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Aggressività e bullismo al femminile: appunti di ricerca.

Mentre sono persa nella ricerca, tra un infanticida e una babygang al femminile, mi arriva – da una delle donne che si è sentita sollecitata dalla mia richiesta di dati e notizie, il racconto (che spero presto di poter completare e dettagliare) di alcune vicende di bullismo in una scuola che raggruppa persone che vanno da una età di 16 anni ai 26 circa.

La scuola si trova nell’interland milanese e pare essere un altro caso di quell’aggressività liberata e incontenibile di cui stiamo provando a parlare.

Nei libri che sto leggendo alcuni ricercatori pedagogisti e psicologi si sprecano nel cercare ragioni di tutto ciò (non con una specificità di genere) nel nichilismo, la fine dell’epoca dei grandi valori, la televisione, (nessuno che io abbia letto si riferisce al fatto che nel kaos, nell’assenza di dogmi forti anche i sentimenti sopiti possono forse venire semplicemente fuori senza che per questo ci sia una ragione oscura e particolarmente terribile) le pressioni esterne e – come sempre accade – la "colpa" principe sarebbe (indovinate un po’ di chi?) delle madri.

Perchè ci sono i sistemi familiari in crisi, le donne in carriera che non pensano più ai figli come una volta, le casalinghe che non sanno più fare le torte fatte in casa. I più buoni danno qualche chance alle madri e descrivono ragioni che vanno dalla violenza dei sistemi abitativi, (cementificati, che relegano ogni forma di socializzazione ai gruppetti del condominio o della scala A del condominio) alla violenza dei media, pressioni della spinta al consumo tutto incluso.

Poi ci sono quelli che si spingono persino a cercare le ragioni nelle infanzie malandate delle madri, nelle loro condizioni economiche (perchè se si cresce tra l’immondizia allora è "ovvio" che non ci si può aspettare altro che i bimbi muoiano oppure siano un po’ dei cani rabbiosi verso quelli che l’immondizia la producono), nel loro livello culturale.

Oppure la colpa è delle scuole, anzi del corpo insegnanti (cui viene affidata ogni responsabilità: dal sequestro delle armi agli alunni, dell’essere impassibili di fronte a gesti di autolesionismo o del destinargli soccorso). Con questo tipo di "supporto" pseudo scientifico una insegnate di una scuola con alunn* individu* di età differente, come vi dicevo, un bel giorno si ritrova a dover gestire una situazione che vede coinvolta una bulla (una leader) furba, che usa forme di autolesionismo per ricattare (o per attirare l’attenzione, per canalizzare la rabbia), che non si mischia mai in risse a meno di non riuscire ad apparire vittima (quindi solo con persone che poi possono farle gioco in questo senso).

Lei comanda su tutto il gruppo di donne  e le tiene al guinzaglio mandandole avanti a fare casini, mentre lei, da brava boss, se la gode ed eventualmente interviene solo con battutine, commenti acidi e pettegolezzi sconci. Mi è stato raccontato anche del fatto che all’interno del gruppo è stata fatta una colletta per acquistare una arma da caccia (quella a pallettoni per cui non serve il porto d’armi che avrebbero voluto usare forse per rapine) e che deteneva la leader anche per intimidire tutt* le/gli altr*.

In più di una occasione questa ragazza ha messo in atto strategie autolesioniste (tagli, lividi, raggiri). Ha anche aggredito in maniera indiretta (con allusioni, frasi per lo più a sfondo sessuale) e diretta. Quando però l’altra o l’altro reagivano allora lei mostrava un livido, un taglio, o un lato della propria anima profondamente ferito. Così induceva tutti a difendere solo lei. Questo metodo fu chiaro all’insegnante nel momento in cui questa ragazza lanciava una sedia addosso ad un compagno, ferendolo gravemente. Ad essere punito fu il ragazzo.

Quando lei poi fu rimproverata e le fu chiesto perchè lo avesse fatto, la bulla fece vedere un taglio (che la maestra aveva visto procurarsi da sola prima del lancio) e così mise in una posizione di difficoltà anche la stessa insegnante rispetto ad altri adulti intervenuti invece a difendere la ragazza. Quest’ultima poi, sempre secondo il racconto, farebbe grossissime allusioni e divulgherebbe diffamanti calunnie, pettegolezzi rispetto a presunti inciuci sessuali tra gli insegnanti.

In questo modo terrebbe sottoscacco anche alcuni adulti incapaci di reagire adeguatamente a queste forme di aggressioni indirette. L’insegnante – mi è stato riferito – è assolutamente impreparat* a reagire a queste espressioni dell’aggressività perchè non ci sono studi adeguati in materia e tutto si basa sulla esperienza (poco documentata) e sull’intelligenza degli stessi insegnanti. L’aggressività indiretta al femminile e la violenza delle ragazze/donne parrebbe essere poi tutta un’altra cosa rispetto alle modalità equivalenti al maschile (anche se in alcuni casi c’e’ una grande fluidità e non si può dire che vi sia sempre una reale distinzione di genere).

Le ragazze scadrebbero più facilmente sul personale. Sarebbero più astute nel cogliere debolezze e fragilità attraverso le quali dominare l’avversari*. Agirebbero su un piano delle ambiguità con maestria maggiore rispetto alle rozze ed esplicite maniere dei ragazzi.

E’ insomma una ricerca appassionante e tutta in divenire. Io aspetto altri contributi che spero arrivino presto. Intanto grazie a tutt* per quello che mi è già stato detto (in pubblico o in privato) e che siate certi vi sarà restituito in modo tale da poter diventare anche vostro materiale di ricerca. I documenti che ne verranno fuori saranno materiale da cui poter attingere a piene mani. Come fosse una  ricerca 1.0 a sorgente aperta rispetto alla quale si attendono altre grandi e belle evoluzioni.

Altre domande. Perchè sono curiosa: come sono i partner o le partner delle ragazze/donne bulle, gangstress in Italia? Sapete di casi in cui invece che la donna del capo c’e’ l’uomo, il fanciullo, la fanciulla, la donna della capa?

Poi (e questo a margine): perchè si permette che le tesi universitarie su argomenti di interesse collettivo (che servono a tutti per crescere, alla società per evolversi) siano disponibili (se online) solo a pagamento su appositi siti (tesionline.it) che vendono (a 24 euro per scaricare un documento in pdf) la possibilità di visionarle o solo per gli eletti (gli iscritti, quelli che hanno rapporto privilegiato con le facoltà) collegati ai siti delle facoltà universitarie?

La ricerca, quella che ci osserva come argomento di studio, che si realizza solo grazie al fatto che gli esseri umani esistono, vivono, respirano, non dovrebbe poi essere in qualche modo restituita a tutt* in eguale misura? Devo per forza pagare fior di quattrini di iscrizione all’università per leggere materiale che non troverò mai in libreria perchè nessuno ha voglia o occasione di pubblicarlo? (Sto parlando del materiale online, quando c’e’. Altrimenti nelle biblioteche in genere la lettura del materiale disponibile è libera. Perciò e ancora di più non capisco come si possa lucrare su una cosa così particolare).

[e.p.] 

*** 

Materiali:

Nota Bene: Le tecniche di esclusione sociale, di ostracismo, mobbing, di persecuzione, di aggressione indiretta (diventano anche il modo per cancellare opportunità, togliersi di torno una rivale scomoda o semplicemente per togliere credibilità e spazio d’azione socio-politica, per non accreditare, per opporre veti alla sua acquisizione di nuovo prestigio o di nuovi ruoli di presunto "successo") sono oramai usate bene anche dagli uomini in tutte le situazioni in cui non si può usare la aggressione diretta. Sul posto di lavoro, nei gruppi di adulti, nelle relazioni virtuali (dove la parte fisica non esiste, tutta la parte di aggressioni indirette è amplificata all’ennesima potenza).

– Articolo su Carta online: "Donne e guerra" dove si sostiene che le donne aguzzine sono un effetto dell’emancipazione deviata. 

