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Uomini? Ospiti ad una manifestazione di donne per le donne.

Riprendo e vi ripropongo un intervento di Anna Picciolini da "Il Paese delle Donne" (che sta dedicando ampio spazio al dibattito, variamente diffuso su testate e mailing list, sulla manifestazione del 24 novembre contro la violenza sulle donne). Parla di conflitti e di come l’agire i conflitti sia una cosa vitale e utile. Di conflitti e politica ho sentito molto parlare e ho anche parlato molto in alcuni incontri della Associazione Rosa Luxemburg di Firenze. Da quegli interventi venne fuori persino una pubblicazione (presentata anche al Settival – festival delle autoproduzioni di Settignano – tutta nocopyright ma purtroppo non ancora in rete. Da quella pubblicazione vi copio comunque il mio intervento. E’ datato e quindi non attuale per molte cose ma se spostate la modalità dell’agire il conflitto sul femminile o meglio sul mondo aggregante dei femminismi – soprattutto per la parte che riguarda i metodi assembleari cosiddetti "aperti" che restano invece imbrigliati in logiche autoritarie – io necessito della stessa radicalità e dello stesso principio antiautoritario. Lo trovate sotto immediatamente dopo quello di Anna). Grazie ad Anna per avercelo ricordato con queste parole.

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"Se
qualcuno mi avesse detto che al carattere separatista o no di una
manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne avremmo
dedicato più spazio che ai contenuti avrei pensato che volesse
denigrarci, mettendo l’accento, come al solito, sul fatto che le donne
litigano fra loro e solo in questo caso “fanno notizia”. Invece questo
è accaduto e di questo è giusto parlare, perché a questo conflitto se
ne intrecciano altri e, soprattutto, noi sappiamo che i conflitti si
affrontano e si gestiscono cominciando a nominarli.

Firenze ottobre-novembre 2007.
L’adesione dei gruppi femminili e femministi della città alla
manifestazione è stata immediata. Il soggetto collettivo che da subito
ha cercato di tradurre l’adesione in partecipazione è Libere tutte, la rete che a livello locale corrisponde più o meno a quello che in altre parti d’Italia sono le assemblee di Usciamo dal silenzio.
La scelta del nome non è casuale: non ci piacque allora e non ci piace
adesso il ‘titolo’ dato alla manifestazione del 14 gennaio: purtroppo
non ci venne in mente subito quello che, da risposta impertinente, è
diventato il nome di un gruppo di giovani femministe: Maistatezitte.
Durante tutta la fase di preparazione, con le polemiche sulla data (ve
le ricordate?), abbiamo vissuto come un problema il fatto che le
decisioni prese dall’assemblea di Milano non fossero discutibili.

Ma torniamo all’oggi: dall’adesione alla manifestazione
siamo passate alla condivisione dell’appello iniziale e quel testo
abbiamo usato per i nostri volantini. E’ solo dopo alcuni giorni che ci
sono arrivati messaggi sul carattere separatista della manifestazione,
carattere deciso in una assemblea a Roma, alla quale nessuna di quelle
fra noi che seguono abitualmente gli appuntamenti nazionali era
presente. Diciamo meglio: quella che di solito segue gli appuntamenti
nazionali sono io, che, devo confessarlo, ho da molto tempo difficoltà
a manifestare su questo tema (ma spiegare questo richiederebbe un altro
articolo, molto più lungo). Per questo quindi, in un momento in cui mi
era difficile venire, non ho fatto gli sforzi che in altre occasioni
avrei fatto per partecipare.

