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Del “galleggiare” e delle miserie della psicoanalisi

Lei vuole galleggiare. Che sprofondare nella merda non è mai una buona
alternativa e di nuotare non ha voglia. Così fa la morta e il corpo si
solleva. E’ da un po’ di anni che lei ha la sensazione di andare in
orizzontale. Le scalate le riescono proprio male e se si permette di
iniziarne una vede le cime delle montagne così tanto alte che invece
che proseguire, un passo dopo l’altro, fino alla meta, chiude gli occhi
e si lascia scivolare giù. Ansia da prestazione, la chiamano. Il blocco da panico è la conseguenza. Tutta roba che in genere si ha voglia di anestetizzare. Così scivola giù. 

Tanto, se non lo fa spontaneamente, si ritrova comunque con i pesi
attaccati chissa’ come alle caviglie e sente le gambe così pesanti che
potrebbe tendere ad una amputazione. Si è convinta che raschiare le
pareti per cercare appigli non serve a niente e allora galleggia beata
nella merda che è anche quella che la sostiene e la fa sentire viva. Galleggiando si sente al sicuro. Tutto rimane sotto il suo controllo. In questo mondo competitivo che spinge all’iperattività e alle scalate, che ti fa sentire un po’ fallita se non "riesci" ad ottenere un lavoro, a trovare una casa decente, a vivere, lei, che si è stancata di combattere inutilmente, non ha voglia di scalare e di competere. Vuole solo galleggiare in santa pace. Vi sembra ci sia da chiedersi come mai?


Se parla al suo dottore
del galleggiare e dei pesi alle cosce, quello
le dice che forse ha un problema di ritenzione idrica. “Faccia più
sport” – dice allora per confermare la sua diagnosi con una terapia –
“e prenda queste…”. Perché la nostra società cura con i farmaci tutto
quello che non può capire. Ho infatti la netta convinzione che gli
esseri umani abbiano fatto molti più progressi prima della
pennicellina.


Le viene in mente
che forse deve rivolgersi ad un buon psicologo. Un
normalizzatore sociale che la convinca che sta bene al posto suo e che
la merda sia fantastica così può nuotarci in mezzo con ottimismo e
buonumore.


Quello le dice che il
problema non sono le cose che ci accadono ma come
le viviamo noi. Tipo: se vivi in uno stato di disoccupazione e
precarietà quasi perenne il problema non è la legge 30, la
confindustria e il governo amico degli imprenditori. No. Naturalmente
il gran problema è come tu ti vivi questa condizione. E per fartela
vivere meglio, piuttosto che indirizzarti dove possono trovarti un lavoro (luogo che non esiste nella realtà), lo psicologo ti consiglia un ciclo palliativo di terapia che ti
costa un bel po’. Merda da aggiungere alla merda.


E già me li vedo –
questi professionisti del ravanamento delle menti –
a parlare tra di loro mentre lamentano il “calo di clienti nel momento
in cui invece dovrebbero proprio aumentare e anche tanto” perché la
povertà non si cura con una strategia di redistribuzione economica delle
risorse. Piuttosto è molto meglio stare a sentire un tizio senza mai
rimettere in discussione quello che dice o il prezzo che fa.


Dopo lo psicologo
il consiglio è di rivolgersi ad un buon psichiatra
della sanità pubblica (Asl) perché non riesce proprio possibile immaginare di lasciarsi galleggiare
nella merda. E quello le dice che capisce perfettamente e ha una ottima
cura per lei. Lo dice lasciando intendere di cure che non si rivelano,
come non lo farebbe di certo un buon cuoco con le sue ricette. Così la
tiene lì, col sopracciglio saputone di chi non vuol discutere con lei
quello che deve fare e la manipolazione comincia proprio da quel momento, da quel
preciso istante. Resistere non serve perché il professionista le
rimanda indietro mille sensi di colpa. E’ lei che ha un problema ed è sempre lei ad essersi rivolt* a lui. Quindi non ha scampo.


