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Stato di emergenza per gli insediamenti nomadici: una scelta irrazionale e discriminatoria


Domenica i Rom hanno manifestato a Roma. Sfilavano con i triangoli
neri appuntati al petto e urlavano "Alemanno, noi siamo più romani di te". 
Nel frattempo il gruppo Everyone [gruppo internazionale che si batte contro le discriminazioni e
le violazioni dei diritti umani
] ci racconta come una giovane rom di 16
anni, incinta di 6 mesi, sia stata aggredita e presa a calci da un italiano mentre chiedeva
l’elemosina in via Rimini, a Pesaro. Così come ci avevano spiegato che la
storia del rapimento della bambina a napoli era tutta una montatura, anzi una follia antizigana. La stessa cosa
pare sia avvenuta a proposito della presunta banda di donne rom: bugie, montature utili a istigare
razzismo e a giustificare atti politici senza senso. Il presidente del
consiglio dei ministri ha dichiarato infatti lo stato di emergenza in relazione
alle regioni: lazio, campania e lombardia. Una scelta che due firme dei Giuristi Democratici giudicano irrazionale e
discriminatoria. Ecco il loro documento dove vi spiegano il perchè:

>>>^^^<<< 

di Barbara Spinelli, Emilio Robotti

Le ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3676, 3677 e 3778
del 30.05.2008 dispongono misure urgenti di protezione civile per fronteggiare
lo stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nel
territorio delle regioni di Lazio, Lombardia e Campania.

Attraverso tale scelta normativa, il Presidente del Consiglio ha fatto un
uso spregiudicato di uno strumento giuridico assolutamente eccezionale,
finalizzato a fronteggiare eventi assolutamente imprevedibili e comunque
eccezionali e catastrofici (terremoti, emergenze sanitarie ecc.), paventandolo
come la panacea per il “male” dei campi nomadi, che indubbiamente non
rappresenta una emergenza (improvvisa difficoltà, situazione che impone di
intervenire rapidamente, circostanza imprevista
) quanto piuttosto
l’ordinaria precarietà di vita e abitativa di migliaia di (non) persone, che
ordinariamente si svolge nel più totale disinteresse delle Istituzioni.

Le Istituzioni, se si escludono le azioni giustificate da reali o presunte
esigenze di ordine pubblico, sono rimaste incuranti -vuoi per ignoranza, vuoi
per complice indifferenza-ai numerosi pronunciamenti dei principali organismi
internazionali e comunitari. E’ evidente che tali indicazioni e raccomandazioni
di organi previsti dal diritto internazionale e comunitario sono sempre stati
ritenuti un semplice fastidio, quando non indebite “ingerenze” negli affari
interni italiani, poiché insistono per il riconoscimento, anche verso le
popolazioni nomadi storicamente presenti in Italia da diversi secoli (Rom,
Sinti e Camminanti) dello status di minoranza etnica; di conseguenza impongono
sul piano dei diritti fondamentali il rispetto della loro identità e stile di
vita, del diritto all’abitazione, alla salute, all’istruzione, all’integrazione
sociale, così come meglio specificati anche da una corposa produzione
giurisprudenziale della Corte Europea per i Diritti Umani.

Dunque, a fronte di una situazione che necessita di interventi non
“emergenziali”, ma organici, strutturali, di “integrazione” del popolo nomade
attraverso la comprensione e la valorizzazione delle differenti culture, si
preferisce utilizzare in modo improprio uno strumento di legislazione
straordinario. Ottenendo un risultato che è, sostanzialmente, la rimozione
psicologica – da parte delle istituzioni – del problema, attraverso
l’allontanamento fisico dei nomadi, e dunque della fonte di “insicurezza” e di
“degrado”, dai centri abitati, e la creazione di un clima di intolleranza e
razzismo nella popolazione “stanziale”.