Intanto a Firenze, abbiamo fatto un paio di riunioni
senza nemmeno affrontare questo problema: riunioni sui contenuti e
sull’organizzazione. Quando è stato affrontato c’è stata la conferma
che per la maggior parte delle donne singole o associate una scelta
separatista non corrisponde al ‘comune sentire’. Le motivazioni sono
tante, difficili da sintetizzare. Ci sono quelle, spesso con una lunga
pratica femminista alle spalle, per le quali la presenza degli uomini a
una manifestazione è stata a lungo impensabile e l’hanno accettata
quando è stata proposta da donne più giovani, che vivevano in modo
diverso il conflitto con i loro compagni e non erano disponibili al
separatismo. Per molte di noi, questa è infatti la generazione a cui
appartengo anch’io, continua a restare impensabile di invitare un uomo,
un compagno alle manifestazioni di donne, ma per alcune più giovani
questa presenza, a certe condizioni, non costituisce affatto un
problema.
Uomini ospiti ad una manifestazione di donne per le donne. Senza
la pretesa di fare servizio d’ordine, ma non necessariamente solo ai
margini. Senza bandiere di partito, ma magari con un cartello che dice
“la violenza contro le donne mi riguarda”. L’anno scorso, il 25
novembre, le manifestazioni furono locali: a Firenze gli uomini erano
presenti con questa modalità. Molte hanno dato per scontato che quegli
stessi uomini potessero esserci oggi.

A mio avviso, c’è stata anche una questione di metodo
(e qui torna il ricordo di quasi due anni fa). Nella convocazione della
prima Assemblea nazionale, che parlava dell’urgenza di organizzare una
manifestazione che “mobiliti a livello nazionale donne, associazioni e
rappresentanze sociali”, si parlava appunto di mobilitare
‘rappresentanze sociali’: cioè, mi sembra, addirittura organizzazioni
miste. Che cosa sono, altrimenti, le ‘rappresentanze sociali’?

Non so quando esattamente è emerso il problema nell’assemblea di
Roma. Dalle ricostruzioni sembra che la cosa sia stata data quasi per
scontata all’interno del gruppo che aveva avviato il processo. Quando è
stata messa in votazione, contro la formula separatista si è espressa
solo un’esigua minoranza.
A questo punto, comunque, la preparazione della manifestazione qui a
Firenze era già partita. Un sondaggio veloce ha confermato che
l’opinione prevalente fra noi, qui, era l’altra.

E, nei giorni successivi, ci siamo sentite un po’ periferiche
rispetto al ‘luogo delle decisioni’ non sapendo bene come partecipare
da qui al processo decisionale che era a Roma, come quello di due anni
fa era a Milano. Facendo appello ai ricordi personali, posso dire che
il fatto che la manifestazione del 14 gennaio non fosse separatista, io
l’ho capito al momento di partire, ma soprattutto durante il corteo. A
me non verrebbe mai in mente di ‘portare’ un uomo in una manifestazione
di questo tipo, ma so che altre hanno altri percorsi e, se c’è
problema, la cosa corretta è parlarne.

L’unica soluzione, a nostro avviso, era ed è una
manifestazione in cui coesistono varie modalità, spezzoni di corteo che
si muovono nel rispetto reciproco: altrimenti si rischia un danno
difficilmente riparabile nelle relazioni fra di noi. Questo abbiamo
scritto alle compagne di Roma, mandando al sito un messaggio, che non
sappiamo nemmeno se è arrivato. Mi sembra comunque di capire che alla
fine la conclusione è stata questa.

Credo che la manifestazione sarà grande e bella. Credo
anche che il tema della pratica separatista debba essere messo
all’ordine del giorno di un dibattito, non solo nelle assemblee, ma
anche sulla Rete, perché se è ovvio che un’assemblea è sovrana, è
altrettanto ovvio che un’assemblea, se vuole decidere su una iniziativa
nazionale, non può che cercare il massimo confronto e consenso usando
tutte le forme di comunicazione.
All’ordine del giorno dovremmo mettere, e non per la prima volta, anche
il tema delle forme di coordinamento del movimento delle donne.