Dopo le parole
questi bravi medici passano sempre ai fatti e allora il
bravo dottore consiglia uno psicofarmaco da prendere una volta al di’.
Egli consiglia per il suo bene e quindi sebbene non la obblighi la fa
sentire così idiota a non dargli ascolto che lei ritiene di non poter
fare altrimenti. Così si spara un prozac che dicono essere un buon antidepressivo. E dovrà essere per forza così se vogliono prescriverlo persino ai bambini.


Dopo un mese
dalla prima pillola lei si sente già al settimo grado di
rincoglionimento e la testa comincia a vivere di vita propria. Il
prozac è un eccitante, risveglia dal torpore se non hai particolari
problemi di ansia e di ipertensione e il suo effetto – di inibizione da
riassorbimento della serotonina – non è per niente calmante. Rende
semplicemente difficile (per i medici: lo renderebbe più facile) il dover affrontare giorno per giorno le
miserie nelle quali viviamo.


Questa storia
riguarda una cara amica che dopo cinque anni ancora sente
di voler galleggiare e che grazie al farmaco ha sviluppato una ansia
incontrollabile per ogni piccola cosa. Non esce più. Non vede più
nessuno e viene colta da veri e propri attacchi di panico se qualcun*
va a trovarla e le sposta inavvertitamente gli oggetti di casa.


Un attacco di panico
è un po’ come morire, così lei me lo racconta. Si
blocca tutto e il cuore batte all’impazzata. Sembra spezzarsi e i
sintomi sono gli stessi di un attacco cardiaco che alla lunga può pure
venire. Le ho chiesto di lasciar perdere col farmaco e di
riappropriarsi della sua vita. Lei dice che non può. La dipendenza
oramai è troppa ed è il medico che deve dirle quando cominciare a
diminuire la dose. Quello stesso medico che dopo averla imbottita di
farmaci le sottopone con un sorriso la possibilità di "dover"
intervenire con il Trattamento Sanitario Obbligatorio
quando lei confida di cominciare a pensare sempre più spesso di voler
morire. E a me fa rabbia perché io me la ricordo come una donna viva e
incredibilmente intelligente. Meravigliosamente disponibile col mondo e
poetica per ogni suo piccolo gesto.


Così lei continua a morire
un po’ alla volta e tutto perché voleva solo galleggiare…


Per approfondire:

Ecco i numeri attivi in Italia del telefono viola per difendersi dalla psichiatria invasiva. QUI – una guida all’autodifesa. E qualche informazione sui nuovi psicofarmaci. Date un’occhiata ai testi e agli argomenti dell’antipsichiatria. Leggete – QUI un’ampia bibliografia. Leggete anche i testi di Michel Foucault
(Il potere psichiatrico, Gli anormali, Storia della follia). E poi: non
se la prendano gli o le appartenenti alle categorie della psicologia o
della psichiatria. Come in tutte le situazioni, può succedere di
incontrare anche degli emeriti coglioni. Perché prima di essere ottimi
psicologi e magari anche ottimi psichiatri forse bisogna essere anche
ottime persone, forse…

E ancora: certi psicologi
e psichiatri – e molti purtroppo li vediamo in televisione a dire
cazzate sull’universo mondo – sono persone che si arrogano il diritto
di saperne di più sull’animo umano solo per aver conseguito una laurea.
La cosa che mi turba non è tanto il fatto che ritengano di sapere
qualcosa che altri non sanno, il che è anche possibile, quanto il fatto
che neghino di personalizzare le interpretazioni a partire dalla
"propria" visione delle cose. L’aura accademica di "universalità"
attribuita alle proprie opinioni senza considerare che il proprio punto
di vista possa essere condizionato, e anzi di sicuro lo è, dal proprio
vissuto è cosa assolutamente discutibile. Perciò credo che spesso più
che uno psicologo valga una buona e intelligente amica o un buon e
intelligente amico con cui fare autoanalisi e autocoscienza. Alla pari.
Senza timori reverenziali e  disparità di potere nella relazione.