Fonte: Iims.it –  Sul bullismo al femminile: "(…)il bullismo sia [si legga: è] un fenomeno che riguarda tanto i maschi che le femmine, seppure espresso con modalità differenti. I maschi mettono in atto prevalentemente prepotenze di tipo diretto, con aggressioni per lo più fisiche ma anche verbali, nei confronti sia dei maschi che delle femmine. Questa ultime, invece, utilizzano in genere modalità indirette di prevaricazione e le dirigono prevalentemente verso altre femmine. Poiché le forme di bullismo indiretto sono più sottili e più difficili da riconoscere, il bullismo "al femminile" è stato individuato più tardi rispetto a quello maschile ed è più difficile da rilevare anche per gli insegnanti."

Fonte: Alias – "Le ragazze della rivolta" – sulle ragazze delle banlieus parigine.

Fonte: iltuopsicologo.it – "BULLISMO FEMMINILE – Un accenno vorrei farlo riguardo al "bullismo femminile". Esso viene poco considerato perchè molto meno vistoso rispetto a quello maschile, ma a causa di ciò più subdolo. Esso si manifesta meno "fisicamente" e di più "verbalmente" ed "indirettamente". Di solito la "bulla" s’atteggia ad "ape regina" e si circonda di altre api isolando che non le è gradita. Inoltre mette in atto nei confronti dell’ "esclusa" un vero e proprio comportamento persecutorio fatto di pettegolezzi e falsità infondate. Per la vittima diventa difficile chiedere aiuto, perchè il comportamento bullistico e poco evidente e si tende ad attribuire l’isolamento della vittima ad una sua eventuale timidezza. Si può facilmente immaginare quali possano essere gli esiti per la propria autostima, esiti che possono anche comportare quei disturbi del comportamento alimentare tanto frequenti fra le ragazze."

Alcune caratteristiche del bullismo femminile (in inglese)

Studio di un caso di bullismo femminile – simulazione in area didattica. 

Alcuni dati sulla violenza al femminile

Ancora dati dul Bullismo femminile

Elenco dati bullismo 

– Da Ecologiasociale.org::

                                                                                                                  

Corriere 12 gennaio 2004 – <<Angherie, ricatti, emarginazione. Gli esperti: le ragazze iniziano alle elementari a imitare i cattivi compagni. I presidi: spesso si creano grandi sofferenze
Bulle in classe, quando la violenza è al femminile

L’allarme: sono prepotenti e aggressive, molto più dei maschi. I professori: fenomeno in aumento, difficile da riconoscere

Sono prepotenti, non accettano regole, allontanano chi è diverso da loro, hanno sete di potere e guai a chi non sta dalla loro parte. Proprio come i loro compagni maschi. «Bulle» a scuola. Alle elementari e alle medie, in competizione tra loro e all’inseguimento del «modello vincente», quello maschile. Anzi, sono ancora più aggressive e spietate. Episodi di soprusi, piccoli furti, emarginazioni. Fino a causare, in alcuni casi, un disagio profondo, ai limiti della sofferenza.

Iniziano a 9-10 anni, pronte a imitare i loro compagni con ricatti, prese in giro, a volte alzando anche le mani. «Anche se quello femminile – spiega la psicologa Silvia Vegetti Finzi – è un bullismo più psicologico rispetto al modello maschile. È come il gioco della torre: bisogna cacciare dal gruppo un capro espiatorio. È un sistema di relazioni aggressive, molto violente e che lasciano quelli che io chiamo "i lividi dell’anima": sono più difficili da mandare via dei lividi veri».

Anche perché, precisa la psicologa, spesso nella vittima delle bulle scatta un processo di autodenigrazione. «Chi è rifiutato – continua Silvia Vegetti Finzi – si accanisce nel voler entrare in quel gruppo e non rivela a nessuno i suoi problemi. Per questo è così difficile individuare il bullismo al femminile».

Ne sanno qualcosa i presidi delle scuole: «I maschi – afferma Chiara Bonetti, a capo dell’istituto comprensivo Cadorna di via Dolci – hanno atteggiamenti macroscopici che gli insegnanti riescono subito a individuare e arginare. Con le bambine è più difficile». Cominciano in quarta- quinta elementare, una leader sceglie i componenti del gruppo che si ritrova in classe e, di pomeriggio, nei cortili, visto che gli studenti abitano nello stesso quartiere.

«A volte – continua la preside Bonetti – si creano situazioni di profonda sofferenza: la ragazzina emarginata inizia a rifiutare la scuola, si finge malata, non parla. Spesso sono i genitori a segnalarcelo, accusandoci di non aver colto certi segnali. A quel punto cerchiamo di intervenire con l’aiuto delle famiglie, magari chiedendo un supporto psicologico esterno».

Circa il 40 per cento degli iscritti alle elementari dichiara di aver subito qualche angheria. E alle medie la situazione peggiora. Tra gli adolescenti un bullo su sei è femmina. «All’intervallo è come vedere l’ape regina con il suo seguito – sospira Antonella Natasi, insegnante di inglese alla media Marconi di Cologno Monzese – : si atteggiano a donne arrivate, circuiscono i compagni di entrambi i sessi. Le bulle stanno diventando un problema grave: con i maschi basta una sgridata per ridefinire i ruoli, mentre le ragazze covano rancore e sono ambigue».

Questione di emulazione: «Le ragazze crescono prima – commenta Romano Mercuri, preside della scuola media di viale Brianza – e magari c’è qualcuna che frequenta i più grandi, quelli del liceo, ed emargina chi è ancora una bambina. Se capitano episodi del genere, la scuola interviene spiegando agli studenti che le relazioni vanne mantenute fra tutti i componenti della classe. La cosa più inquietante? Il fatto che alcuni genitori non si accorgano della prepotenza dei loro figli. Sempre il solito problema: ragazzi abbandonati a loro stessi e famiglie assenti».

Allora come difendersi dal bullismo? «È meglio non limitarsi all’amicizia con la compagna di banco, al gruppetto nato a scuola – consiglia Silvia Vegetti Finzi -: meglio avere rapporti vari, nati in gruppi sportivi, tra boy scout, in un coro. Insomma, fare attività che permettano d’avere tante appartenenze spezzando così la dipendenza dalle bulle».

Annachiara Sacchi>>

*** 

– Da La Repubblica dell’8 settembre 2003

Ricominciano le scuole e si profila un nuovo fenomeno: la femminilizzazione del bullismo fin dalle prime classi delle elementari
Sei anni, le pupe diventano bulle
Più aggressive e perfide dei maschi, leader senza menare le mani
Chi subisce può andare incontro a stress, esaurimento nervoso e disturbi alimentari

Entro il 2016 le ragazzine cattive raggiungeranno i maschi terribili

LAURA LAURENZI
ROMA – Più aggressive e ben più perfide dei maschi, nelle scuole elementari arrivano le bulle. Definirle dispettose o anche prepotenti è davvero riduttivo: già a sei o sette anni compiono regolarmente atti di sopraffazione odiosi (e spesso sottovalutati dagli insegnanti e dai genitori) nei confronti delle compagne più vulnerabili e più indifese. Sono implacabili e in classe, a forza di prevaricazioni, spesso assurgono al ruolo di leader. La denuncia di questo nuovo allarme sociale – la femminilizzazione del bullismo già nelle prime classi elementari – viene dalla psicologa Ada Fonzi, che ha analizzato il fenomeno nel corso dell´undicesima Conferenza Europea sulla psicologia dello sviluppo tenutasi all´Università Cattolica di Milano alla fine di agosto.

Il bullismo al femminile è diverso da quello maschile: le bambine prediligono un´aggressività indiretta, non fisica, più sottile e spesso più dolorosa. Emarginano le compagne più deboli, le calunniano, le taglieggiano, le ricattano, le isolano, le dileggiano, le escludono imprigionandole in un cordone di silenzio, le fanno sentire invisibili. Esattamente come i bulli, spiega Ada Fonzi che studia il fenomeno da oltre dieci anni con ricerche sul campo condotte in sette regioni italiane, anche le bulle soffrono di irrequietezza e di aggressività indifferenziata e vivono in uno stato di disimpegno morale senza provare alcun senso di colpa. Con le loro vittime innescano un circolo vizioso: le colpiscono e le feriscono credendo di essere nel giusto e spesso i loro bersagli si convincono di meritare davvero il trattamento che gli viene riservato.

