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Black feminism: Non tutte le differenze sono uguali

di Anna Simone

«La sintesi generale della nostra politica può
riassumersi così: siamo attivamente impegnate nella lotta contro
l’oppressione razzista, sessista, eterosessista e di classe
. A tal
proposito noi ci proponiamo di sviluppare un’analisi e una pratica
basata sulla certezza secondo cui i principali sistemi di oppressione
siano tutti interrelati. La sintesi di questi sistemi di oppressione
crea le condizioni entro le quali viviamo. In quanto donne nere, noi
vediamo il femminismo nero come un movimento politico indispensabile
per combattere il sistema molteplice e simultaneo delle singole forme
di oppressione che si scaglia contro le donne di colore
».

Così, nel
1977, scrivevano le donne afro-americane del collettivo Combahee River
in un documento che, assieme ad altri importantissimi scritti
provenienti dal cosiddetto Black Feminism, costituiscono la trama di
un’antologia appena edita in Francia a cura di Elsa Dorlin, una giovane
ricercatrice della Sorbonne, attenta osservatrice e attivista del
movimento femminista contemporaneo europeo e non ( Black Feminism.
Anthologie du féminisme africain-américain , 1975-2000, L’Harmattan,
pp. 260, euro 25).

E’ inutile soffermarsi sulla necessità di
attivare un’adeguata politica della traduzione affinché questi scritti
possano essere leggibili anche in italiano, ciò che vale la pena
rilevare qui è come e quanto questi scritti selezionati lungo quasi un
trentennio possano aprirci la mente e, contemporaneamente, andare a
scardinare alcuni assunti sui quali si è per decenni crogiolato il
femminismo bianco senza mai mettersi in discussione
.

Se è vero che le
forme attuali di un sedimentato razzismo del femminismo occidentale e
bianco
siano sempre passate attraverso una interiorizzazione dei valori
"naturalizzanti" della presunta ragione illuminista o, in epoca più
recente, attraverso il presunto universalismo dei Diritti Umani (si
pensi alle innumerevoli polemiche sull’infibulazione o sul velo) è
altresì vero che in questa negazione della parola altrui vi è anche
stata una negazione dei saperi del femminismo non-occidentale e tra
questi del femminismo nero.


La domanda è: l’altra può parlare?
E’
per questa ragione che il femminismo afro-americano assieme a quello
chicano e indiano costituiscono oggi un esempio fondamentale di come
l’articolazione dei femminismi contemporanei non può che attraversare
il nesso tra sessismo e razzismo
cambiando radicalmente le regole della
politica e della normalizzazione delle condotte. L’espressione Black
Feminism, come ci ricorda Elsa Dorlin nella sua ricca presentazione del
testo, nasce negli Stati Uniti agli inizi degli anni 70 per diverse
ragioni.

Intorno alla fine dell’ottocento, le prime associazioni
femminili statunitensi, tendevano a vedere nella donna africana
immigrata
o costretta dalle politiche coloniali della schiavitù ad
ereditare la famosa "linea del colore", le stesse forme stereotipate
che spesso attribuiva loro il maschile: esse erano o puttane, o
"matriarcato selvaggio", o vittime, donne rozze, violente. Ma se il
maschio bianco costruiva attorno ad esse un desiderio erotico legato al
sessismo, ad una forma di esotismo stereotipato degno di molti
immaginari maschili legati all’idea "dell’altra" da inferiorizzare e
possedere in quanto nera, le donne bianche tendevano a mettere in atto
politiche di inclusione legate solo al maschio nero.

