Ne è morta un'altra. Ancora una a Catania, in Sicilia. L'ha ammazzata il marito strafatto di paturnie. Paranoico, depresso, geloso… Qualunque cosa sia c'e' andata di mezzo la moglie. Lui l'hanno trovato con un coltello piantato sulla pancia. Solito schema, solito copione di sempre: lui ammazza lei e poi tenta il suicidio. Lo tenta ma spesso non riesce.
L'altra sera guardavo W L'Italia, il programma di Iacona su Rai Tre, e parlava dell'Enichem di Gela e della vita delle persone senza acqua (la prossima puntata – martedì 31 – è in diretta dalla romana Casa Internazionale delle Donne e parlerà proprio di violenza di genere e di case per donne maltrattate). Quella zona io la conosco bene così come conosco bene la storia delle donne che si alzano alle cinque del mattina per aspettare l'acqua corrente, che ancora viene in media ogni 15/20 giorni, e tirarla sulle vasche piazzate sul terrazzo, sui tetti. Si tira su con una pompa che aspira l'acqua direttamente dai tubi perchè la pressione è troppo bassa e il motorino più potente vince.
Anni fa, quando il "motorino" non esisteva ancora o non era applicabile alla situazione, ricordo che io e mia madre stavamo lì a caricare bidoni da 20 litri per poi svuotarli dentro le vasche del secondo piano. Il consumo dell'acqua lì sta con il contagocce. L'acqua non può scorrere, va contenuta in bacinelle ed utilizzata con parsimonia. La vita delle donne in Sicilia si misura anche su quelle fatiche che nessuno ha interesse ad emancipare. Parlo di questo – lo so sto divagando – perchè da quei ricordi ne è scaturito un'altro circa una signora del mio paese d'origine che si è fatta un po' di galera dopo aver ammazzato il marito.
La ricordo come una donna decisa, robusta e piena di grinta. Il suo coniuge la picchiava dalla mattina alla sera. Un bel giorno la lanciò persino dal balcone del primo piano di casa. Lei si ruppe un bel po' di ossa ma rimase viva. Prese i figli e si rifugiò dal padre anziano. Il marito la raggiunse per ammazzare lei, il padre e chissà chi altri. Lei lo uccise con un fucile, credo fosse quello del padre. Non mi pare che le riconobbero la legittima difesa. E in effetti non ricordo bene la dinamica processuale. So solo che quella donna era una tra le poche che ho conosciuto sopravvissuta ad una situazione del genere.
La donna di Catania di questi giorni invece evidentemente non ha avuto la stessa fortuna, se di fortuna si tratta. Nel suo progetto di conferenza per la famiglia la Ministra Bindi diceva che per le famiglie in difficoltà si dovrebbero attuare progetti di "riparazione".
Mi chiedo cosa ci trovi la Bindi da riparare in situazioni in cui la cosa da tenere bene a mente è la sopravvivenza di donne e bambini.
Sullo stupro domestico in questo blog si è parlato tanto e ho già scritto circa le ridicole misure legislative esistenti. Ho tentato spesso di fare uno sforzo di ragionamento laico che sostenga l'operato delle case aiuto per donne maltrattate e allo stesso tempo ragioni su un modello di società che non dovrebbe avere bisogno di consegnare una donna massacrata da un uomo ad un altro uomo delle forze di polizia.
La delega del ruolo di salvatore impedisce la ricerca e la crescita in un'altra direzione assai più preziosa e secondo me efficace: l'autosufficienza delle donne. Perciò si discute di autodifesa ma soprattutto di emancipazione dallo stato di precarietà, di necessità di indipendenza economica e autonomia abitativa. Si ragiona dunque di un modello sociale opposto a quello attuale che invece consegna totalmente le donne ad un ruolo dipendente (a fare figli e badare alla famiglia) dal quale è davvero complicato sottrarsi nel caso in cui c'e' un conflitto e una minaccia di morte esplicita o implicita (nei gesti, nelle modalità, nelle urla…).
Questo sforzo di ragionamento lo stanno facendo anche le ragazze di Lady Fest Torino, con la loro bella iniziativa che si farà a fine settembre. Loro dedicano appunto un apposito spazio a questo argomento.
E' necessario che vi siano spazi in cui poterne ragionare in tanti, perchè la cultura, propria e collettiva, si cambia a partire da questo. Ed è vero che sarebbe necessario un confronto anche politico (e culturale – sul perchè avviene tutto ciò, senza arrivare a conclusioni sbrigative che parlano di pene dure e senza aver modificato di un millimetro neppure la testa dei parlamentari coinvolti nella discussione, figuriamoci quindi cosa si può sperare da tutti gli altri).
Si. Sarebbe urgente parlarne – almeno questo – mostrando invece un po' di sana indifferenza verso i balletti sui partiti, i furti autorizzati, le scaramucce tra stipendiati di lusso della camera dei deputati…
Perchè non c'e' più tempo. Quante donne dovranno morire prima che ci si decida a discuterne sul serio? Perchè non è la cosa che tanto "a voi non può accadere mai". Ciascuno di noi è portatore/trice di pezzi di cultura patriarcale che vanno rivisti, meditati, cambiati perchè contribuiscono tutti in eguale misura allo sterminio di massa realizzato ai danni delle donne. L'indifferenza è ancora omicidio moltiplicato per tre.
E' troppo semplice anche fermarsi per fare qualche considerazione del tipo "una donna non si tocca neppure con un fiore" e altre amenità del genere. Servono solo a scrollarsi di dosso il senso di colpa che appartiene al genere, come per prendere le distanze e stabilire una diversità? Ma poi? quando sentirete dire che voi tra gli uomini siete i più sensibili e i più buoni, quanto tempo impiegate a dimenticare tutta la faccenda? Quando continuate ad essere appassionati rispetto all'esito di questa battaglia di civiltà?
Quello che io vedo è l'oblio. Gli uomini non ne ragionano o perchè sono responsabili o perchè non si sentono tali e dunque possono darsi licenza di guardare altrove. Pochi sono gli uomini che sanno vedere nella ricerca di autonomia e di crescita reciproca un affare utile anche per se'. Perchè una cultura di indifferenza rispetto al femminicidio è triste e non trova nessuna giustificazione. Ciascuno è chiamat* a fare qualcosa di più perchè questo problema non è "solo una cosa da femmine".
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—>>> La prima immagine è "Mujer con futuro" di Juan José Saldívar Guerrero