Un gioco al massacro. L´ostracismo può lasciare più lividi di un pestaggio, può farti ruzzolare giù per le scale più di uno spintone, e in questa pratica le bambine si segnalano all´avanguardia. Se il trend continuerà «entro il 2016 il cosiddetto sesso debole colmerà un altro divario: il livello di violenza raggiungerà quello solitamente espresso dai maschi», secondo lo psicologo inglese Oliver James. «È quello che io definisco il mobbing scolastico, in cui le femmine eccellono – afferma Maria Rita Parsi, psicologa e psicoterapeuta con una lunga esperienza nel mondo infantile – È una piaga dolorosissima quella del bullismo indiretto, fatto di silenzi, calunnie, esclusioni. Non ti uso una violenza fisica ma te ne uso una morale che fa molto più male. Una tortura psicologica, una forma di persecuzione che, se protratta, può avere conseguenze anche molto gravi: stress, esaurimento nervoso, disturbi alimentari e della concentrazione. E anche forme di autolesionismo».

A contribuire a veicolare questi comportamenti potrebbero ancora una volta essere alcuni cartoni animati, secondo Maria Rita Parsi: «Dopo le fate, dopo le principesse, dopo Lady Oscar si è passati ad una serie sempre più aggressiva di lottatrici e di donne guerriere che diventano modelli da imitare».

Ricalca una parola inglese – to bully, che significa angariare, tiranneggiare, fare il prepotente – il termine bullo, bullismo. Un atteggiamento in cui i bambini e le bambine italiani vantano un singolare primato, secondo dati diffusi dalla stessa Ada Fonzi: 41 scolari elementari su cento dichiarano di subire un qualche genere di prepotenza in classe contro i 15 della Spagna, i 20 del Canada e i 27 della Gran Bretagna, un paese che era funestato dal fenomeno ma in cui il governo è corso ai ripari con massicce campagne di prevenzione.

E in Italia che cosa si fa per arginare il bullismo? «Purtroppo nel nostro paese, a differenza di quanto è accaduto non solo in Inghilterra, ma anche in Svezia, in Norvegia, in Giappone, in Australia dove sono stati attivati progetti ministeriali, non c´è ancora stata una grande iniziativa nazionale, ma molte iniziative locali a cura delle singole scuole», spiega Ersilia Menesini, professore associato di psicologia dello sviluppo all´Università di Firenze e autrice di due manuali sul tema, due guide operative dal titolo «Bullismo, che fare?» (Giunti) e «Bullismo, le azioni efficaci della scuola» (Erickson).

Quali sono queste azioni efficaci? Puntare, più che sul bullo e sulla sua vittima, sulla dinamica dell´intera classe, su quelli che assistono senza intervenire, per far prendere coscienza a tutti dei rischi di certe prevaricazioni. Aprire "sportelli amici" in ogni scuola, sul modello britannico, per le piccole vittime ma anche per i maestri, che spesso sottovalutano il problema. Attivare alcuni bambini, due o tre per classe, che a turno facciano da tutor ai compagni angariati e anche da tramite con gli insegnanti. Applicare la tecnica teatrale del role playing in modo che ogni bambino si metta nei panni sia della vittima che del persecutore che di quello che assiste in modo neutrale. Affrontare l´argomento dopo la proiezione di un film o dopo la lettura di un brano letterario. Discutere con uno psicologo sulla conflittualità delle emozioni. Coinvolgere le famiglie «tenendo però presente che si tratta di un fenomeno molto delicato e complesso – avverte Menesini – Numerosi adulti infatti di mostrano di apprezzare una piccola dose di bullismo, che spesso viene visto come un modello vincente, un modo per farsi strada nella vita».

***

Analisi maschile su donne, uomini – osservazioni su violenze al femminile

– Dalla presentazione della Fiera del libro ragazzi di Bologna:

<<UN NUOVO BULLISMO

Da diversi anni, ormai, con vari risultati, le trame dei libri per ragazzi hanno affrontato il tema del bullismo, fenomeno sempre più dilagante nella società giovanile contemporanea. Abbiamo letto anche del bullismo al femminile  (ricordiamo nella scorsa edizione della Fiera “Ladre di regali” di Aidan Chambers, Edizioni Giunti).

Studi recenti hanno messo in evidenza il bullismo tra i giovanissimi (addirittura nella scuola materna). Ad un versante del fenomeno che ha risvolti concreti, duri (aggressioni, sopraffazioni fisiche, taglieggiamenti) si affianca spesso un bullismo morale, quello della persecuzione verbale, della denigrazione implacabile di quanto riguarda la personalità del perseguitato, le sue diversità caratteriali e comportamentali, additate come segno di deviazione. E’ frequente anche una discriminazione di carattere sessuale con cui bisogna fare i conti.>>

***

Sul bullismo (anche su quello femminile in minimissima parte) la polizia piemontese dice —>>>Documento in Pdf – L’analisi è fatta per motivi di programmazione di contenimento del fenomeno – temo – e tuttavia è interessante vedere qual’e’ l’interpretazione di questioni come "l’aggressività femminile non più contenuta dalle convenzioni sociali". Da notare che si fa il paragone con l’America dicendo che è avanti a noi, ma che l’Europa sta progredendo rapidamente in quella direzione.

Ostracismo –

– Ostracismo – sinonimi e contrari

Mobbing – stopmobbing

Mobbing – cosa, come, perchè

 

Posted in Omicidi sociali, Pensatoio.


5 Responses

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  1. FikaSicula says

    da Repubblica Online

    Ricerca dell’Istituto di Pediatriatra sul bullismo: “Fenomeno in crescita”
    Secondo il 26,6 per cento chi compie angherie è un tipo in gamba
    Indagine shock tra gli studenti
    Il 70% ha assistito a violenze

    Indagine shock tra gli studenti
    Il 70% ha assistito a violenze

    ROMA- Il fenomeno del bullismo nelle scuole è in costante aumento nel nostro Paese. Se nel 2005 gli adolescenti che dichiaravano di avere assistito a prepotenze erano il 65,8 per cento, oggi sono il 72. Questo è quanto emerge dall’indagine sulle abitudini e gli stili di vita degli adolescenti condotta nel 2007 dalla Società italiana di pediatria.

    Realizzata su un campione nazionale di 1.200 studenti della scuole media inferiori di età compresa fra i 12 e 14 anni, l’indagine indica che hanno assistito a episodi di bullismo soprattutto i maschi (75,6 per cento) e che il bullismo non è affatto una preprogativa maschile (59,2 per cento degli intervistati sono maschi, il 69,1 femmine).

    Il 70 per cento (pari al 62 dei maschi) giudica negativamente un bullo, ma il 26,6 per cento (il 32 per cento dei maschi), se non ha subìto personalmente prepotenze, non ha nulla da eccepire sul suo comportamento.

    In generale il bullo è considerato un tipo in gamba. Tanto che si comporta così per essere ammirato dagli amici (82 per cento dei maschi, 86 delle femmine), essere il leader del gruppo (77 per cento e 81), essere attraente (68,8 per cento e 71,2), non rischiare di essere una vittima (61 per cento). Solo secondo il 45 per cento degli intervistati il bullo è colui che si diverte alle spalle di qualcuno.

    Per il 79 per cento è giusto denunciare a un adulto gli atti di bullismo, mentre secondo il 20,5 (26 per cento dei maschi) chi lo fa è una spia. Tuttavia, se fossero loro a subire prepotenze, il 64 per cento (74 dei maschi) non lo riferirebbe nè a insegnanti nè ai genitori; il 47,3 per cento (60,4 dei maschi) si difenderebbe da solo, il 10per cento (5,4 dei maschi) informerebbe al massimo un amico e il 4,6 per cento (5,7 dei maschi) subirebbe in silenzio le prepotenze se non dovessero essere eccessive.
    (10 dicembre 2007)

  2. FikaSicula says

    E’ un contributo in lingua spagnola della sociopsicologa Barbara Biglia (E’ cofondatrice – a Barcellona – e fa parte della bella rete di donne Femact). Qui lei parla di come il mito della pacificitá femminina contribuisce al mantenimento della violenza di genere.
    ***
    Biglia B. (2005) “Desarticulando mitos sobre el pacifismo femenino para una redefinición de la violencia” 245-252. J. Sobral, G. Serrano, J. Regueiro (comp). Psicologia juridica, de la Violencia y de género. Madrid: Biblioteca nueva.
    Desarticulando mitos sobre el pacifismo femenino para una redefinición de la violencia
    Barbara Biglia
    Universitat Oberta de Catalunya
    bbiglia@uoc.edu

