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Chi non è omertoso alzi la mano. Ovvero: la vita psichica del potere

Si è sempre parlato di omertà in relazione alla mafia e ai siciliani. Poche volte se ne parla riferendosi – più in generale – al ricatto di chi esercita "potere" che perennemente gioca ad affascinare le nostre vite o a ridurle al silenzio.

C'e' una modalità sociale che spinge tutti – e qui invito la gente non meridionale a farsi un bell'esame di coscienza prima di dirsi indignata di fronte al comportamento omertoso di molti siciliani – a farsi i cazzi propri o comunque a comportarsi in maniera consona, rispettosa, conveniente e perfettamente in linea con l'ambiente che li circonda. Questo a prescindere dal fatto che tali ambienti siano stati scelti o meno. Di fatto il terrore dell'abbandono lega tutti a doppio filo ai contesti in cui si vive. Fedeltà è la parola chiave. E lì si gioca con strani termini che esprimono variegate versioni del concetto di "onore" e altrettante variopinte facce del comportamento "fedele".

Quella modalità del "vivi e lascia vivere" serve fondamentalmente a mantenere un ruolo sociale. Non parlo di un posto in particolare. Parlo – come dicevo prima – di qualunque posto e di qualunque situazione.

A dire quello che si pensa, a “denunciare” quella tal cosa che non va’, c'e' sempre da rischiare di essere uccisi: fisicamente o socialmente. C'e' chi viene licenziato. Chi non potrà mai denunciare quella organizzazione o cooperativa nonostante non ti paga o schiavizza quantità indecenti di esseri umani. C'e' chi viene espulso dal partito. Chi viene dichiarato eretico dalla chiesa e quindi viene messo al bando. Chi viene escluso dal branco. Chi viene isolato dalla compagnia di amici. Chi subirà la vendetta per non aver sentito lo spirito di corpo. Chi subirà un embargo economico e non troverà mai da lavorare. Chi subirà angherie di ogni genere atte a ripristinare "normalità" consuete, abitudinarie, tranquillizzanti nella famiglia d'origine. Chi dovrà essere calunniano, sbeffeggiato, dileggiato, mobbizzato. Chi sarà, infine, fisicamente ammazzato.

Quando si parla di omertà ci si riferisce a questo. E secondo questa descrizione meno "rasserenante" e non geograficamente circonscrivibile, tutt* possiamo essere – potenzialmente – "omertosi".

Se molti siciliani non parlano, ciò avviene per fedeltà al proprio luogo d'origine e per paura di perdere qualcosa, sia essa la reputazione, l'appoggio sociale o la stessa vita. E' troppo semplice dire che i siciliani sono tutti mafiosi (a meno che non la intendiamo come "Voglia di mafia" generalizzabile a più contesti e in molte più zone d'Italia). Troppo semplice dire anche che in quel territorio vige la cultura mafiosa dell'omertà come se altrove invece tutti si sentissero liberi di dire quello che gli pare.

Per tutti gli altri, infatti, credo che il problema sia lo stesso. In fondo pensateci bene: non siamo tutti a dire che è meglio non inimicarsi nessuno che tanto prima o poi si può aver bisogno di tutti? Che bisogna essere amici di tutti perché mantenere “ipocritamente” relazioni fasulle ci può aiutare in qualche modo? Non siamo lì a far parte di conventicole ruffiane per poter aver accesso a una posizione o ad un avanzamento di carriera? Non ci troviamo forse in un modo o nell’altro a legittimare chi “si fa rispettare” ripagandolo con il silenzio o con allisciamenti e pompini vari? Non abbiamo una certa tendenza a ricreare zone corporative all’interno delle quali vige il diktat che “se non stai con noi, sei contro di noi”? Non siamo lì a scimmiottare i meccanismi del potere ogni volta che ne abbiamo l'occasione?

Quanti sono quelli che realmente dicono ciò che pensano al proprio datore di lavoro, al leader del proprio gruppo politico, a figure “prestigiose” dei contesti in cui si vive? Quante volte vi è capitato di sentirvi dire sul posto di lavoro, al sindacato, all’università, in famiglia che sarebbe meglio lasciar perdere, non dire nulla e andare avanti fino al raggiungimento di una posizione di "potere" a partire dalla quale sareste legittimati a dire quello che volete e a gestire le cose come vi pare? Ed è così che si fa corrispondere la libertà di esprimersi, non latitare, prendere posizione con l’acquisizione di "potere".

“Quando sarai "qualcuno" potrai dire e fare ciò che vuoi.” – Questo è il messaggio implicito che deriva da ogni “buon consiglio”, ogni opinione di “buon senso”. E quello diventa l’obiettivo primario: la conquista di un ruolo di prestigio, di "potere" senza il quale non si può dire quello che si vuole e si pensa. Senza il quale non si è autorizzati a essere persone. A rivendicare diritti. A fare denunce sociali. E non è questo in fondo così simile alla politica di suddivisione in caste di altri popoli o di altri secoli? Non è in fondo quello che poi subiamo?