Il Governo, con il D.P.C.M. 21.05 2008 ha decretato lo stato di emergenza
nei territori regionali suddetti per una “situazione di grave allarme
sociale, con possibili gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e
sicurezza per le popolazioni locali
” poiché vi è “impossibilità di
adottare soluzioni finalizzate ad una sostenibile distribuzione delle comunità
nomadi senza il coinvolgimento di tutti gli enti locali interessati
”. Lo
scopo reale del provvedimento e di quelli che ad esso hanno dato esecuzione è
quindi proprio questo, quello di sempre: distribuire le popolazioni nomadi in
modo “sostenibile”.

Ancora una volta, emerge come fonte di preoccupazione primaria, per il
Governo, la “gestione” di popoli dei quali, ancora, dopo secoli di convivenza,
non si riesce ad accettare, ma soprattutto non si vuole nemmeno provare a
comprendere il diverso stile di vita: prevale dunque la “logica dei campi”,
già in numerose occasioni censurata come profondamente discriminatoria dai
principali organismi a tutela dei diritti umani, una logica di ghettizzazione e
di negazione spaziale che confina la diversitànella miseria del niente,
puntando a separare chi non si conforma al vivere stanziale dal resto della
società italiana.

Società stanziale dalla quale, facendone oggi una questione “di grave
allarme sociale”, ci si adopera per tenere artificialmente esclusi i nomadi,
bloccando sul nascere qualsiasi possibilità di interazione e condannando i Rom
e i Sinti a subire il peso della segregazione su base “razziale” o “etnica” che
dir si voglia.

Quella che riguarda le popolazioni nomadi non può essere considerata quindi
un’emergenza, ma una situazione storica che non nasce oggi, e che come tale
andrebbe considerata ed affrontata: al contrario, si è decretato da parte del
Consiglio dei Ministri lo stato di emergenza sino al 31.05.2008, solo per poter
giustificare le successive ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri,
che, al contrario della ratio che le caratterizza, una ratio di
contingenza e temporaneità, non hanno un termine definito, e, possiamo
immaginare, così è per evitare una inevitabile e continua proroga di tale –
qualora fosse stato fissato – termine.

L’obiettivo di ottenere “una sostenibile distribuzione delle comunità
nomadi
” , viene arbitrariamente limitato ai nomadi stanziati nelle Regioni
di Lazio, Lombardia e Campania: anche questa previsione – apparentemente poco
comprensibile – trova una sua logica solo se si considera che, per fondare i
poteri di emergenza, non si è fatto riferimento all’insostenibilità delle
condizioni di vita che caratterizzano i campi nomadi, (la medesima in tutta
Italia), ma è piuttosto il “fastidio” che la presenza dei campi provoca alle
popolazioni locali, in altre parole, per utilizzare la terminologia dei provvedimenti
in esame, la situazione di “grave allarme sociale” che, a “causa
della loro estrema precarietà
”, i campi hanno determinato, “con
possibili gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e sicurezza per le
popolazioni locali
”.

Ovvio che, se il problema non viene affrontato in un’ottica di interazione
per creare relazioni empatiche, incondizionate e prive di valutazioni
ideologiche, promotrici della crescita, del benessere e dell’indipendenza di
entrambe le parti, mettendo al centro la dignità della Persona, ma si affronta
attraverso la negazione della dignità dell’identità nomade, a favore di logiche
securitarie, perseguendo l’obiettivo di ottenere “una sostenibile
distribuzione delle comunità nomadi
”, inevitabilmente si arriva ad
utilizzare misure di carattere coattivo; così, lo sgombero dei siti non
autorizzati viene adottato come “misura utile e necessaria per il
superamento dell’emergenza”
.