Ma c’è un’altra considerazione che recenti incontri di
donne mi hanno aiutato a mettere a fuoco e a problematizzare: credo che
dovremmo affrontare il problema del rapporto fra generazioni di
femministe, tenendo conto di una cosa: c’è in noi (dico nel femminismo
occidentale) una componente anti autoritaria più radicata che in tutti
gli altri movimenti che hanno nel ’68 parte delle loro radici (la
maggior parte dei movimenti rivoluzionari, anche precedenti, sono stati
tutti attraversati dall’autoritarismo, fosse culto dei capi, o dei
libri sacri).
Questa componente anti autoritaria, che per me è un grande
valore, è stata, a mio avviso, sia una caratteristica della pratica
politica della maggior parte dei gruppi femministi, che una componente
teorica che caratterizza il femminismo come pensiero.
Il femminismo contemporaneo, anche quando ha usato il termine
‘autorità’ (e io sono fra quelle che hanno sempre preferito il termine
‘autorevolezza’) ha accettato di aprirsi via via a nuovi soggetti, a
nuove generazioni, di mettere in discussione le proprie pratiche,
costruendone altre.
Chi non l’ha fatto si è consegnata al regno dell’irrilevanza
politica.
Quando per la prima volta negli ultimi anni (credo che il punto di
partenza possa essere la manifestazione nazionale del 3 giugno 1995),
agiscono sulla scena politica più generazioni di donne il conflitto
generazionale è aperto, visibile, si intreccia con gli altri livelli di
conflitto e, come tutti i conflitti, può essere gestito soltanto
nominandolo e facendo del riconoscimento reciproco delle diverse
posizioni un punto di forza per stare insieme."

Anna Piccolini – da Firenze

20 novembre 2007


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"Alla parola
“conflitto”
io associo naturalmente mio padre, mia madre, la famiglia di
siciliana maniera, l’autoritarismo che, sbracato, voleva portare al
mantenimento di un ordine dettato da misoginia, ottusita’ e pregiudizi. Vi
associo ancora: il paese, nel senso di piccolo centro di provincia, le
tradizioni, intese come vetusti e ingombranti bagagli intrisi di morale
cattolica e paesana, l’ignoranza, il rifiuto di tutto cio’ che e’ “altro da”,
la chiesa. “Conflitto” per me e’ dunque tutto cio’ che e’ sano, che e’
crescita, che rifugge la violenza, le aggressioni, le prevaricazioni, la
privazione del diritto di scelta, la strada che porta alla capacita’ complessa
di autodeterminarsi e ritrovare punti di forza (laddove erano punti di
debolezza) nel rapporto con quanto altrimenti viene solo subìto.

Io vivo il “conflitto” nella accezione positiva del termine.
Un conflitto mediato, per me non e’ tale. Diventa invece mediazione,
compromesso. Un conflitto non puo’ dirsi, secondo me, esasperato. Il conflitto
e’ conflitto e non credo vi sia una via di mezzo per trattarlo, misurarlo se
non a partire dalla propria esigenza di crescere e di riconoscere un nesso, una
linea di continuita’ tra i conflitti non rimossi dentro ciascun* di noi e
quelli da non rimuovere o da non attenuare fuori da noi. Il conflitto, con o
senza ricerca di confronti e condivisioni ragionate, quando viene relegato alla
ribellione tout court, all’elemento disturbatore, all’antagonismo, al disadattamento,
alla posizione da condannare perché “non allineata”, diventa “solitudine” umana
e sociale, spesso inflitta piuttosto che perseguita. Percio’ il “conflitto” radicale
– sebbene positivo – e’ difficile, non da decidere ma da attuare, considerandone
tutte le conseguenze in termini di efficacia rispetto agli obiettivi posti e di
comprensione dei tempi di acquisizione di nuove consapevolezze da parte di
ciascun “altro da”.

Alla parola “conflitto” associo mia sorella e mio fratello,
come “altro da” accettare, convivere, amare, con cui crescere, condividere,
misurarmi, allearmi in un rapporto di sorellanza solidale sempre a partire dalle
affinita’ possibili e comunque da cio’ che io sono e non da cio’ che vorrebbero
io fossi.  Vi associo anche – e non per
un mio ordine gerarchico ma piuttosto anagrafico – mia figlia, la
genitorialita’, le responsabilita’,  la
sua richiesta di conflitto, il mio riconoscimento del suo conflitto altro dal
mio.