In poche parole
l’anti-razzismo delle donne bianche statunitensi di fine ‘800, come tra
l’altro dimostrano le battaglie per il suffragio elettorale di quegli
anni, erano solo orientate verso i maschi neri. L’anti-razzismo per gli
uomini neri, il sessismo e la costruzione di terribili stereotipi per
le donne nere messi a punto dal maschile tanto quanto dal femminile.
Perché? Come mai una siffatta contraddizione? La risposta pur non
essendo ragionevole, appare persino ovvia. Proprio in quegli anni si
andava costituendo la prima fabbrica della norma "femminile" che, per
le donne bianche statunitensi, non poteva che afferire all’idea di
madre
, moglie e ovviamente tutrice di un ordine simbolico "buono" ed
inclusivo
, teso a demonizzare tutto quel che spiazzava la norma stessa
.

Elsa Dorlin riporta a tal proposito una dichiarazione di Mrs. Lowe,
presidente della Federazione dei clubs delle donne, rilasciata ad un
giornalista del Chicago Tribune per giustificare la decisione di non
accettare tra le iscritte alla sua associazione una donna nera
,
Josephine Ruffin: «La signora Ruffin appartiene al suo popolo. Là lei
potrà essere una leader e potrà fare del bene, ma tra noi non potrebbe
che creare problemi».


Queste ed altre vicende condussero, a partire
dagli anni 70, le donne nere ad organizzarsi in movimenti autonomi
per
poter meglio affrontare i retaggi di fine ottocento presenti ancora nel
femminismo bianco sempre molto incline a ragionare intorno a dicotomie
come maschile-femminile, produzione-riproduzione etc. senza mai porsi
fino in fondo il problema del sessismo e del razzismo.


Il "solipsismo
bianco
" di cui ci ha parlato Adrienne Rich, quindi, cominciò ad essere
messo in discussione dal Black Feminism
attraverso una serie di temi:
il rapporto tra loro ed il movimento femminista bianco; la questione
del separatismo femminista o del separatismo nero; il rapporto con i
privilegi anche mediatici di alcuni uomini neri (non ci dimentichiamo
che il Black panther party aveva al suo interno anche una componente
femminista che non è mai balzata agli onori della cronaca e neppure
agli onori della storia postuma dei movimenti); la decostruzione degli
stereotipi che si erano andati stratificando attorno alle donne nere
(matriarcato nero, donna nera uguale indigente o puttana etc.).

Una
differenza, una collocazione particolare che si fa potenza e che
continua il suo percorso al punto tale da poter parlare oggi di una
terza generazione del Black Feminism
. Uno degli scritti contenuto in
questa illuminante antologia, infatti, si chiama "Femminismo
noirqueer: il principio del piacere
" firmato da Laura Alexandra
Harris.

Se è vero, infatti, che per pratica queer dobbiamo intendere –
come ci suggeriva la stessa Judith Butler in un’intervista su
Liberazione – qualsiasi critica a forme di essenzialismo legato al
sesso, al genere e alle culture allora vuol dire che le riflessioni del
femminismo bianco d’ora innanzi non devono orientarsi "sulle" o "con"
le donne afroamericane ma, semmai, devono innanzitutto tentare una
presa di coscienza sulle matrici genealogiche della propria cultura e
di conseguenza della propria storia universale, coloniale e razzista
.

D’altronde se pensiamo ad un argomento di attualità, questa volta tutto
italiano, quale quello dello sfruttamento del lavoro delle donne
migranti
costrette ad essere e a fare solo le colf e le badanti
, i
conti sono presto fatti e di nuovo non tornano perché per ogni donna
bianca emancipata ce n’è una nera o migrante en général sfruttata
. La
storia dello sfruttamento, a volte, sembra ripetersi anche se mutano i
contesti di riferimento.

Negli Stati Uniti tutto cominciò con la
schiavitù degli africani nelle piantagioni diversi lustri fa. In Italia
tutto è cominciato da un decennio, ma questa volta la schiavitù voluta
anche da chi ci governa per sopperire alla crisi del welfare ritorna
sul luogo del delitto originario, sul luogo dello sfruttamento
originario delle donne: la famiglia
.


—>>>Foto e testo da Liberazione del 20/06/2008

Posted in Fem/Activism.