In tal senso, il Commissario (il Prefetto del capoluogo regionale) ha
amplissimi poteri: “l’approvazione dei progetti da parte del Commissario
delegato sostituisce, ad ogni effetto, visti, pareri, autorizzazioni e
concessioni di competenza di organi statali, regionali, provinciali e comunali,
costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico generale e
comporta dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei
lavori, in deroga all’art. 98, comma 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006,
n. 163 salva l’applicazione dell’art. 11 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 327 del 2001 e successive modifiche ed integrazioni, anche prima
dall’espletamento delle procedure espropriative, che si svolgeranno con i
termini di legge ridotti della metà
.” Poteri straordinari, questi, non
giustificati come abbiamo detto, da alcuna reale emergenza, che dimostrano solo
la volontà del Governo di aggirare le norme vigenti ogni qualvolta esso
individui un argomento mediaticamente forte, al quale dare una risposta
altrettanto forte mediaticamente, seguendo uno stile che, purtroppo, da anni
accomuna i governi di diverso colore che si sono succeduti nell’intervenire a
colpi di decreti legge sui temi legati alla sicurezza (delle popolazioni
nomadi, della sicurezza sul lavoro, del terrorismo, della precarietà del
lavoro), senza alcuna seria e meditata valutazione rispetto al risultato che si
possa effettivamente ottenere dai provvedimenti emanati.

Risultati che, in questo specifico caso: saranno lo smantellamento di
qualche campo, e soprattutto -questa la vera novità- la schedatura ulteriore e
qualche ulteriore “espulsione” o detenzione in attesa di essa, di stranieri
irregolari. Ma, soprattutto ben più gravi conseguenze in termini di “deriva
razzista” delle quali già si intravedono allarmanti segnali (1).

La recente normazione d’emergenza riflette, ancora una volta, quel
sentimento di diffidenza, astio, rigetto nei confronti di popoli da sempre
vittime di persecuzioni per la propria identità non stanziale: non è un passato
remoto quello che ha visto la pulizia etnica delle popolazioni nomadi (Romà principalmente),
con oltre 500.000 vittime nei campi di sterminio nazisti, oltre alle donne
sottoposte a sterilizzazione, ed altre barbarie subite.

Ma anche volendo considerare tutto questo storia passata, stupisce che si
sia decretato lo stato di emergenza in un momento in cui, stando alle
statistiche, il numero attuale di Romà e Sinti presente in Italia è
sostanzialmente paragonabile a quello degli ultimi dieci anni, senza variazioni
significative, ed invece nessun tipo di strumento eccezionale sia ad esempio
mai stato utilizzato quando effettivamente, a causa dei conflitti in ex
Jugoslavia, i profughi affollarono i campi sosta, autorizzati e no, italiani,
causando, allora sì, una emergenza umanitaria. In quel caso, peraltro, ed al
contrario di oggi, si ebbe tutto sommato una qualche

– pur relativa – maggiore elasticità, da parte di alcune Questure, almeno
nel concedere permessi temporanei per motivi umanitari a tali profughi che
sovraffollarono i campi sosta, spesso rimanendo nel nostro paese anche a guerra
finita.

La logica seguita dai provvedimenti più recenti è quindi sempre la stessa,
non rappresentando altro che la prosecuzione di fallimentari politiche in
merito alle popolazioni nomadi; politiche che non tengono mai conto delle
esperienze – negative e positive – di volontari , operatori professionali,
EE.LL, ovvero degli unici che con i nomadi hanno tentato l’ascolto, la
mediazione culturale, ma soprattutto non tengono conto delle reali esigenze dei
nomadi stessi, che mai vengono considerati, pur se cittadini, soggetti
interlocutori nelle politiche che direttamente concernono la loro esistenza e
permanenza sul territorio italiano.

Il fine ultimo perseguito a livello istituzionale è sempre quello di
controllo del territorio: solo campi sosta autorizzati, “distribuzione” più o
meno “sostenibile” degli “zingari”, non considerando che la crescita
demografica di tali popolazioni e il frequente spostamento, impediscono di
affrontare la situazione semplicemente contingentando i posti “autorizzati” e
facendo accedere a case popolari, che non ci sono per chi le vuole (gli
stanziali), e si pretende ci debbano essere, almeno sulla carta, per chi quasi
sempre non le vuole (i nomadi).

Il risultato di tale politica, fallimentare, contribuisce a creare un humus
favorevole allo sviluppo di sentimenti razzisti e xenofobi nella popolazione
stanziale, un affollamento dei campi autorizzati (che non possono contenere i
“regolari” per la crescita demografica, oltre che per gli spostamenti degli
“ospiti”) che a sua volta determina la nascita di campi “irregolari” ed il loro
sovraffollamento.