Il mio bagaglio di consapevolezze tratto dalla famiglia
sembrerebbe fermarsi al personale poiche’, dentro di essa e’ sempre esistito un
evidente conflitto relativo piu’ alla pratica che non alla sfera ideale. Ed e’
a questo punto che al “conflitto” io associo la “politica”. 

La parola “politica”
mi ricorda: un modo di vivere, di essere, di socializzare e condividere
interno/esterno ai propri punti di partenza e di riferimento, un modo per
ridare luce alle zone volutamente ( o inconsapevolmente) rese opache da se’ o
da altri, una maniera per restituire agile e dignitosa chiarezza alle proprie
sensazioni, di esigere il riconoscimento della propria esistenza e con essa –
in forma meno adolescenziale – di quella di tutti coloro ai quali questo
riconoscimento viene negato (o viceversa di esigere il riconoscimento delle
esistenze negate che comprendono anche la propria), una maniera di ritagliare/rsi
pezzi di liberta’.

Alla parola “politica” associo il partito, gerarchicamente
inteso, come elemento di negazione delle individualita’ e contenitivo dei
conflitti. Associo dunque il “maschio” come colui il quale domina nelle
dinamiche pratiche di partito e al quale soggiace, subordinata, qualunque donna
(e non solo) che avanzi conflitti “di genere” (o comunque “conflitti”). Al
partito riconosco il merito di non definirsi in altro modo da cio’ che e’,
sebbene spesso tenti delle strane metamorfosi attraverso le quali (e
stigmatizzo i presunti cambiamenti, o spacciati in quanto tali, di forme
partito che nella sostanza sono rimasti tali) pretenderebbe gli fosse
attribuito un significato differente (generalmente si tratta di cambio di
vesti, simboli, nomi e quant’altro possa evocare il concetto di “cambiamento”).

Il partito si esercita, semplificando banalmente la
questione, nel non riconoscere dunque individualita’ altre che a loro volta
hanno difficolta’ a riconoscere la forma partito in quanto tale. Il partito e’
– dopo la chiesa, naturalmente – il luogo in cui si pratica il proselitismo
piu’ sfacciato. Tutto cio’ che non e’ dentro il partito e’ dunque, per sua
stessa definizione, fuori da esso e viene inteso come nemico. La via di mezzo
tra l’essere dentro e l’essere nemico e’ rappresentata dall’essere
“elettore/elettrice”.  

Conflitto e politica vanno,
secondo la mia esperienza, messi in relazione nella storia degli ultimi anni.  L’elettore/elettrice assieme alle individualita’
non riconosciute dal (e che non riconoscono il) “partito”, hanno costituito  parallelemente una alleanza di movimenti,
allo scopo di produrre conflitto in
un contesto politico reso totalmente
subordinato alla esigenza di “mediazione” che il sistema maggioritario
richiedeva come necessario per la convivenza di partiti differenti. Tale  alleanza ha preso in prestito la forma
radicale di conflitto teorizzata e praticata a partire da Seattle. In occasione
del G8 di Genova i movimenti si sono ritrovati in Italia ad affrontare una
situazione che ha estremizzato le differenze e che ha indotto la separazione –
prevedibile – tra movimenti legittimati e movimenti criminalizzati. Cio’ che ne
e’ conseguito e’ stato rappresentato da una ambiguo gruppo di movimenti (o del
“movimento dei movimenti”) filo-partiti, in perenne scontro/pseudo incontro con
altri movimenti anti-partito e anti-istituzionali. Ho quindi assistito ad una
autentica schizofrenia di pratiche politiche in cui venivano alternati gli slogan:
“Conflitto e’ bello!” e “Conflitto e’ brutto!” che ha pesato tanto di piu’ sulla
coerenza del “movimento” che non su quella del partito. Allo stato attuale io
credo che il movimento abbia esaurito la sua funzione.

