Skip to content


Licenza di palpeggio sulle alunne che non si vestono in maniera “consona”.

Parola di insegnanti. Perchè se un ragazzo, benchè dodicenne, a
scuola ti palpa e ti strizza la colpa è della ragazza o dei genitori
che meritano di sentirsi dire che la bimba va mandata a scuola vestita
con abiti più consoni. Se la storia non fosse accaduta a Palermo se ne
parlerebbe già da un bel pezzo con megapuntate di faziosissimi e
mediocri talk show dedicate al "fattaccio". Purtroppo è successo in quella città,
la mia meravigliosa città, dove un genitore che si oppone a questa
"Qultura" (con la Q apposta) sessista può finire accusato di
diffamazione e calunnia. Questa è stata la sorte del familiare della
ragazza molestata. Fino a che la frittata non si è rivoltata e sotto
accusa non sono finiti alcuni  insegnanti.

In questo tempo
segnato
– ahime' – dalle riflessioni di costume sui fatti di cronaca,
una storia del genere (che vi racconto grazie allo splendido stimolo di Ambra) forse può dare da parlare ai siculo palermitani,
al momento orfani di particolari raccapriccianti sulle tragedie
dell'Italia settentrionale, per tutta l'estate. Anche se so per
esperienza che in Sicilia il sole e il mare ci sono nemici e non
favoriscono moltissimo i dibattiti antisessisti.

La cosa triste
di questa
faccenda è che quegli insegnanti in realtà definiscono la
cultura dominante e che può passare più facilmente una accusa ai
genitori di aver tentato di "rovinare" onesti padri e oneste madri di
famiglia che l'altra versione della storia in cui si è reputato
necessario finire davanti ad un giudice per dimostrare un'idea che in
quella terra trova forse molto poco spazio persino dentro le aule di
giustizia.

La scuola – con gli insegnanti pagati una miseria,
senza diritti e senza attribuzione di meriti che equivalgano alle
responsabilità penali (lo so, si delega agli insegnanti quello che in
termini di educazione e responsabilità etica e morale dovrebbe venire
dalla cultura, dalle attività anche extrascolastiche, da ben altre
istituzioni, dalla vita di tutti i giorni… ma questo non giustifica fatti terribili come quest'altro successo a Gela dove un insegnante ha cacciato dalla scuola un ragazzo perchè gay) – in Sicilia come altrove
è il posto dove ogni tanto si possono incontrare questi residui delle
assunzioni clientelari dei pezzi grossi dei provveditorati. Quelli
appoggiati nei concorsi a cattedra (ma i precari non sono esclusi solo
perchè non privilegiati: di insegnanti idioti possono essercene pure
lì, giusto per non farne una roba di classe) che nelle scuole ci stanno
perchè facevano parte delle imbarcate da dieci al prezzo di uno in cui
tutta una famiglia riusciva di botto a diventare l'armata brancaleone
della scuola del paese. 

Questa pratica della sistemazione nelle
aule scolastiche dell'intero albero genealogico di una famigghia era
usata molto fino a una ventina di anni fa. Poi fu un po' più difficile
perchè le cattedre diminuivano e la sempre più crescente
scolarizzazione dei siciliani (anche tra poveri di stirpe che non
discendevano da casate di "insegnanti" d'hoc) creò una concorrenza
risolta con nuovi processi migratori in ogni direzione d'Italia. La
Sicilia (ma in generale un po' tutto il meridione) prese a esportare
insegnanti che negli anni hanno cresciuto ed educato moltissimi
milanesi, bresciani, bergamaschi, settentrionali in genere. Cioè: le
persone colte, istruite, magari plurilaureate (che in Sicilia con la
disoccupazione non si sa davvero che altro fare… si pigliano lauree
giusto per passare il tempo) la lieta e solare isola le mandava in
esilio. E se non sapessi che poi molti in effetti sono riusciti a
tornare per effetto di trasferimenti o di opportunità prese al volo, la
mia domanda sarebbe: chi è rimasto in Sicilia allora?

Dedico
quindi un piccolo paragrafo
alla mia esperienza personale di rapporto
con gli insegnati. Alle medie c'era la toccante abitudine di cospargere
prove provate della virilità di bulletti di quartiere. Trovavo giochi e
giochetti con riferimenti – per niente allusivi – all'organo genitale
maschile che nella mia zona usava essere definito poeticamente
"ciolla". Io arrossivo tutte le volte mentre i ragazzetti e gli
insegnanti se la ridevano (se mi avessero fatto ora questo scherzo immagino che avrei chiesto di poter vedere l'oggetto di tanta discussione di persona per valutare con coscienza :). Niente di grave, certo, cazzatelle che non costituiscono un "trauma", ma già avevo il mio
bel da fare in casa ed ero davvero stufa (già a quel tempo) di essere
circondata da minchioni segaioli che vivevano solo in nome del dio
pene. Al liceo la storia cambiò un po'. Nel senso che noi femmine ci
siamo rivestite di tutto punto di armatura e scudo e le "ciollate" ci
scivolavano addosso senza problemi.

