degna del
racconto di Andersen, I vestiti dell’imperatore : «Ma se ci parlate da
quindici anni di insicurezza, non è che per caso non siete mai stati
capaci di far qualcosa in proposito?». Dio abbia pietà di quei
governanti, quando gli elettori scopriranno di essere stati raggirati
per tanto tempo.
La verità è che mai i governanti potranno far
qualcosa, date le premesse fantastiche dell’incessante retorica. Per
dirla in poche parole, nessuno ci potrà mai curare dal mal di
insicurezza: che nel 1992 in Italia si uccidessero ogni anno 1.200
persone, e oggi poco più della metà, non ci dice nulla della
probabilità reale di essere uccisi in questi sedici anni. E lo stesso
vale per quella di essere scippati, derubati e così via. Le statistiche
sono una sintesi puramente numerica dell’esito di processi aleatori e
largamente imprevedibili: non significano letteralmente nulla per le
nostre esistenze. Io, per esempio, ho vissuto per alcuni mesi in una
città, Los Angeles, la cui contea è abitata da 14 milioni di abitanti
ed è funestata da 1.000 omicidi all’anno – fatte le debite proporzioni,
è come se in Italia si contassero 5 mila omicidi, e cioè nove volte il
numero reale, una cifra che farebbe invocare da qualcuno il coprifuoco.
Ebbene, stando a Los Angeles, non ho percepito nessun rischio, nessuno
ha attentato alla mia vita e mi sono persino dimenticato un paio di
volte di chiudere la porta di casa. E’ vero che abitavo in un quartiere
considerato sicuro (ma diversi miei conoscenti hanno dichiarato di
essere normalmente impauriti…). Insomma, come la diminuzione dei reati
di strada non ci protegge dalla possibilità di uno scippo, così la
percentuale degli omicidi su un certo numero di abitanti non ci
permette di essere sicuri che domani qualcuno non ci aggredirà con un
coltello. In questi campi, l’insicurezza è questione di punti di vista,
carattere, suggestionabilità e ovviamente caso.
E quindi corrisponde
in tutto e per tutto al carattere enigmatico dell’esistenza. Ecco
perché ho definito Daseinpolitik, «politica dell’esistenza», quel tipo
di retorica pubblica che fa leva sull’umanissima paura o incertezza
esistenziale per legittimare se stessa, e quindi il governo. Per dare
un’idea di ciò che intendo offro solo un esempio, che non ha ovviamente
alcun valore, se non metaforico. Mi chiedono di firmare una petizione
contro i proprietari di un bar sottocasa che tiene aperto fino a notte
fonda ed è perciò causa di un frastuono intollerabile. Non amo il
genere «cittadini che non ne possono più,» ma sono disposto a
considerare la cosa, finché non leggo che la petizione è diretta
all’assessore comunale alla sicurezza. Ma che c’entra la sicurezza? Qui
è questione di regolamenti comunali in tema di pubblici esercizi, e
quindi la petizione o protesta dovrebbe essere indirizzata ai
carabinieri o alla polizia municipale. Ma non capisce che qui è in
gioco il degrado della città? Mi si risponde. No, non capisco. La
verità pura e semplice è che dopo l’incessante campagna sulla
sicurezza, risolvere il problema del frastuono è possibile solo con
l’equazione: «Frastuono uguale degrado uguale insicurezza uguale
(implicitamente) immigrazione». Il risultato è che responsabili ultimi
del frastuono non saranno considerati i gestori del bar (e al limite le
autorità comunali che non fanno nulla), ma i ragazzini marocchini che
ciondolano di notte con la birra in mano.
L’insicurezza ha contorni
così ampi che può riguardare tutto e non corrispondere a nulla di
particolare. O meglio corrisponde a qualcosa che si dà per scontato
come una necessità e non ci si sogna nemmeno di interpretare. E’ vero,
l’andamento dei reati, per lo più in diminuzione, non spiega il senso
di insicurezza, ma se i cittadini hanno questa percezione, dobbiamo
fare qualcosa… ecco che cosa dice un giorno sì e uno no qualsiasi
editoriale dei quotidiani nazionali, grandi e piccoli. Io trovo tale
retorica intellettualmente ripugnante. In primo luogo perché questo
tipo di messaggio, martellante com’è, finisce per alimentare e
accrescere proprio un senso di insicurezza dai contorni incerti e
inconoscibili (ma i giornalisti non pensano mai che televisione e
giornali sono agli occhi del pubblico, la realtà?) E poi perché finisce
per giustificare ogni obbrobrio, che farebbe rivoltare nella tomba non
dico Aldo Capitini, ma persino il vecchio Beccaria. Ed ecco alcuni
esempi e un caso empirico.