    Esta comunicación se desarrolla a partir de considerar que la definición de la violencia es una construcción social fundada en discursos ideológicos con los cuales la complicidad de disciplina psicológica ha sido muy fuerte. Estas metanarrativas se basan, entre otras cosas, en el mito de lo masculino como impulsivo, fuerte y violento frente a lo femenino como remisivo, pasivo y pacifista.
    Partiendo del análisis deconstructivo de las recientes crónicas, en especifico sobre las torturas de las soldadas norte-americanas en Abu Ghraib, y de los re-acutizados debates en el movimiento feminista alrededor de este mito, se quiere evidenciar como el supuesto pacifismo innato de las mujeres, repropuesto por las pensadoras esencialistas, se constituye como obstáculo frente a la lucha contra las violencias de género. Por un lado, quita a las mujeres toda su agencia, victimizándolas e infantilizándolas, por otro, quita responsabilidad a la sociedad, transformando las experiencias de malos tratos en casos de excepcionalidad.
    El reconocer que la violencia no es patrimonio innato de un sexo pero que, en nuestra sociedad heteropatriarcal, está profundamente generizada, nos permitiría, desarrollar prácticas y políticas integrales contra las violencias de genero, sean esta de tipo domestico, social o institucional.
    Se considera que desde la psicología social crítica, comprometiéndose con las colectividades co-investigadoras y poniendo en práctica las enseñanzas metodológicas del trabajo de las epistemólogas feministas, se puede incidir en este sentido.
    Palabras claves: violencia de género, psicología crítica, epistemología feminista, reconceptualizaciones, Abu Ghraib
    Área: 11, Psicología social y género
    En el symposium: Debates alrededor de las violencias de género.
    Desarticulando mitos sobre el pacifismo femenino para una redefinición de la violencia
    Barbara Biglia
    bbiglia@uoc.edu

    En un reciente trabajo Doménech y Iñiguez (2002) evidencian como la psicología ha basado el estudio de la agresividad en tres supuestos (asumir que hay que explicarla a nivel individual, que es perjudicial para la sociedad y ‘los violentos’ atentan contra el poder establecido y finalmente que el control y la represión de la violencia son objetivos básicos) que “evitan cualquier cuestionamiento del orden social imperante [por lo tanto] deconstruir agresividad y violencia y mostrarlas como productos de prácticas objetivizantes se convierte, pues en una precaución necesaria y previa a todo intento de análisis de la cuestión”.
    Esta misma necesidad, viene subrayada en diferentes arenas y el enfoque que se reclama subyace en muchos de los actuales trabajos construccionistas y feministas sobre las violencias de género. No obstante, pocos esfuerzos se han concretizado todavía para un análisis deconstructivo explícito y profundo. Con la intención de acercarme a esta complejidad y animada por una conmistura de atrevimiento e ingenuidad, he realizado recientemente unas primeras pinceladas en esta dirección (Biglia, 2005).
    La necesidad de reenfocar las violencias de género bajo nuevos prismas interpretativos me ha llevado a evidenciar la importancia que tienen en su desenlace, perpetración y justificación los proceso de naturalización y normativización antinómica de los géneros y de las relaciones generizadas (Butler, 1990). Contemporáneamente se me han hecho patente unos ‘mitos prescriptivos’ alrededor de la ‘feminidad’ que, naturalizando la posición subalterna de las personas que son identificadas como mujeres, las hace con más frecuencia blanco de violencias de género. Estos incluyen ver a los sujetos inscriptos dentro del género femenino como: ‘seres propiedad de’; individualidades incompletas; dependientes de una obligatoria maternidad para poder ser; cosas y/o cuerpos y finalmente sujetos frágiles ajenos al ejercicio de la violencia. Estos mitos permiten que las prácticas de violencias de género en nuestras sociedades tengan un carácter normativo, normativizante y normal en lugar de ser hechos excepcionales, como harían pensar las prácticas de gobernabilidad (Marugan, Vega, 2003) puestas en juego para limitar los efectos. (Biglia, 2005)
    Partiendo de la idea que desmontar estos mitos se constituye como un paso fundamental para la superación de las violencias de género, en este trabajo quiero centrarme en el de la generización de la violencia.
    La tesis que aquí se quiere enunciar es que reconocer que la violencia no es patrimonio innato de un sexo pero, en nuestra sociedad heteropatriarcal, está profundamente generizada nos permite, entre otras cosas:
    • Acallar aquellos que niegan la existencia de violencia generizadas en base a la ‘constatación’ de algún caso de violencia domestica por parte de mujeres.
    • Entender que ‘violencia’ es un concepto vago cuyo sentido depende del contexto y de los presupuestos políticos con las que lo analizamos (Biglia, 2005).
    • Devolver valor político al trabajo de las mujeres y colectivos que luchan en contra de las guerras y de los usos de la violencia para someter a otros (hooks, 2000) .
    • Desarrollar prácticas y políticas integrales contra las violencias de genero, sean esta de tipo domestico, social o institucional (Bonet, 2005).
    • Analizar las similitudes y diferencias con otros tipos de violencias como ahora las de tipo racista y/o adultista y desarrollar prácticas para su desmantelamiento.
    En este contexto se cree que desde la psicología social crítica se puede incidir asumiendo compromiso con las colectividades co-investigadoras y poniendo en práctica las enseñanzas metodológicas del trabajo de las epistemólogas feministas. Es importante denunciar la generalización de la violencia “Sin que [esto] implique caer en una construcción de una naturaleza femenina de carácter más bondadoso, o pacífico, o solidario, en base a la diferencia sexual, ni a negar la posibilidad de agresión y violencia por parte de las mujeres.” (Cabruja, 2004)

    Sexo débil
    El género femenino viene generalmente definido como ‘el sexo débil’ en cuanto la supuesta inferioridad física de las mujeres se generaliza al conjunto de la persona. Hay muchos detalles que podrían servir para desmentir esta creencia. Por ejemplo muchos médicos afirman que las mujeres tienen más resistencia al dolor en cuanto su ‘programación genética’ las prepararía para la posibilidad de parir. Así mismo en las situaciones sociales más difíciles es común ver mujeres que, en lugar de llorar por lo perdido se levantan las mangas y se ponen a trabajar (por ejemplo las mujeres de Caranguejo que, reconstruyen continuamente las favelas en la que viven después de cada incursión violenta de la policía: Neuhouser, 1995).
    Finalmente las tareas desarrolladas por las correos de los partisanos, la tenacidad de las madres de la plaza de Mayo, el atrevimientos de las chicas de los ghettos judíos en el procurarse las armas, las mapuches que se han enfrentado a la Repsol para la defensa de su tierra, la capacidad de sobrevivir de las niñas prostitutas tailandesas, la fuerza rompedora de muchas sobrevivientes de la violencia domestica, solo para citar algunas experiencias deberían dejar patente la inconsistencia de este mito.
    No obstante no sólo el mito persiste, sino sigue incluso siendo reaclamado en cuanto elemento diferencial positivo por algunas corrientes feministas. Las esencialistas de hecho pusieron el acento en la naturalidad pacífica de las mujeres, y supusieron que por esto su ingreso en los espacios masculinizados fuera suficiente para ‘humanizarlos’. Esto apoyó los mitos patriarcales sobre los que se basan los estados en el cual sus cuerpos maternales “representan la seguridad dentro de los confines de su cuerpos [la madre patria]. Ella es abrazada por la glorificación de la feminidad. Ella representa la moralidad en sí misma” (Eisenstein, 2000:43)
    Esta dinámica lleva a considerarnos víctimas pasivas ante de los incontrolables arrebatos violentos masculinos. Construirnos como sujetos frágiles permite aniquilar parcialmente nuestra agencia personal y colectiva, recrearnos como dependientes y usar de manera generalizada la instigación del miedo, a través de amenazas implícitas, como forma de control social. En este sentido, por ejemplo la amenaza de violación ha permitido controlar nuestros movimientos, nuestras relaciones y en sustancia limitar de manera impresionante nuestra libertad. Directamente relacionado con esto la negación de la posibilidad de ser violentas (Bhavnani, Davis,1996) ha permitido encorsetarnos hacia la pasividad y reprimir de forma muy fuerte (material o simbólicamente) cualquier comportamiento no conforme con esta ‘realidad’. Así por ejemplo vienen doblemente reprimidas las usuarias de droga (Mountian, 2005), las que cumplen reatos se consideran como transgresoras de la feminidad (Imaz, 2005). Esto lleva a una general auto represión de la expresión de la violencia. Así chicas que han pasado por experiencias de violaciones tempranas y que, no sabiendo como reaccionar descargan su agresividad sobre sus cuerpos, vuelven, en una trágica espiral, a ser blanco de nuevas violencias de género por parte de los poderes psiquiátricos que las etiquetan y tratan como personas con ‘Trastornos Limites de la Personalidad’ (Shaw, 2005).