Le soluzioni “alternative” a tali politiche, talvolta trovate da alcuni
gruppi nomadi, che hanno acquistato terreni per risiedervi sulle loro case
mobili, trovano l’accanita opposizione delle Amministrazioni Locali che si
adoperano per criminalizzare le roulotte e gli insediamenti “abusivi”,
ordinandone la demolizione e costringendo così anche chi aveva scelto di vivere
in condizioni più dignitose a rinunciarvi, in nome della “legalità”.

In ogni caso, il diritto dei nomadi ad una “abitazione adeguata”, ovvero
rispondente alla loro tradizione e identità oltre che dignitosa sotto il
profilo urbanistico e sanitario, viene sempre vincolato e subordinato al
comportamento del soggetto: dunque o una logica di “assimilazione”
(appartamenti che dividono i nuclei familiari) o a una logica di “segregazione”
(campi).

Nessuna considerazione per il fatto che nella cultura “zingara”, nomade per
antonomasia, il viaggio (drom), anche come possibilità simbolica
espressa da un’abitazione “mobile”, abbia ovviamente un’importanza
fondamentale: è ciò che permette l’esercizio di mestieri, ciò che determina
l’organizzazione sociale. Il viaggio consente l’incontro in occasioni di
avvenimenti importanti, di non avere legami significativi con i luoghi in cui
si è sostato, e quindi salvaguarda l’identità e l’omogeneità culturale;
permette di riconoscersi con il simile (nomade), e di differenziarsi dal
diverso (stanziale). E’ un mezzo attraverso il quale circolano le informazioni,
che permette di risolvere possibili conflitti con le popolazioni sedentarie o
con altri gruppi nomadi, che permette l’incontro, e attraverso il matrimonio,
la costruzione di alleanze tra le famiglie. In realtà, non sempre le comunità
zingare odierne viaggiano più di quanto non facciano gli “stanziali”; ma il
viaggio, in una cultura nomade, determina una diversa concezione del tempo e
dello spazio, poiché “La concezione e la modalità di uso dello spazio,
analogamente alla concezione e all’organizzazione del tempo, sono (…) il
risultato, storicamente determinato, dei bisogni organizzativi della vita
sociale e ne rivelano i valori fondamentali
“(2).

I concetti di spazio e di tempo propri della vita sociale zingara, sono
infatti rispondenti a bisogni e a valori diversi da quelli delle società
sedentarie ai margini delle quali le comunità zingare vivono. Il concetto di
abitare assume un significato diverso, perché non comprende solo l’unita
abitativa, la kampina (la roulotte, la baracca, il caravan, ma anche
l’appartamento in qualche caso), utile per contenere gli oggetti
indispensabili, dormire e ripararsi dalle intemperie, ma tutto lo spazio
infinito che lo circonda, che non appartiene a nessuno; in questo modo diviene
accettabile vivere tutta la vita in uno spazio inconcepibilmente angusto per la
cultura degli stanziali, abituata a separare e delimitare tutti i luoghi della
vita: quello del lavoro, della famiglia, del tempo libero. E si tratta di
concetti che vivono nelle popolazioni nomadi, indipendenti dalla frequenza
degli spostamenti, che possono essere anche meno frequenti di quelli degli
stanziali: il nomadismo d’altronde non ha mai significato essere “sempre” in
viaggio; è sempre stato legato ai ritmi della terra, dell’allevamento, ai
rivolgimenti sociali, alle guerre ecc.

L’emergenza indicata nei provvedimenti del Governo non esiste, quindi, e
probabilmente tali provvedimenti non reggerebbero alla verifica giudiziale;
casomai sussiste una incapacità diffusa, non solo a livello centrale, di
risolvere problemi che si trascinano da decenni (tristemente significativo
l’accostamento tra “rifiuti” e “zingari”) e che si cerca di risolvere
attraverso l’istituzione di “Commissari”, lo spreco di risorse pubbliche, ed
ora anche la violazione della ratio della normazione d’emergenza
(dell’ordinamento normativo si chiede, come spesso accade, il rispetto solo ai
semplici cittadini, attenuando via via la severità con i potenti, sino ad
annullarla allorquando l’agente è una figura istituzionale che, facendo cattivo
uso degli strumenti in suo potere, ne abusa trasformandoli in strumento di
governabilità e di consenso, come nel caso di specie).