Esplorare l’animo umano è una cosa interessante e i testi e le ricerche
che alcuni hanno fatto certamente ci hanno messo in condizione di poter
acquisire maggiore consapevolezza ora. Ma ci sono stati anche troppi
esempi in cui le persone sono state considerate solo cavie. Troppi
esempi in cui l’analista – col suo sapere da oracolo indiscusso – non
ha mai messo in discussione il suo essere – in una visione di genere –
maschio, bianco, eterosessuato. La questione riguarda le tre parti della scienza che studia l’aspetto cognitivo comportamentale e la mente degli individui (in chiave interlocutoria, tesa allo studio o alla patologizzazione: la psicologia, la pasicoanalisi e la psichiatria).

A questo proposito vi passo qualche frase scritta da Luce Irigaray,
che – assieme ad altre grandi donne nel campo della psicanalisi – il
problema se lo è posto eccome, sulla visione della psicologia a partire
da una differenza di genere:

"[…] una volta diventata analista, mi sono ben presto resa conto
che era assolutamente impossibile tradurre quello che dicevano le donne
in analisi e interpretare i loro disagi e i loro sintomi attraverso la
teoria psicanalitica classica, a meno di non finire per addormentarle
con dei barbiturici […] finchè la psicoanalisi non avrà interpretato
il suo aderire ad un certo tipo di regime di proprietà, ad un certo
tipo di discorso, ad un certo tipo di mitologia religiosa, non potrà
porsi (ad esempio) la questione della sessualità femminile."


Perchè una interpretazione
delle dinamiche al femminile che non
tiene conto della differenza di genere è quantomeno ingenua (se non addirittura in malafede). Che non
vuol dire che le psicologhe donne sono tutte brave e che gli uomini non
potranno mai esserci utili. Non è questo il punto.


Il punto è che una differenza
c’e’ ed è stata stabilita proprio da
quelle donne che hanno combattuto contro pregiudizi e sovrastrutture
culturali maschiliste con interventi ritenuti im-pertinenti come quello
sulla "Miseria della psicoanalisi"
fatto da Luce Irigaray nel 1977 – dedicato a Juliette L. una amica
analista morta suicida – e rivolto ai membri della Ecole freudienne, la
scuola fondata a Parigi da Jacques Lacan, nel 1964. Un intervento che tra le altre cose indica con chiarezza la assenza di interdisciplinarità e la chiusura della "scienza" così come era concepita almeno in quegli anni (e in certi ambienti ancora di sicuro lo è).

Provo a copiarvene alcuni passaggi significativi tratti dal testo "Psicanalisi al femminile" (Silvia Vegetti Finzi – Editori Laterza):

"Signori psicoanalisti…

Perchè soltanto Signori? […] per via che "soggetto" si dice sempre
in un solo genere […] per via che il fallo – che per di più è il
Fallo – rappresenta l’emblema, il significante, la produzione di un
unico sesso. Dunque Signori psicoanalisti, tra voi i più – se bisogna
credere a quello che scrivete – non capiranno il titolo (del mio
scritto). Ciò che evoca. Ciò a cui rimanda. Da quale memoria esso
prende senso […] Miseria della psicoanalisi? E che altro ancora?
[…] protesterete quindi […] Il disprezzo della cultura, da cui
traete non pochi profitti, vi porta a prendere le distanze da quelli o
quelle che interrogano i valori consacrati della psicoanalisi. Un(a)
psicoanalista che pone delle questioni alla storia, alla cultura, alla
politica non sarebbe più tale. La psicoanalisi dovrebbe restare senza
un fuori, senza confini, determinata, autorizzata – all’esistenza o
all’assenza? – unicamente da se stessa. In una parola: tutta […].