Il nuovo movimentismo
ha in ogni caso portato alcune novita’ sul piano delle pratiche politiche
assembleari. I militanti si chiamano “attivisti”. Le assemblee si fanno in
cerchio e viene praticato il “metodo del consenso”. Quest’ultimo e’ un metodo
grazie al quale teoricamente si vorrebbe non far prevalere la opinione di una
maggioranza su una minoranza. Esso viene correttamente applicato quando
l’assemblea sceglie di non votare la opinione A o la opinione B, ma rimane a
discutere fino a che entrambe le opinioni non si trasformano in una opinione C.
Non c’e’ voto a maggioranza ne’ unanimita’, ma c’e’ piuttosto il massimo consenso
sulla pratica di un metodo che dovrebbe prevedere la massima partecipazione,
condivisione di cio’ che viene deciso. Un facilitatore ha il compito di
sintetizzare le proposte e le integrazioni e di indirizzare in senso positivo
ogni forma di conflitto. In questa forma assembleare non dovrebbe esistere
nessun leader. Il metodo del consenso ha pero’, secondo me, molti limiti. In un
gruppo vi sono sempre differenze di genere, ceto sociale, preparazione tecnica
e/o culturale, livello di istruzione, orientamento politico e il metodo del
consenso non riesce ad essere la maniera di affrontare, dirimere e veicolare in
positivo ogni forma di conflitto. In pratica io ho visto facilitatori che
diventavano leader riconosciuti, conflitti di genere latenti che sono esplosi
in un modo o nell’altro e le differenze culturali, di ceto, di livello di
istruzione, di preparazione tecnica, di orientamento politico diventavano anche
il motivo per la costituzione di zone corporative che di fatto impedivano – con
varie forme di ostruzionismo (interventi eccessivi, censura dell’altro,
prevaricazione dell’altro) – che il metodo del consenso fosse realmente
applicato. Generalmente il risultato concreto di cio’ era ed e’ la “non
decisione”, ovvero la censura di una proposta che alcuni non integrano, non
modificano, non ritengono che debba andare avanti.

I nuovi movimenti, con i quali ho praticato conflitto nella
politica e politica del conflitto, sono prevalentemente misti e all’interno di
essi le donne attiviste non sono
quasi mai portatrici di conflitti di genere. Sono invece spesso restìe a
riconoscere l’esistenza stessa di qualunque forma di conflitto di questo tipo. Esiste
in loro la convinzione che anzi tali conflitti non abbiano motivo d’essere
perche’ gli attivisti uomini fanno parte di una generazione di maschi evoluti
che non dovrebbero piu’ conservare alcuna traccia di machismo, autoritarismo,
maschilismo, sete di potere. Io l’ho vissuta e la vivo come negazione o
rimozione del conflitto in un contesto dominato da uomini che sanno rifarsi il
letto e magari stirarsi le camicie, ma che pero’ usano gli stessi antichi
parametri nella scelta delle donne da rendere partecipi del branco e da far
vivere nella loro ombra. A me pare che gli uomini abbiano perso la
disponibilita’ ad affrontare  i
conflitti e le donne ad indirizzarli. Tutto cio’ e’ per me un regresso forse
causato dal rifiuto, e dalla sua conseguente perdita, di una memoria culturale
e storica.

Nell’uso delle nuove
tecnologie
in politica si manifesta, invece, un grande conflitto di genere a
causa del divario conoscitivo di tali strumenti tra uomini e donne.

E’ nella solidale impreparazione tecnica e
nell’impossibilita’ di accedere, senza subire machismi di vario tipo, alle
informazioni necessarie ad acquisire nuovi saperi che io ho visto e praticato,
nelle nuove generazioni di donne, una delle rare forme di conflitto, comunque
esse lo vogliano definire, messe in atto." 

10/12/2004 

Enza Panebianco

Posted in Corpi, Fem/Activism, Pensatoio.