Emergenza o meno che sia, sappiamo che comunque il problema non sarà così
risolto, e la recente retata notturna per il censimento di una storica famiglia
di cittadini italiani di etnia sinta di Milano ce lo conferma; ma non possiamo
esimerci dal dire che, per non risultare discriminatori ed illegittimi a tutti
gli effetti, i provvedimenti del Governo, e soprattutto in futuro quelli dei
Commissari istituiti ad hoc e delle altre autorità amministrative,
dovrebbero tenere conto già prima della loro emanazione dell’art. 16 della
Costituzione, dell’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), dell’art. 1 del protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, degli art. 8, 15, 16 della Convenzione Quadro per le
minoranze nazionali, ratificata dall’Italia il 03.11.1997 con riferimento al
mancato rispetto della vita privata e familiare e del domicilio; dell’art. 25
CEDU, gli art. 2.2, 3, 11.1 della Convenzione Internazionale sui diritti
sociali, economici, culturali (ICESCR), dell’art. 2.1. della Convenzione
internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), degli art. 1, 2, 5, della
Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale
(CEDR), l’art. 31 della Carta Europea Sociale, dell’art. 34 della Carta dei
diritti fondamentali della UE e di varie altre Raccomandazioni e Risoluzioni
con riferimento al diritto ad una adeguata abitazione e, congiuntamente, al
diritto di libera scelta di uno stile di vita nomade.

I provvedimenti del Governo e delle Autorità amministrative dovrebbero poi
tenere conto, già prima della loro emanazione, della giurisprudenza della Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale è costante nel ribadire che “la
posizione vulnerabile dei nomadi in quanto minoranza comporta che debba essere
prestata una particolare attenzione alle loro esigenze ed al particolare stile
di vita tanto nella pianificazione urbanistica quanto nella decisione in merito
a particolari situazioni
” (Chapman, par. 96 (3); Buckley, par. 76 (4)), “dunque
in ragione di ciò incombe sugli stati membri, in virtù dell’art. 8,
un’obbligazione positiva di favorire lo stile di
vita nomadico
(vedasi anche, Marchx vs. Belgium, par.31; Keegan vs. Ireland, par. 49, Kroon
and Others vs. the Netherlands, par.31;); ha più volte ribadito (Chapman v. the
United Kingdom, 18.01.2001, n. 2723895, Corte Europea dei Diritti Umani)
l’importanza di una “lunga tradizione di una minoranza nel seguire uno stile
di vita non stanziale
”(5) e che, anche qualora, per qualsiasi motivo, le
popolazioni nomadi scelgano di “stazionare per lunghi periodi in un luogo”,
anche per favorire – ad esempio- l’educazione dei figli”, qualsiasi
misura che incida sulla possibilità per il gruppo di stazionare – ad esempio –
su un terreno di proprietà con i propri caravan, roulottes, ecc, “ha un
impatto sul diritto del rispetto alla propria casa e comprime la possibilità
per loro di mantenere la propria identità nomade e di condurre la propria vita
famigliare secondo la tradizione
”. Dunque, qualora non venga fornita alcuna
adeguata alternativa, tale compressione “costituisce una illecita
interferenza, da parte della amministrazione, con il diritto dei ricorrenti al
rispetto per la propria vita privata, vita famigliare, e il godimento dei
propri beni, ai sensi dell’art. 8 della Convenzione
”.

Gli sgomberi senza adeguate alternative sono illegittimi, anche se ordinati
con poteri speciali per affrontare un supposto stato di emergenza: la
giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già più volte
censurato che, seppure le misure amministrative sono adottate in “accordo
con la legge
” e perseguono il legittimo scopo di difesa di interessi
generali, quali quello paesaggistico o urbanistico, quello che viene in rilievo
è il modo in cui il legislatore/l’amministrazione concepisce gli imperativi
di utilità pubblica in ragione dei quali ingerisce nell’esercizio dei diritti
fondamentali del singolo
, ovvero si deve valutare se il giudizio del
legislatore/dell’amministrazione è ragionevole e rispettoso del principio di
proporzionalità ed avviene nel contemperamento dei diversi interessi in gioco
(6)
.