Ma da dove prendete voi l’autorità per decidere che costui o costei
non sono analisti? […] In nome di quale nome? Il nome di un padre
della psicoanalisi all’inconscio del quale bisognerebbe conformare ogni
inconscio? […] Ma o l’inconscio si riduce sempre a qualcosa da voi
già inteso – quindi non è mai "questo", quello che loro, donne o uomini,
possono ancora dire di inaudito – o l’inconscio è desiderio che tenta
di parlarsi e allora, in quanto analisti, siete tenuti ad ascoltare
senza escludere. Senza riguardi per quello che, del vostro desiderio, può venir compromesso da questo ascoltare tutto. Senza riguardi per il rischio di morte, la vostra
morte, che ne potrebbe derivare […] Se l’inconscio fosse il risultato
di censure, rimozioni, imposte in e da una certa storia, ma anche di un non ancora avvenuto, la riserva di un avvenire,
allora i vostri rigetti, censure, disconoscimenti, ripiegherebbero il
futuro sul passato. Voi ricondurreste continuamente il non ancora
parlato o detto del linguaggio a ciò che un linguaggio avrebbe già
paralizzato nel mutismo o tenuto nel silenzio. Voi sareste quindi – a vostra insaputa? – i prodotti e i difensori di un ordine esistente… con l’incarico di farlo sussistere come l’unico possibile […]. 

Freud e i primi analisti non procedevano affatto così, almeno per un
certo tempo […] ma dal momento in cui la "scienza" psicoanalitica
pretende di aver trovato la legge universale secondo cui funzionerebbe
l’inconscio, a quella scienza così conclusa non si può riconoscere,
come statuto, altro che l’appartenenza ad un’epoca del sapere già
chiusa […] Ma se la psicoanalisi non avesse luogo se non a condizione
di mai sottomettersi ad una teoria, ad una
scienza? Se la sua singolarità le venisse dal non poter mai concludere?
ridursi ad un corpo già finito, ad un sapere già costituito, ad una
legge già determinata? […] Forse voi obiettate che si finirebbe così
nel generico, nel qualunque? Sarebbe come confessare, da parte vostra,
d’aver dimenticato che ogni corpo vivente, ogni inconscio, ogni
economia psichica porta all’analisi il suo ordine. Basta intenderlo […]

Chiedetevi se il reale non sia qualche "cosa" di molto
rimosso-censurato-dimenticato del corpo. Ma il corpo, per voi, è sempre
già macchinato dalla lingua. Una lingua. Il che significa che quello che voi volete universale è sessuato secondo le vostre
necessità […] e respingete ogni esterno o interno che resiste ad esso
[…] riducendo la differenza sessuale a niente, con un gesto
indefinitamente ripetitivo […].

La madre, voi ricordate, è il primo oggetto di desiderio per la
bambina come per il bambino, e di conseguenza ne concludete che "per la
bambina tutto si svolge come per il bambino". Ma misconosce un fatto:
che il desiderio per un corpo medesimo o diverso dal proprio, non è
necessariamente identico! Sentire, gustare, toccare, cedere, ascoltare
un corpo uguale o altro dal proprio non è senza effetti sul desiderio.
Il sesso non è forse già inscritto, e in maniera non secondaria, nelle
"qualità" di un corpo? Oppure il sesso stesso è un organo separato-astratto dal corpo in cui ha luogo? L’immaginario dal quale ascoltate e
nel quale situate i vostri, le vostre analizzanti, sarebbe dunque
incorporeo? […] La psicoanalisi sarebbe una teoria e pratica di
organi? Come la medicina? […] Che concezione, che visione, che
ascolto del corpo ha la psicoanalisi? Un corpo morto? Un puro
meccanismo? Una macchina per produrre libido? Che cosa si trova già
dimenticato, rigettato dal corpo, dalla materia corporea sessuata,
quando tale dispositivo viene fatto funzionare?