    Mujeres violentas: el caso de Abu Ghraib
    La lógica de la igualdad ha llevado en los últimos decenios a la incorporación de las mujeres en muchos ejércitos nacionales . No obstante estos espacios fueron claramente construidos de manera heteropatriarcal y no tomando en consideración las repetidas denuncias que muestran “como los problemas de género, poder y control son magnificados en los espacios militares, haciendo que la violencia domestica sea un problema aun más difuso y complicado que entre civiles” (Elliston, Lutz, 2003) la ilusión de que estos procesos llevasen a ejércitos menos abusadores se mantuvo viva en muchos sectores.
    Por esto las fotografías de las torturas perpetradas por chicas del ejército norteamericano hacia detenidos políticos en Abu Ghraib parecieron desmontar toda utopía. Barbara Ehrenreich (2004) reconociendo su sorpresa afirma “Lo que necesitamos es un nuevo tipo de feminismo fuerte y sin falsas ilusiones. Las mujeres no cambian las instituciones simplemente incorporándose a ellas, sino decidiendo luchar a conciencia para cambiarlas. […] No es suficiente el ser iguales a los hombres cuando los hombres actúan como bestias.”
    Su trabajo causó muchos debates y críticas en el seno del movimiento feminista. En primer lugar las feministas postmodernas, juntas con las más jóvenes, denunciaron la superficialidad de esta mirada ingenua y recordaron como esto no era ni mucho menos el primer episodio con estas connotaciones. Por ejemplo las guardianas en los campos de exterminio de las SS “sabían de las torturas, eran activas en primera persona en las palizas, ejercitaban su rol de manera absolutamente conciente y persecutoria.” (Koch, 1995:37).
    Lo que habría que preguntarse por lo tanto es ¿porque en este momento se difunden tantas informaciones de este tipo? ¿qué esconden? ¿qué quieren transmitir?
    En primer lugar hay que ver como por un lado estas fotos han satisfecho el morbo de vouyeurs de todo el mundo que tapándose los ojos para mirar entre los dedos iban gritando escandalizados contra este ‘oprobio de natura’. Cosa que ha permitido silenciar la protesta contra quienes adiestran y mandan a los soldados a cometer tales atrocidades y olvidar la perpetración de las torturas masivas de lugares como la prisión de Guantánamo. Por otro ha sido utilizado para una crítica superficial del feminismo volviendo a animar los viejos miedos hacia las que supuestamente querían anihilar y someter a los hombres.
    Finalmente, aspecto particularmente importante en esta ponencia, no ha sido el resultado de procesos de igualdad de género sino ha sido la expresión de violencias de género heteropatriarcal y racista. Durante la guerra en la ex Yugoslavia las violaciones étnicas masivas y los continuos abusos sexuales contra las mujeres en los campos tuvieron un fuerte eco internacional. Sin embargo poco o nada se supo de los frecuentes abusos homosexuales en cuanto estos hubiesen desestabilizados las nociones de género a la base de la constitución del estado (Eisentstein, 2000). En Abu Ghraib hombres musulmanes son humillados sexualmente (o sea tratados como mujeres) por mujeres blancas de clase trabajadora mientras los abusos y violaciones de prisioneras musulmanas por parte de soldados estadounidenses quedan silenciadas. “Este intercambio y transposición de género no toca el género masculinizado y racializado. Solo ha cambiado el sexo, el uniforme es el mismo. Un/a comandante masculinizado/a o un/a colaborador/a imperial puede ser macho o hembra mientras que mujeres blancas parezcan como constructores masculinistas de un imperio y hombres de piel oscura parezcan mujeres y maricas.” (Eisentstain, 2004) Así, sigue la autora, asistimos a una nueva forma de utilización de las hembras para proteger la normatividad heterosexual por parte del misógino hiper-imperialismo/masculinismo. En estos actos no se asistiría por lo tanto al uso de un poder y privilegio por parte de las soldadas sino a una muestra del poder imperial de las mujeres blancas sobre los hombres musulmanes. Así, en polémica con Ehrenreich concluye “aquí no se ve la igualdad de géneros, sólo la depravación de género, o en el mejor de los casos, una igualdad reformada que nadie desea.” (Eisentstein, 2004). Esta situación no es por lo tanto en ningún modo expresión de una difuminación de los géneros con respecto a la violencia sino representa una vez más el uso de una retórica racista, heteropatriarcal y misógina, así como lo hace la negación de la agencia de las mujeres Iraquíes para justificar procesos de colonización de sus tierras por parte de los ejércitos estadounidenses (Zangara, 2004). Para superar estas lecturas deberíamos, parafraseando la propuesta de Antonella Corsani (2003), pensar al devenir feminista de las micropolíticas de los saberes como acción contra las violencias de género y los saberes sobra las que se fundan.
    Mujeres rebeldes: la toma de la agencia política
    En la anterior sección hemos ‘desvelado’ como comportamientos violentos pueden ser reproducidos por ambos géneros. Sin embargo, la atrocidad del ejemplo que hemos presentado, puede llevarnos a considerar que la desvinculación de cualquier forma de violencia debería ser finalidad de los trabajos feministas.
    Muy al contrario, lo que se quiere sostener en este apartado es que los repertorios agresivos y violentos, no responden sólo a patrones opresivos sino que pueden ser útiles para la defensa delante de situaciones de abuso y es más que las personas generizadas como mujeres, rechazando el pacifismo obligatorio, podrán rehacerse de su agencia. En este sentido deviene importante, discutir acerca de qué me refiero cuando hablo de reapropiarse de la posibilidad de ser violentas, cosa que obviamente no pasa para auspiciar la reproducción de violencias diseñadas en el marco de la estructura heteropatriarcal como las de Abu Ghraib. Así mismo, en primer lugar, es importante discriminar entre actos y relaciones violentas. Los primeros emplean métodos violentos pero no siempre con una finalidad de dominio o destrucción, las segundas se basan en una situación de desigualdad y de abuso de poder y por lo tanto no deberían nunca ser reivindicados como repertorios posibles. En segundo lugar es fundamental re-pensar que es la violencia dado que se nos ofrecen múltiples interpretaciones pero, a mi entender, ninguna global diseñada en el marco teórico del feminismo postmoderno. Si la violencia produce quebranto de las normas sociales, las legislaciones deberían ayudarnos en su comprensión. Sin embargo aparecen interpretaciones cuanto menos sorprendentes: así, según la nueva ley en Florida (EEUU), los ciudadanos podrán disparar en la calle si se sienten agredidos pero, contemporáneamente si una mujer mata a su maltratador será juzgada como homicida.
    Hay que alejarnos de estas definiciones situadas en el lugar del poder. Esto significa que para la comprensión de la violencia hay que subvertir los tres supuestos citados por Doménech e Iñiguez (2002). La mayoría de actos violentos, incluso los que cumple una persona sobre otra, no tienen una causa individual sino son el resultado de la encadenación de procesos sociales, esto nos lleva a entender, por ejemplo, que las violaciones no son realizadas por ‘enfermos mentales’ sino entran dentro de la lógica social de dominación sexual de un género sobre otro. No todas las expresiones de violencia son socialmente negativas, por ejemplo la agresividad y las violencias de las mujeres chiapanecas contra los militares que encubrieron la masacre de Acteal (en la foto Enero de 1998) tratando de evitar que entraran en la población tenia un claro carácter de defensa social. Finalmente el control y la represión de la violencia por parte del estado se constituyen a su vez en violencia y abuso de poderes en el momento en el que el sistema se basa en desigualdades sociales para mantenerse, así en un estado heteropatriarcal, los efectos de la represión son frecuentemente violencias de género. Para citar sólo algunos ejemplos en este sentido: se reprimen las madres de las niñas a las que se práctica la ablación sin considerar la responsabilidad del entorno masculino en este proceso; las mujeres encarceladas están más estigmatizadas de los hombres en las mismas condiciones; centenares de mujeres mueren cada año por la negación del derecho al aborto.
    Estas razones, juntamente con la constatación que el “imaginario de la feminidad, tiene efectos en todo lo que se construye como pasividad femenina, que si se rompe, opera como excusa de provocación de violencia, pues configura la sumisión social y sexual” (Cabruja, 2004), dejan a mi entender extremamente patente la necesidad de romper con nuestra representación como seres débiles, pacíficos, dependientes y sumisos. Reivindicar la inclusión de los repertorios violentos dentro de nuestras posibilidades de acción no significa hacer una apología de su uso. Muy al contrario quiere decir: que nuestras actuaciones pacificas son el resultado de una opción política, que no estamos dispuesta a delegar nuestra agencia, que no necesitamos la protección de un estado padre, que no justificaremos como mandato natural que un varón ejerza violencias física o psicológica sobre nuestros cuerpos. Significa también permitirnos la invención de formas colectivas de violencias no heteropatriarcales a usar con imaginación en cada momento que sea necesario.