Chi ha "potere" chiude gli archivi, mette sigilli di segretezza ovunque, chiude la bocca a chi parla troppo. Chi ha potere gestisce la sua posizione a partire dal ricatto che se i subordinati non parlano prima o poi saranno premiati con uno scatto di carriera. Sarà in quel momento che potranno esercitare lo stesso ricatto sui subordinati, sui gregari, sui seguaci.

Quante volte avete sentito dire che le donne non denunciano i compagni che le stuprano e picchiano perché altrimenti non avrebbero un posto in cui abitare, soldi per vivere. Perché altrimenti in un colpo solo perdono casa, soldi, posizione sociale (sto parlando del diritto a essere considerata persona poiché una donna senza marito o con un fallimento coniugale alle spalle non è socialmente accettata così come non lo è una disoccupata bisognosa di aiuto. se hai bisogno di qualcosa non vali niente, questo è l’assunto da cui si parte).? In quali casi si realizzano le condizioni che consentono a chiunque di poter dire la propria verità, di denunciare un abuso? Il nostro sistema sociale è pensato per tutelare chi denuncia o piuttosto è costruito ad arte per spaventare chi si ribella e reprimere chi denuncia?

Quante volte prima di prendere posizione abbiamo il problema di pensare a quanto abbiamo da perdere? In quanti casi subordiniamo la nostra libertà di pensiero e sospendiamo la nostra capacità critica e di giudizio per il timore di essere isolati o cacciati dal posto di lavoro, dal gruppo, dalla famiglia, dagli amici, dal partito?

Chi sono dunque le persone realmente libere, coraggiose, non omertose che dicono quello che pensano sempre e a qualunque costo? Chi sono le persone che non sono irreparabilmente attirate dai leader, dai potenti, dal potere, in una complicità che è anche fiancheggiamento psicologico. Una corresponsabilità legittimante e autocensoria. Dove l'autosufficienza pare una cosa troppo difficile da praticare e l'aggregarsi invece diventa scelta comoda, di reciproca dipendenza (che poi è anche un altro motivo che tiene una donna picchiata accanto al suo persecutore). Dove le omissioni sono di rito. Dove si finisce per tacere per non ammettere il proprio limite e la propria incoerenza. Ci si scontra sempre con tante e tali contraddizioni non dichiarate. Così si baratta silenzio per silenzio. Così la vergogna prende il posto della libertà.

Perché è tanto semplice delegare il sovvertimento di una sub-cultura come quella dell’omertà, della complicità indotta, della incapacità di emanciparsi dalle zone di ricatto, al popolo siciliano che oltre a tutto quello di cui si è parlato rischia persino la stessa vita. Bisognerebbe che tutti mostrassimo più coraggio. Che tutti imparassimo a non cedere alle minacce, ai ricatti, alla paura di restare soli. Bisognerebbe anche essere capaci di schierarci dove la solitudine è visibile. Dove c’e’ qualcun* che rompe questo gioco assurdo e alza con orgoglio la testa. Dove è più difficile essere comodamente neutrali e dove le battaglie ideali, per una giustizia dei poveri, degli oppressi, di chi subisce abusi e prevaricazioni, acquistano davvero un senso.

E la coerenza appartiene al privato come al pubblico. Se in pubblico manifestiamo a fianco degli antimafiosi e in privato taciamo verità per guadagnare ora questo ora quell’altro vantaggio personale, forse, possiamo fare a meno di scendere in piazza. La cultura, le cattive culture si cambiano a partire da noi. O che sia chiaro che tutti abbiamo bisogno di guadagnarci il pane e che nessuno si può ergere a giudice giudicante su quelli che svendono il culo per sopravvivere. L’omertà esiste perché qualcuno ce l’ha imposta e noi però la manteniamo in vita anche quando potremmo farne a meno. Ossequiare e ringraziare qualcun* è più semplice che guadagnarsi ogni conquista personale con coerenza e intransigenza. Fino ad ora non si è fatto un grande sforzo per interrompere questo circolo vizioso.

Si può però iniziare da ora. Si può iniziare da qui. Dove il ricatto non è il pane, ne’ la vita. Dove dovrebbe essere facile essere liberi di dire quello che non va. Parliamone…

*****

Nota Bene: Vi consiglio una lettura sulla soggettivazione e l'assoggettamento del potere  —>>> "La vita psichica del potere" di Judith Butler 

Posted in Fem/Activism, Omicidi sociali, Pensatoio, Precarietà.


2 Responses

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  1. FikaSicula says

    Già Paolo. E’ davvero triste scoprire quanto riusciamo anche senza saperlo ad essere funzionali al potere. Ne dipendiamo in maniera patologica. Perciò forse non riusciamo a realizzare un modello di società differente?
    Boh

  2. paolo27 says

    Ho sempre trovato fantastica la capacità di molti di pretendere che a fare gli eroi siano gli altri.
    E come si suol dire, chi non ha mai pensato, almeno una volta, in modo “mafioso” scagli la prima pietra. Ma chi decide di scagliarla, accidenti! La scagli! Si dovrà pur cominciare da un punto!
    Bel post.