A livello politico la scelta di intervenire sul problema con misure di
stampo securitario ed emergenzialistico, non solo a livello amministrativo da
parte degli enti locali, ma addirittura a livello legislativo, indubbiamente
denota e rimarca un disinteresse esplicito per le numerose forme di
raccomandazioni elaborate a livello comunitario per l’integrazione dei Rom,
Sinti e Camminanti ed il loro riconoscimento come minoranze, nonché vanifica di
fatto l’adesione a tutti i trattati internazionali a tutela dei diritti
fondamentali, primo fra tutti il CERD, poiché in concreto tali provvedimenti
discriminatori, oltre a non concretizzare la tutela dei diritti umani
fondamentali sanciti da tale Convenzione, ne costituiscono esplicita
violazione, soprattutto se in riferimento alle Raccomandazioni poste all’Italia
dal Comitato per l’applicazione del CERD.

Ma anche a livello comunitario tale corpus normativo fornisce una
pessima immagine del nostro paese, soprattutto in vista della ratifica del
Trattato di Lisbona, poiché rappresenta l’espressione di totale indifferenza
nei confronti della condanna (07.12.2005) all’Italia da parte del Comitato
Europeo per i Diritti Sociali, avvenuta con decisione sul Reclamo Collettivo n.
27/2004 presentato contro l’Italia dall’ European Roma Rights Center e da
OsservAzione.

Il Reclamo Collettivo dell’ERRC e di OsservAzione paventava presunte
violazioni dell’articolo 31 della Carta Sociale Europea, indipendentemente o
letto congiuntamente al principio di non discriminazione previsto dall’articolo
E. Lo Stato Italiano, avendo ratificato la Carta Sociale Europea in data
22.10.1965 e avendo aderito alla versione revisionata in data 05.07.1999,
poiché ha esplicitamente accettato di aderire anche al Protocollo relativo ai
reclami collettivi, risulta vincolato alle decisioni adottate dal
Comitato Europeo per i Diritti Sociali sui reclami presentati contro lo Stato
stesso. Il Comitato Europeo per i Diritti Sociali, nel decidere il
ricorso, a fronte della estesa documentazione prodotta dai ricorrenti, ha
condannato formalmente l’Italia sulla politica abitativa nei confronti dei Rom,
identificando tre distinte violazioni della Carta Sociale Europea Revisionata,
sottoscritta dal nostro Paese. Con decisione del 7/12/2005, infatti, il CEDS ha
decretato che le politiche abitative sviluppate per Rom e Sinti in Italia
puntano a separare questi gruppi dal resto della società italiana e a tenerli
artificialmente esclusi, bloccano qualsiasi possibilità di interazione e
condannano i Rom e i Sinti a subire il peso della segregazione su base
razziale. Il CEDS, dopo aver esaminato la difesa del Governo Italiano ha
deciso:

– unanimemente che l’inadeguatezza dei campi sosta per Rom e Sinti
costituisce una violazione dell’articolo 31(1) della Carta, letto
congiuntamente all’articolo E;

– unanimemente che gli sgomberi forzati e le altre sanzioni ad essi
associati costituiscono una violazione dell’articolo 31(2) letto congiuntamente
all’articolo E;

– unanimemente che la mancanza di soluzioni abitative stabili per Rom e
Sinti costituiscono una violazione dell’articolo 31(1) e dell’articolo 31(3)
della Carta, letti congiuntamente all’articolo E.

Evidentemente, la considerazione per i diritti umani fondamentali della
Persona non è argomento sufficiente a riportare alla moderazione né il
legislatore, né il Governo nell’esercizio del potere legislativo. Ci si auspica
che quantomeno nelle aule dei Tribunali tali parametri di riferimento godranno
di adeguata considerazione nella valutazione della legittimità costituzionale
delle norme e dell’azione amministrativa.