    Referencias:

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    Corsani A. (2003) “Politiques (post) féministes des multitudes contre la logique de guerre” Presentado a la Table ronde : La multitude contre la guerre Bruxelles le 26 Avril 2003. En linea en : http://multitudes.samizdat.net/article.php3?id_article=1322
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  3. Cris says

    Da Repubblica delle donne (agosto 2003)

    COMPORTAMENTI L’odio delle donne
    Cattive. Una contro l’altra. Ma nessuno ne parla. A rompere il silenzio è adesso è la femminista Phillis Chesler di M. G. Meda
    ***
    Una storia desolante al femminile. La signora americana X sta per divorziare. Il marito l’ha lasciata per un’altra donna: la loro fidata, preziosa e amata baby sitter. E fin qui il danno. Adesso la beffa: il marito chiede la custodia dei figli perché “per il loro bene e benessere psicologico, è meglio che rimangano con la donna che li ha accuditi sin dalla nascita, e quindi li conosce meglio”. Commento delle amiche della signora X: “The babysitter is a slut!”, “la babysitter è una sgualdrina”. Anche il marito è colpevole e non ha scuse, però, si sa, è un uomo. Altra storia, ancora più desolante: nel sistema giudiziario americano, il pubblico ministero e gli avvocati della difesa possono selezionare – e in certi casi scartare – le persone che comporranno la giuria. Questo per evitare di ritrovarsi con dei giurati ostili, o comunque prevenuti nei confronti del caso dibattuto. Spesso, nei processi per stupro, il pubblico ministero ricuserà più facilmente le donne perché statisticamente giudicano con maggiore severità le vittime di stupro. Il che sottintende: forse le vittime se lo sono andate a cercare. Colpi bassi La lista di storie come queste è infinita e incalcolabile. Ogni donna ha subito un’umiliazione, è stata vittima di un colpo basso, ha sopportato la cattiveria di un’altra donna. E a sua volta ha infierito su un’altra vittima. In una sorta di circolo vizioso dove tutte sono al contempo vittima e carnefice. Eppure, nessuno ne parla. L’omertà che regna sulla realtà dei rapporti tra donne è forse paragonabile solo a quella mafiosa. E come in ogni sistema mafioso, di tanto in tanto sbuca un pentito, che vuota il sacco. È il caso della femminista e ricercatrice americana Phillis Chesler, autrice di un libro che ha fatto scalpore negli Stati Uniti, e che esce per Mondadori in questi giorni, dal quale sono tratte le due storie sopra citate. Il titolo italiano è Donna contro donna mentre il titolo originale, più controverso è: Woman inhumanity to woman, l’inumanità della donna contro la donna. Forse il titolo è stato pensato proprio per stimolare delle reazioni. E per provocare. Infatti Chesler stessa racconta come molte delle sue amiche femministe le abbiano sconsigliato di pubblicare questo libro. Rifiutando di leggerlo, minacciando di non recensirlo ed esortandola a non sparlare del movimento, delle sisters, perché questo servirebbe gli interessi del nemico storico e comune: l’uomo. Infatti, Chesler spiega nell’introduzione che anche lei, come la maggioranza delle femministe e docenti colte, ha preferito per lunghi anni “aggrapparsi a una visione della donna assurta a vittima perfetta senza mai osare mettere in discussione il modello femminista di una donna moralmente superiore”. Chesler oggi contesta questo modello perché “la donna non dovrebbe essere costretta a dimostrare di essere migliore di un uomo al fine di ottenere gli stessi suoi diritti e la parità”. La diretta conseguenza di questa conclusione è di fare luce sulla natura – troppo spesso crudele – dei rapporti fra donne. Secondo Chesler riconoscere che le donne non solo possono essere violente, ma che spesso possono esserlo contro le altre donne, è un “problema da capire e da risolvere”, un atto necessario nel processo di emancipazione femminile. Sisters che uccidono Donna contro donna è il risultato di 20 anni di ricerche: Phillis Chesler ha intervistato un vasto gruppo eterogeneo di donne di varie età e recensito centinaia di opere. Il risultato è un volume denso che propone testimonianze e citazioni mescolate alle riflessioni e alle confessioni dell’autrice stessa. Un’opera tanto ricca e complessa quanto l’argomento trattato, che non dà risposte ma solleva molte dolorose domande. Cristallizzate in una frase della femminista Ti-Grace Atkinson citata da Chesler “La Sorellanza è potente – può uccidere le sorelle”. Il libro di Phillis Chesler è uscito negli Stati Uniti in contemporanea a un nutrito numero di saggi che si concentrano sui comportamenti delle adolescenti. Anche i ricercatori statunitensi hanno scoperto che le ragazze comprese nella classe di età dagli 11 ai 17 anni sono oggi estremamente violente e aggressive nei confronti delle loro compagne di classe. Gli studi fanno riferimento a un’indagine condotta oltre 15 anni fa dalla psicologa finlandese Kaj Björkqvist, dove si confrontavano i comportamenti dei maschi e delle femmine suddivisi in varie classi di età in una ventina di Paesi. Al di là delle ovvie differenze culturali, si osservava che durante l’infanzia maschi e femmine esprimono un’aggressività e una violenza fisica molto simili. Ossia, se i maschietti si picchiano con il camion dei pompieri, le femminucce si aggrediscono a colpi di Barbie sulla testa. A partire dai 5-6 anni i comportamenti diventano radicalmente opposti: i maschi continuano a risolvere i loro conflitti anche con la forza fisica, mentre le femmine “interiorizzano” il conflitto e lo risolvono quasi esclusivamente con attacchi verbali e indiretti. La loro “sorellanza”, il modo di condividere tutti i segreti diventano un’arma a doppio taglio da usare in caso di necessità. Per Chesler il loro bisogno di piacere, di sentirsi accettate e amate all’interno di un gruppo è tale che le adolescenti praticano una violenta autocensura per apparire buone e gentili, soccombendo alla “tyranny of niceness”, “la tirannia della gentilezza”. Per tanti ricercatori americani questa violenza psicologica tra adolescenti può avere effetti devastanti sulla psiche delle vittime e condurre, nei casi estremi, al suicidio. Quindi in molti suggeriscono di affrontarla e combatterla con gli stessi metodi usati per denunciare e risolvere il problema della violenza domestica. Una ferocia storica Fingere di accorgersi oggi della violenza al femminile equivale a scoprire l’acqua calda. La storia dell’umanità è costellata di donne feroci. La storica Arlette Farge, ricercatrice al Cnrs, specialista della violenza tra il XVI e il XVIII secolo riassume: “Senza parlare degli intrighi di corte, dell’impietosa eliminazione fisica dei figli delle rivali e delle rivali stesse, basta osservare il comportamento delle classi popolari. Durante le guerre di religione e durante i grandi moti le donne erano in prima linea nell’assalto alle barricate e nelle razzie. C’era anche una volontà degli uomini di usare le donne perché venivano punite meno severamente, ma la donne durante quei tre secoli hanno dimostrato un’aggressività e una violenza pari a quella degli uomini. È interessante notare, per esempio, che durante le guerre di religione, le donne partecipavano agli scontri. E le donne cattoliche si accanivano sui corpi dei nemici caduti con una ferocia estrema per impedire all’anima di lasciare il corpo. Nello stesso contesto le donne protestanti – più pragmatiche, educate dalla Bibbia – si accontentavano di uccidere lasciando intatto il corpo”. Proviamo quindi a dare per scontata una certa forma di violenza intrinseca alla natura umana e che si manifesta a seconda dei periodi storici, delle situazioni di necessità e della matrice culturale. Ma questo non ci spiega la violenza delle donne nei confronti delle donne. E forse una risposta la troviamo nel libro di Phillis Chesler, nel capitolo dedicato alle sorelle biologiche. Le testimonianze raccolte dalla Chesler rivelano una situazione generale di grande desolazione e di estrema competizione. Una competizione per vincere l’amore dei genitori e conquistare una posizione sociale che inizia nell’infanzia e continuerà fino alla morte. Quello che colpisce però è che tutte le intervistate affermano di amare la propria sorella, di stimarla, di ammirarla o di volerla proteggere. Il lato emotivo Ma dietro le parole, in filigrana, emergono i dissensi, il senso di competizione, l’amarezza. Audrey Hanssen, consulente e life coach, conferma questo dato, riscontrato tra le sue clienti. “La figlia unica, in generale, vive la competizione in modo molto più sano. Il rapporto è diretto, direi quasi maschile, proprio perché non ha conosciuto nell’infanzia il problema di doversi confrontare con una sua simile, sorella ma anche rivale. Le donne fanno emergere sempre un lato emotivo, cercando dei legami affettivi anche nell’ambiente di lavoro. Ma così perdono la razionalità e l’umiltà necessarie per capire che non si può essere amate da tutti. Oggi possiamo forse trovare una parvenza di solidarietà femminile, di sorellanza, nelle classi operaie, dove esistono ancora rivendicazioni comuni. Ma, nelle sfere del potere, oggi la donna non ha più bisogno di allearsi per rivendicare certi diritti. Questi diritti sono stati guadagnati e sono ormai acquisiti”. L’oppressione sociale E forse è proprio questo il punto. Abbiamo ancora bisogno delle “sorelle”? O forse, basandoci sul libro della Chesler dobbiamo fare una sana autocritica e cercare di inventare una nuova forma di femminismo? “La solidarietà femminile si è costruita e nutrita sull’infelicità delle donne”, nota la storica e femminista Marie-Jo Bonnet. “Abbiamo fatto causa comune perché unite contro l’oppressione esercitata da una società costruita sul modello patriarcale. Noi donne siamo state vittime di una violenza fisica e psicologica che per secoli ha negato la nostra affermazione. E probabilmente questo ci ha rese più spietate nei confronti delle altre donne. Credo che oggi le donne stiano attraversando un momento di affermazione della propria individualità, della propria personalità e questo ci porterà verso una nuova generazione che cercherà di elaborare nuovi valori soprattutto in campo spirituale e in quello artistico. Dove si farà presente all’uomo che si può imitarlo ma anche inventare un mondo diverso”. Phillis Chesler termina il libro suggerendo a tutte le donne un codice di comportamento. Tra i consigli: accettare che anche le femmine, come i maschi, possano essere violente e crudeli; capire e accettare il lato oscuro in ognuna di noi; fare sforzi quotidiani per migliorare i rapporti; amare il prossimo, particolarmente di sesso femminile; imparare a risolvere i conflitti in modo diretto e non colpendo alle spalle, rinunciare al pettegolezzo e così via. Intenzioni lodevoli in un ideale migliore dei mondi. Nell’attesa, come misura di difesa personale, le sorelle dovrebbero forse affilare i coltelli?