Gli insegnanti però, proprio
quelli,
non eravamo ancora in grado di affrontarli nel modo giusto. Non
c'era sufficiente consapevolezza e dunque era molto difficile riuscire
a trovare una risposta consona, un gesto adeguato a far capire loro
quanto fossero mediocri e gran pezzi di merda. Il mio insegnante di matematica era
famoso perchè si stirava sulla sedia, scivolava basso, sempre più
basso, per guardare sotto le gonne delle ragazze. Non solo. Guardava
tra le fessure delle camicette e la sua mitica richiesta era quella di
scrivere alla lavagna più su, sempre più su… mentre lui scivolava giù…

Il
mio insegnante di italiano
era un altro bel soggetto. Alla
presentazione declamava versi sulla misura delle coppe dei nostri
reggiseni (quelli di noi mammellate) e trascorreva parecchio tempo a
fare lezione in classe sui metodi di abbordaggio (ne trascriveva una
decina alla lavagna e passava così le sue due ore di insegnamento). In
quinta liceo ebbi modo di lamentarmi per questa storia (non ne potevo
più – immaginate il clima sessista e maschilista che si creava nella
classe durante i suoi corsi di machismo applicato). Lui prese un anno
di congedo, giusto giusto per starmi alla larga ed evitare problemi.
Poi tornò e se non ricordo male lo fecero pure vicepreside, per la
gioia dei seni delle bimbe che avrebbe avuto il piacere di "misurare".

Non
sono una moralista e non
mi ha mai interessato ragionare da
fondamentalista cattolica perbenista. Ma la scuola è il posto in cui si
dovrebbe imparare e se si impara a fare i coglioni a quell'età è
davvero difficile in seguito modificare atteggiamenti e culture così
abietti. Avrei preferito e preferirei che si parlasse di sessualità vera, paritaria, consapevole piuttosto che di pregiudizi e editti religiosi sul corpo.

Il risultato di quella cultura – quella dai risolini sotto banco, del detto non detto, del machismo furbacchione e tanto ma tanto popolare tra i più, misurato a malapena solo dall'etica censoria e pretaiola dell'ora di religione, si rendeva visibile (si rende visibile) ogni giorno e
pesava (pesa) sempre. Come per quel caso in cui dei ragazzetti ci diedero un
passaggio a casa in motorino e invece ci portarono in un boschetto.
Pompino e toccata di tette altrimenti non ci avrebbero riportato a
casa. Eravamo in due. Di noi avrebbero detto che facevamo le puttane.
Non facemmo pompini (io non sapevo neppure da dove cominciare) e si
accontentarono di una strizzata di tettine. Poi ci lasciarono lì perchè
la prestazione non fu considerata soddisfacente. Cinque chilometri a
piedi fino in paese. 

Dalle mie parti ci fu una storia capitata
ad una ragazza mentalmente disabile (è una storia simile a quella della
ragazza di Taranto di qualche mese fa che non creduta e mortificata da
tutti si è suicidata lanciandosi dal balcone) in cui un bel
compagniuccio di scuola & company la portarono in un bel posto e la
stuprarono a turno per ore. La storia fece il giro del paese – la
chiamarono ragazzata – e la colpa naturalmente era della ragazza. Il
capo del branco "da grande" fece carriera e dopo un po' sentii dire che
lo avevano persino nominato assessore. 

Per finire, tra le abitudini di presidi e affini c'e' quella di "suggerire" perentoriamente alle alunne di vestire in modo adeguato. Anche a me è capitato di sentirmi dire che dovevo coprire la pancia o le cosce a seconda di quello che mettevo bene in vista. La cosa però anche più inquietante che mi è capitato di sentire fu a proposito della frequenza scolastica in condizione di maternità. Accompagnare il bimbo alla scuola materna procura certo qualche ritardo giustificato nelle scuole. Un preside "sensibile" così disse alla madre arrivata alle 8.35 del mattino (cinque minuti dopo che la campanella di inizio lezioni aveva suonato): "una madre dovrebbe fare la madre. Non dovrebbe venire a scuola!" 

Quante sono le storie di
questo tipo
di cui abbiamo memoria? Sarebbe bello se ce le
raccontassimo anche se riguardano gente che conosciamo bene  (che a rammaricarsi e indignarsi per quello che succede in Afghanistan non si fa poi grande sforzo se poi si fa gli/le gnorri per le cose che abbiamo sotto gli occhi, per quieto vivere o per non inimicarci la gente che conta) perchè custodirle non fa bene a noi e a quell* che
verranno dopo. Da storie di questo tipo si passa assuefatte, vincolate
o incazzate nere. Io sono cresciuta con la rabbia in corpo e un gran
senso di impotenza che mi ha portato fino a qui. La memoria è una cosa
importante perchè ci dice cosa siamo e cosa possiamo diventare.

 

Posted in Corpi, Fem/Activism, Omicidi sociali, Pensatoio.