E il vostro parlare molto del debito verso il padre e
pochissimo, quasi niente, di quello verso la madre, non sta a
significare che per voi il sangue, la vita, il corpo, non hanno alcun
valore? Gli organi soltanto ne avrebbero […] come corpi finiti,
sembianza, "oggetto puro" che verrebbe ad occupare il "posto" di un
rapporto rimosso con il corpo che da’ la vita […] Allora tentare di
trovare-ritrovare un immaginario possibile per le donne attraverso il
movimento del ri-toccarsi di due labbra non significa un ritorno
regressivo all’anatomia ne’ ad un concetto di "natura", non significa
nemmeno un richiamo alla norma genitale – le donne hanno tante volte
due labbra. Si tratta invece di riaprire il cerchio autologico e
tautologico dei distemi rappresentativi e del loro discorso, affinchè
le donne possano parlare il loro sesso […] Le donne, in effetti, non
sarebbe piuttosto alla madre, ad un’altra donna, che tentano di
manifestare qualcosa? […] Ma l’amore è il desiderio tra loro e in
loro rimangono senza significanti articolabili nella lingua […]
Appena la bambina comincia a parlare già lei non si parla più. Già non
si autoaffeziona piàù. Esiliata, separata dalla madre e dalle altre
donne da questo parlare uomo […] Questo esclusivo parlare uomo e tra
uomini, non serve forse a garantire una stretta endogamia culturale? Ed
un incesto in sembianza, indefinitamente perpetuato, tra padre e
figlio, e tra fratelli? Non è questo incesto che converrebbe ora
interpretare? Poichè se l’incesto madre-figlio minaccia, dicono,
l’ordine culturale, l’incesto che sostiene questa cultura, tra padre e
figlio, minaccia l’ordine del vivente…

Signori psicoanalisti, so bene che il vostro ascolto avrà già
trovato qualche palliativo interpretativo a ciò che tento di dirvi
[…] "desiderio di vendetta", di "rivincita" contro "mio padre" […].
pulsione a "mostrarmi", a esibirmi davanti a voi […] "odio"
conseguente a qualche transfert male – o bene? – risolto? […] Posso
un po’ tanto ridere? Perchè lo sapete che capite solo secondo il vostro
codice, il vostro immaginario, i vostri fantasmi? […] E prima di
erigervi a giudici del desiderio che anima una donna, pensate che
sarebbe tempo – per rivalutare l’etica della psicoanalisi – di porre
mente a una nuova etica delle passioni. Idea per i vostri prossimi
seminari? Ma fateli ancora più chiusi […] Alcune rischierebbero di
venirvi a disturbare con le loro "grida", "chiacchiere", "lamentele" o
"rivendicazioni". E a loro, finchè non avrete interpretato le vostre passioni, anche tra voi, dal voler entrare e stare nella vostra cerchia non può venire che qualcosa di mortificante e mortifero". 

Credo di non dover aggiungere più nulla, anzi no: Potrete trovare altri spunti utili nel libro "Donne in terapia"
di Harriet Goldhor Lerner (Editrice Astrolabio) che approfondisce, tra
le altre cose, come la sessualità femminile sia sempre stata analizzata
e riproposta a partire da stereotipi tradizionali del ruolo sessuale,
alle soluzioni patriarcali e ai punti di vista fallocentrici. Così
reinterpreta le terapie fatte da professionisti uomini nel lavoro
psicoterapeutico con le donne trovando nei criteri diagnostici vari
errori di omissione e non ultimo un problema di relazione inficiato
spesso dal desiderio di essere compiaciuto del terapeuta e dal
desiderio di compiacere della donna in terapia.

Cioè: si può ricavare un ottimo apporto dalla psicologia senza rinunciarvi ma rimettendola in discussione e rintracciando in essa elementi sovversivi utili a farci persino ritrovare la sicurezza e quindi il diritto sociale a "galleggiare". Della serie: non consegniamoci comunque mai ai medici sospendendo il nostro giudizio critico. Il rapporto con la psicologia, con la psicoanalisi o la psichiatria non va inteso come atto di fede. Bisognerebbe rianalizzare e rimettere in discussione. Serve tenere sempre il cervello acceso. E chi si approfitta delle persone che ritengono o vengono convinte di aver bisogno di aiuto imponendo con deliri di onnipotenza vari le proprie ricette "miracolose", peggio di ogni imbonitore alla vanna marchi, e facendosi scudo di un titolo accademico fa davvero parecchio ribrezzo. 