Da un mese circa i rom vengono cacciati
da tutti gli insediamenti non si sa dove. Da qualche tempo i prefetti
delle grandi città fanno schedare anche i sinti, per lo più di
cittadinanza italiana, inviando la polizia all’alba nei loro
insediamenti, come se si trattasse di criminali. In qualsiasi posto
civile, questa sarebbe considerata discriminazione su base etnica (i
cittadini sono schedati a seconda della loro supposta origine) e quindi
inammissibile. Alle proteste giustificatissime di un sinti molto noto,
sopravvissuto di una famiglia sterminata dai nazisti, il giornalista di
un quotidiano diffusissimo (che non cito solo per un barlume di carità)
obietta più o meno: «Ma lo fanno per voi, per stabilire chi si comporta
bene e chi no…». Insomma, se ti svegliano alle cinque del mattino per
schedarti e terrorizzano i tuoi bambini, lo fanno per il tuo bene. Si
noti non solo l’ipocrisia dell’argomento, ma l’implicito schierarsi del
giornalista con le autorità. Che ci sta a fare l’Ordine dei giornalisti
se non insegna ai suoi iscritti che compito di un vero giornalista è
descrivere e al limite spiegare ciò che succede, e non fare la morale
(e che morale!) alle vittime di un sopruso?
Caso empirico: l’ondata
di piccoli pogrom contro i rom a Napoli sarebbe stata causata dal
supposto tentativo di ratto di un bambino da parte di una nomade.
Immediatamente l’Opera nomadi e altre associazioni hanno fatto notare
che non esiste un solo caso accertato o giudicato nel dopoguerra di
bambini rapiti dai rom (in cambio conosco almeno tre bufale analoghe,
negli ultimi anni, che si sono sgonfiate in pochi giorni). L’inchiesta
è in corso e scommetto la mia reputazione che si è trattato, nel caso
peggiore, di un equivoco. Ma tutta la stampa nazionale ha riportato
l’episodio prendendolo per buono: «Nomade rapisce un bambino a Napoli,
eccetera» Mi sarebbe piaciuta una controinchiesta, tenuto anche conto
che da quelle parti opera la camorra, che non va tanto per il sottile
quando si tratta di deviare l’attenzione pubblica dai propri misfatti.
Ma credo che l’aspetterò per molto tempo. Ed ecco che cos’è
l’insicurezza, almeno nell’Italia d’oggi: un misto di balle mediali,
cinismo politico e anche, perché no, panico generalizzato. Pensare che
in queste condizioni i sondaggi sulla percezione dell’insicurezza o
dell’immigrazione – propinati instancabilmente dai media – siano veraci
significa avere un’idea curiosa della verità: è vero quello che i media
propongono come tale. Walter Lippman, che non era proprio un anarchico,
ironizzava su questa pretesa almeno sessant’anni fa.
Con politica
dell’esistenza intendo non un complotto o un piano per assoggettarci,
ma un comodo metodo per distrarci dalla realtà di un paese incattivito,
privo di senso del futuro, in cui i salari sono più bassi che altrove,
le università agonizzanti, i giovani senza speranza d’impiego stabile e
la spazzatura trabocca dai cassonetti. Creando un nemico ubiquo,
indefinibile e fungibile (marocchini, rom, albanesi, stupratori
all’angolo delle strade, pedofili nei giardinetti) le vere magagne in
cui affondiamo sono minimizzate e il ceto politico può continuare a
fare la bella vita. E i giornali a vendere il loro allarmismo. Povero
Hobbes. Almeno la sua mamma aveva paura della formidabile armata
spagnola.
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—>>>La vignetta è di Gianfalco
Prima di tutti vennero a prendere gli zingari e fui contento perche’ rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perche’ mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perche’ non ero comunista.
Un giorno vennero a prendermi e non c’era rimasto nessuno a protestare.
(B. Brecht)