NOTE

1) Indicativo che i media segnalino presunti casi di sottrazioni di bambini
ad opera di zingari. Al di là dell’astratta possibilità che individui di
qualsiasi gruppo etnico possa commettere tale crimine, vedi i casi legati allo
sfruttamento sessuale o al commercio di organi, criminose attività purtroppo
reali e certamente non legate ai gruppi zingari e nomadi, si tratta di leggende
antiche, mai dimostrate ad oggi da nessuna statistica o ricerca scientifica,
secondo le quali gli zingari ruberebbero i bambini degli stanziali per turpi
traffici, e che hanno la stessa “dignità storica”, ovvero la falsità, delle
leggende e dicerie che hanno accompagnato i pogrom e le altre persecuzioni
contro gli ebrei.

2) A. R. Calabrò, “Il vento non soffia più. Gli Zingari ai margini di una
grande città”, pag 23.

3) Chapman v. the United
Kingdom, 18.01.2001, n. 2723895, Corte Europea dei Diritti Umani, par. 96: As
intimated in Buckley, the vulnerable position of Gypsies as a minority means
that some special consideration should be given to their needs and their
different lifestyle both in the relevant regulatory planning framework and in
reaching decisions in particular cases (judgment cited above, pp. 1292-95, §§
76, 80 and 84). To this extent, there is thus a positive obligation imposed on
the Contracting States by virtue of Article 8 to facilitate the Gypsy way of
life (see, mutatis mutandis, Marckx v. Belgium, judgment of 13 June 1979,
Series A no. 31, p. 15, § 31; Keegan v. Ireland, judgment of 26 May 1994,
Series A no. 290, p. 19, § 49; and Kroon and Others v. the Netherlands,
judgment of 27 October 1994, Series A no. 297-C, p. 56, § 31).

4) Buckley v. the United
Kingdom, Corte Europea dei Diritti Umani, par. 76:The Court cannot ignore,
however, that in the instant case the interests of the community are to be
balanced against the applicant’s right to respect for her “home”, a right which
is pertinent to her and her children’s personal security and well-being (see
the above-mentioned Gillow judgment, p. 22, para. 55). The importance of that
right for the applicant and her family must also be taken into account in
determining the scope of the margin of appreciation allowed to the respondent
State. Whenever discretion capable of interfering with the enjoyment of a
Convention right such as the one in issue in the present case is conferred on
national authorities, the procedural safeguards available to the individual
will be especially material in determining whether the respondent State has,
when fixing the regulatory framework, remained within its margin of
appreciation. Indeed it is settled case-law that, whilst Article 8 (art. 8
contains no explicit procedural requirements, the decision-making process
leading to measures of interference must be fair and such as to afford due
respect to the interests safeguarded to the individual by Article 8 (art. 8
(see the McMichael v. the United Kingdom judgment of 24 February 1995, Series A
no. 307-B, p. 55, para.
87).

5) Chapman v. the United
Kingdom, 18.01.2001, n. 2723895, Corte Europea dei Diritti Umani, par. 73-74 : The
Court considers that the applicant’s occupation of her caravan is an integral
part of her ethnic identity as a Gypsy, reflecting the long tradition of that
minority of following a travelling lifestyle. This is the case even though,
under the pressure of development and diverse policies or by their own choice,
many Gypsies no longer live a wholly nomadic existence and increasingly settle
for long periods in one place in order to facilitate, for example, the
education of their children. Measures affecting the applicant’s stationing of
her caravans therefore have an impact going beyond the right to respect for her
home. They also affect her ability to maintain her identity as a Gypsy and to
lead her private and family life in accordance with that tradition. The Court
finds, therefore, that the applicant’s right to respect for her private life,
family life and home is in issue in the present case.

6) Chapman v. the United
Kingdom, 18.01.2001, n. 2723895, Corte Europea dei Diritti Umani, par. 90:
An interference will be considered “necessary in a democratic society” for a
legitimate aim if it answers a “pressing social need” and, in particular, if it
is proportionate to the legitimate aim pursued.

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