Che il contratto tra medico e paziente sia sottoposto a regole deontologiche riviste dai pazienti/consumatori. Che sia possibile porre una etica dei comportamenti altrimenti esclusivamente convalidata nei congressi tra specialisti del settore. Che si ritorni a prendere la parola su questo perchè dopo l’ondata di psichiatri "democratici" che si è inserita negli anni ’70 per migliorare la conservatrice e reazionaria psichiatria (da lì Basaglia e altri), forse ci si è fermati alla logica del farmaco "buono". Passata l’epoca dell’elettroshock siamo arrivati a quella della dipendenza dalle multinazionali farmaceutiche. Magari occorre fare una riflessione che superi anche questa costrizione. Altrimenti siamo solo passati da una violenza ad un’altra. Niente di diverso. L’elettroshock o la lobotomia in pillole invece che con macchine oramai in disuso. Magari occorre continuare a pensare che in una struttura sociale in cui c’e’ bisogno di patologizzare ogni disagio il problema non sta in chi vive il disagio ma nelle ragioni – pratiche – che lo procurano. Risolte quelle forse il disagio passa. O no?

E voi? Avete qualcosa da dire in proposito?

Posted in Corpi, Fem/Activism, Omicidi sociali, Pensatoio.


4 Responses

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  1. FikaSicula says

    lucemaya:
    l’intervento della irigaray (che è una psicanalista) è stato fatto tra psicanalisti.
    la differenza di cui tu parli forse valeva prima perchè ora anche gli psicologi passano da un tirocinio e da una autoterapia fatta con il sostegno di docenti e psicologi. Così anche gli psichiatri della psichiatria moderna hanno introdotto il metodo della’autoanalisi e della collaborazione di un supervisore e di una equipe a partecipare ai problemi che trattano.
    la separazione è netta, sono d’accordo con te, ma al di la’ della differenza che tu chiarisci meglio la questione resta aperta.
    ci sono professionisti che salvano la vita e altri che la rovinano. questo è un fatto. quando si chiede aiuto bisogna comunque essere ampiamente sostenute dal proprio giudizio critico che è quello che ci aiuta a scegliere quello che è meglio per noi. almeno su questo sarai d’accordo, no? perchè non c’e’, io penso, una categoria specifica che ci agarantisce l’assoluta qualità del lavoro che si andrà a compiere…

  2. lucemaya says

    … ma come è possibile che si faccia ancora confusione tra queste professioni?!… prima di esporre considerazioni personali che possono influire molto negativamente su altri almeno informarsi!!! Lo/a psicanalista è una persona che deve aver fatto, oltre agli studi, una analisi personale ( per conoscere i propri problemi ed evitare quindi di proiettarli sugli altri, come fa inevitabilmente un amico/a in assoluta buona fede), una analisi didattica ( per imparare come accompagnare il paziente nella difficile scoperta e soluzione dei propri problemi, a cui deve arrivare pan piano da sè) e avere un supervisore che lo/a affianchi nel lavoro per risolvere eventuali dubbi o problemi nonostante l’analisi personale e didattica… lo psicologo non ha questi requisiti e tanto meno lo psichiatra che utilizza farmaci e non parole… La psicanalisi è attualmente per la nostra cultura e per la mia esperienza diretta uno strumento validissimo per conoscersi ed evitare di ripetere comportamenti collegati in genere a problematiche con la famiglia di origine… a me la psicanalisi ha ‘salvato’ la vita, mi ha aiutata a conoscermi ed a cambiare i comportamenti masochisti… a raggiungere finalmente equilibrio, serenità e piacere di vivere… avrei molto altro da dire, ma spero che almeno questo serva a far venire qualche sano dubbio e ad aiutare chi stia pensando di rivolgersi ad uno/a psicanalista… non a generici psicologi, counselor, psicoterapeuti ecc. e tanto meno a psichiatri!

  3. FikaSicula says

    carissima restodelmondo,
    certo che ci sono i signori grigi che cercano di responsabilizzarti e quindi di farti partecipare alla decisione. Ma può mai davvero scegliere una persona che si affida perchè sia risolto il suo problema? se è il medico a dirti che quella soluzione può aiutarti credi sia possibile che un* paziente abbia l’autonomia mentale di poter rifiutare? la responsabilizzazione è un fatto di informazione del paziente che legalmente è imposto (come quando ti fanno firmare prima dell’anestesia il consenso informato). se non ti informano e tu subisci conseguenze da quella cura loro rischiano una denuncia e quindi anche di pagare per quello che fanno. Quella che tu chiami responsabilizzazione poi a me hanno detto in qualche caso – di sicuro diverso da quello che dici tu – diventa invece un modo per far ricadere sul paziente la “colpa” della scelta di assunzione dei farmaci e con essa anche le sue conseguenze. Un modo per i medici cioè di sgravarsi delle loro responsabilità. responsabilizzano te per deresponzabilizzare se stessi.