    La sconfitta dell’uomo di Maria Grazia Meda La donna occidentale del XXI secolo è ancora la Vittima Perfetta? Cosa hanno prodotto le lotte femministe per la liberazione sessuale e per la parità dei sessi? Oggi l’aborto, la fecondazione assistita, lo stupro, le molestie sessuali, il divorzio, la prostituzione, sono temi definiti da un quadro legale preciso. Ma cosa ci rivelano queste leggi sulla nostra società? Sono alcune delle domande che si è posta Marcela Iacub, ricercatrice e giurista di origine argentina, oggi residente in Francia. Nel giro di un anno la studiosa, 39 anni, ha scritto tre saggi che hanno scatenato grosse polemiche e le hanno inimicato parte delle femministe francesi. Ma il dibattito aperto merita di essere seguito. Nel suo libro più recente e controverso, Qu’avez-vous fait de la libération sexuelle?, Iacub mette in scena una giovane Candide un po’ svampita, che interroga amiche, familiari ed esperti per capire e a volte stigmatizzare i controsensi delle nostre leggi in materia di sesso. Ne viene fuori un’opera che solleva molte questioni. E che mette a disagio perché nel suo lavoro Marcela Iacub elabora una teoria difficile da proporre e ancor meno da difendere: molte delle leggi attuali non trattano allo stesso modo uomini e donne. Anzi, sono decisamente a favore delle donne. “Le femministe francesi mi danno della collaborazionista”, commenta Iacub con un’alzata di spalle, “ma ormai mi sono abituata a questo genere di insulti”. La tesi della Iacub è la seguente: negli ultimi trent’anni si è assistito a un totale ribaltamento dei ruoli all’interno della famiglia. Con conseguenze devastanti per il sesso maschile. “Nel XIX secolo la famiglia si strutturava intorno a un uomo, il capofamiglia, e a una donna, la moglie o riproduttrice”, spiega. “I ruoli erano precisi e chiari, ovviamente discriminanti nei confronti della donna che non aveva diritti. Oggi, nel nucleo familiare il pater familias è una donna. È lei che detiene i diritti. Abbiamo formulato delle leggi e dei diritti fondandoli su delle supposte competenze biologiche. Oggi la maternità è una questione di scelta, mentre la paternità è diventata un obbligo. La donna può scegliere di fare o meno un figlio, di non portare a termine una gravidanza, di non riconoscere un figlio, ma anche di reclamarne la custodia, che quasi sempre ottiene, in caso di divorzio”. Per un uomo è diverso. “Un uomo non può intervenire nella decisione di un’interruzione volontaria di gravidanza ma è costretto a riconoscere sempre e comunque un figlio di cui magari non conosceva neanche l’esistenza. In caso di divorzio deve pagare alimenti di entità spesso ingiustificata, ma ottiene difficilmente la custodia. Se questa non è discriminazione…”. In effetti la scrittrice critica una situazione che si ritiene politicamente scorretto affrontare: la conquista della libertà sessuale (intesa in questo senso come riappropriazione del proprio corpo) che si è fatta a detrimento degli uomini. Secondo lei i due sessi, invece di arrivare a elaborare una vera parità, sarebbero stati semplicemente capaci di ribaltare alcuni diritti e doveri, senza però cancellare le differenze. Con un esempio molto semplice Iacub riesce a spiegare bene il problema: “Una donna, single, può decidere di fare un figlio “unilateralmente” con o senza il consenso del partner il quale non potrà neanche riconoscere il futuro bambino. Un uomo single, se desidera diventare padre dovrà andare negli Stati Uniti, comprare un utero, aspettare la fine della gravidanza e riportare in Europa il neonato riconosciuto da una legge americana”. Ed è sempre intorno alla procreazione, ma questa volta assistita, che Iacub lancia un altro sasso nello stagno paragonandola al delitto perfetto: “Anche quando si promulgano delle leggi che regolano le varie tecniche di procreazione assistita, ci si comporta come se l’atto sessuale reale, ovvero l’atto del concepimento tra due persone di sesso opposto, avvenisse per davvero, cercando di mascherarne l’artificialità. Ecco perché questa tecnica è ammessa solo nel caso di una coppia eterosessuale che deve rispondere a requisiti che mai ci si sognerebbe di imporre a una coppia fertile. Ed ecco perché una coppia omosessuale non ha il diritto di procreare, in quanto prova vivente dell’artificialità del processo”. Per Iacub queste leggi riflettono lo slittamento progressivo della società verso la sacralizzazione dell’atto di procreazione, che viene a riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa della famiglia. “La società costruiva i propri valori intorno alla famiglia patriarcale, oggi che questo modello è scomparso, la procreazione diventa la nuova forma costitutiva della società”. Se accettiamo questo postulato, è facile capire che l’atto sessuale non può essere concepito separato dalla maternità. E qui Marcela Iacub lancia un sasso ancora più pesante nello stagno: la sacralizzazione del sesso ha spinto i legislatori a concepire delle leggi che puniscono in modo sproporzionato le violenze sessuali. “Le recenti leggi in materia di stupro prevedono pene di molto superiori a un omicidio colposo: ma come possiamo accettare che il “prezzo” di una vita sia inferiore al prezzo di una violenza sessuale? In quale società si può accettare che il valore più importante e assoluto non sia la vita?”. Con queste affermazioni Iacub si è fatta immediatamente accusare di difendere gli stupratori, ma forse bisognerebbe prestarle attenzione: “Che cosa vogliamo proteggere con le leggi sulle violenze sessuali e lo stupro? In effetti, trent’anni fa, parallelamente alla liberazione sessuale, la sessualità avrebbe potuto scomparire come problema giuridico specifico. E invece, con motivazioni diametralmente opposte, femministe e conservatori hanno voluto mantenere la sfera della sessualità come qualcosa a parte, attinente alla psiche. Dunque oggi, una violenza sessuale è valutata in base al danno psicologico. Il crimine sessuale è diventato un crimine psicologico, per estensione incommensurabile. Quindi la pena da scontare deve essere particolarmente lunga per essere “visibile” e proporzionata alla “sofferenza psicologica”. Ma questo implica una deriva pericolosa della maniera di concepire il diritto: la distanza sempre più grande tra la legge e l’approccio psicologico della valutazione delle pene”. Per Iacub l’emergere, nel diritto, di termini quali psicologico, mentale e morale segnala una trasformazione politica importante: l’intervento dello Stato nella sfera più privata dell’essere umano, cioè la psiche. Come se lo Stato volesse farsi garante -arbitrariamente – del benessere psicologico dell’individuo. “Fino a oggi, nei Paesi occidentali lo Stato ha cercato di garantire la vita, la salute, la vecchiaia, insomma, un certo benessere fisico. Oggi, lo Stato cerca di proteggere la psiche. Basta osservare come vengono mediatizzati e giudicati i crimini sessuali, ma anche le molestie sessuali, le pressioni psicologiche sul posto di lavoro, o sul vicino che ti importuna, le nuove leggi sulle sette. Come se tutto d’un tratto si chiedesse allo Stato non solo di punire i “cattivi” ma di trasformarli in buoni. Insomma assistiamo alla volontà di trasformare le persona invece di accontentarci di fissare delle regole e di punire chi le trasgredisce”. Forse le femministe francesi non hanno ascoltato fino in fondo Marcela Iacub, o forse hanno fatto confusione di termini: Iacub non è una collaborazionista, sta organizzando la resistenza.