    Non metto in dubbio che ci siano bravi e coscienziosi medici e che siano anche in grado di riconoscere una cura adeguata. Quello che metto in discussione è che ci siano modalità di riconoscimento del “male” che spesso sono date da intrusioni culturali e di molti altri tipi nella nostra sfera privata. Codificare una serie di sintomi definendoli col nome di una certa malattia non vuol dire per forza che deve davvero trattarsi di malattia…
    Poi, ciascuno segue percorsi personali per stare meglio e se si riesce a farlo attraverso la psichiatria bene così. ma qualunque sia il risultato dei singoli questo non penso che debba essere utilizzato per riaccreditare pratiche invasive già abbondantemente messe in discussione.
    tu dici di rischiare senza o con i farmaci sbagliati e io di sicuro non sono nessuno per dirti cosa fare. il problema è che neppure il medico credo sia un padreterno al punto da offrirgli tutta la stima e la disponibilità. Occhi aperti per trovare un medico che ci sta davvero bene, perchè deve piacere a noi anche quando tutto ci fa pensare che siano noi ad essere sbagliati. Poi, quando gli incontri e le terapie sono frutto di una scelta personale allora va bene. la vivremo e ne subiremo le conseguenze come sempre. sono scelte da rispettare e non da reinterpretare secondo una lettura ideologica. purchè sia una scelta.

    ciao
    e grazie di questa tua narrazione privata. ci hai fatto un dono prezioso :*

  4. restodelmondo says

    Io sono bipolare. Così dice il medico (incidentalmente maschio), così diceva la “counsellor” in università (incidentalmente femmina, e per inciso una donzella assai femminista che ti piacerebbe). Come etichetta/casellina mi ci sta bene: sono bisessuale, aspirante bilingue, bipolare. 😉 Seriamente: la descrizione da manuale del tipo II mi cade a pennello.

    Ma vengo al dunque. Io dei farmaci ho bisogno, come un diabetico ha bisogno dell’insulina. Senza farmaci io sto peggio – e rischio pure di lasciarci le penne o perlomeno rovinarmi la vita. Certo: rischio senza farmaci come da antipsichiatria (provato) e rischio similmente con i farmaci sbagliati da dottore-spacciapillole (provato anche quello).

    Per fortuna ci sono anche i grigi tra il bianco e il nero: ci son stati un paio di professionisti affidabili che hanno ascoltato e fatto i conti con la loro scienza e con la mia esperienza. Mi ha sempre colpito come questi cercassero sempre di responsabilizzarmi, di darmi il maggior numero di informazioni scientifiche ed euristiche – cosa che nei casi di cui sopra non capitava mai: era tutto “verticale” e “magico”. Grazie a* signor* grig* io ho qualche chance in più di non buttarmi sotto un treno o di essere in grado di uscire di casa quasi tutti i giorni. Se poi alcune di queste chances sono marcate Ely Lilly, è un prezzo che sono disposta a pagare – fino a che non esce il generico…

    (A proposito di elettrochoc e di prezzi da pagare. Nel bellissimo “The Secret Life of the Manic Depressive” (si trova su youtube) Stephen Fry intervista un uomo che è riuscito ad uscire dalla sua depressione gravissima solo con l’elettrochoc (in condizioni “moderne”, ad es. in anestesia totale). L’ex-depresso ci scherzava anche su, ora che poteva scherzare. Ed era un uomo pochissimo “conformato” – non si è fatto condizionare dalla sua malattia né dall’immaginario collettivo sulla sua cura… Dà da pensare – soprattutto se come me si tende da quel lato dello spettro.)