  4. FikaSicula says

    Da ALIAS del 13/1/07

    LE RAGAZZE DELLA RIVOLTA
    di Emilio Quadrelli
    PARIGI Le Blanc Mesnilin, fine novembre 2005, ore 16. Improvvisamente da una curva non particolarmente agevole sbuca a tutta velocità una Bmw ultimo modello grigio metallizzato.
    La curva è impegnativa e la velocità sostenuta non aiuta, l’autista sembra perderne il controllo. La parte posteriore dell’auto comincia a girarsi per dare vita al più classico dei testa-coda. L’incidente appare inevitabile. Con non poca bravura e freddezza il conducente, con un colpo di controsterzo opportuno e dato al momento giusto, riprende il controllo dell’auto e la conduce in una stradina secondaria. Mentre il rumore della frenata è ancora nell’aria, il passeggero seduto al suo fianco salta velocemente fuori dall’abitacolo e, impugnando a due mani una pistola di grosso calibro, dall’aspetto una Browing bifilare calibro 9 parabellum, prende di mira la strada. Subito dopo l’autista scende e i due si dileguano per una delle strade adiacenti.
    Dopo pochi secondi sopraggiungono tre auto della polizia che, alla vista della Bmw ferma, iniziano a far stridere i freni. I più rapidi, mentre le auto sono ancora in corsa, saltano giù e armi alla mano la circondano. Ma tutto risulta inutile, nell’auto non c’è più nessuno. Imprecando si lanciano nelle vie circostanti in cerca dei fuggiaschi. Ben presto recedono, la caccia non ha avuto buon esito. Tutto questo potrebbe sembrare poco interessante, una normale «storia sbagliata» come avrebbe detto De André, se i fuggitivi, con non poca sorpresa, in realtà non fossero due donne e per di più velate. Due ragazze dall’aspetto molto giovane, vestite con anfibi militari, jeans, felpe e giubbotto ma con il velo. Nello stesso periodo, mentre gran parte dei «quartieri popolari» francesi andavano in fiamme, parti non secondarie della cosiddetta società civile «scoprivano» improvvisamente la deprecabile condizione in cui le donne, a causa del machismo dilagante in banlieue, erano costrette a vivere. Donne sottoposte ad ogni forma di brutalità e vessazioni da parte dei maschi banlieuesards i quali, in preda a perenni eccessi testosteronici, usavano nei loro confronti gli stessi riguardi riservati alle automobili. Ciò che continuamente emergeva era un ruolo totalmente subordinato delle donne di banlieues. Una retorica che sembra avere convinto i più, ritenendo persino inutile tentare un qualche approccio empirico alla questione. È parso pertanto il caso di scendere in strada per vedere se le sentenze emesse dagli abitanti della «piccola Parigi» avessero un qualche riscontro tra gli abitanti delle periferie e, pur con i limiti che un piccolo e modesto reportage inevitabilmente comporta, a uscirne è stato un quadro decisamente diverso. Nelle vicende dell’autunno francese, in realtà, le donne un qualche ruolo e non sempre secondario lo hanno avuto. Del resto, chiunque conosca minimamente come si svolge la vita economica e sociale in banlieue sa che il peso delle donne nella gestione concreta della vita quotidiana è addirittura strategico. Certo, è un ruolo che poco o nulla ha a che vedere con i dibattiti che appassionano la società legittima o gli ambiti degli woman’s studies. «Quote rosa» e «pari opportunità» alle donne di banlieues non dicono molto così come le loro «affinità elettive»hanno ben poco a che spartire con le riflessioni teoriche di Judith Revel ma, piuttosto, sembrano avere non poche cose in comune con le pratiche di Assata Shakur ma proprio per questo una ricerca on the road al suo interno è risultata tutt’altro che priva di interesse. Il viaggio ha inizio con l’incontro di M. B. e il suo nutrito e agguerrito gruppo di donne black. Lei, in particolare, è politicamente attiva, e non da ieri, nei «quartieri popolari» e nel corso della rivolta ha svolto un ruolo di «direzione» non proprio secondario. Significativamente, ottenendo l’approvazione di tutto il gruppo, non accetta un’intervista incentrata sulla «questione femminile» ma gioca questa, pur riconoscendone una certa «particolarità», nell’insieme della «questione banlieue». Secondo le opinioni maggiormente diffuse, le donne in banlieue vivono una condizione priva di qualunque visibilità e del tutto estranea a qualunque forma di partecipazione alla vita pubblica e ancor meno ai suoi aspetti decisionali ma,parlando con te e il vostro gruppo, le cose sembrano essere diverse. Che ruolo hanno avuto, allora, le donne nel corso degli eventi dello scorso autunno francese? Un ruolo spesso importante ma, prima di parlare di questo, è necessario parlare di ciò che è stato il movimento di lotta dell’autunno scorso. Prendere le attività delle donne e scorporarle da tutto ciò che è accaduto è un modo per minare l’unità che, non senza fatica e fino a un certo punto, si è venuta a determinare nel corso della lotta tra le varie anime della banlieue. Sulle donne di banlieue si sono spese fin troppe parole anche se, questo è il ridicolo della situazione, nessuna di coloro che ha scritto su di noi ha portato il suo prezioso culo qua dentro. Per questo ritengo che la prima cosa di cui bisogna parlare sono gli obiettivi messi al centro della rivolta e non farsi intrappolare all’interno di un terreno che non è il nostro.
    Di questi, parlo degli obiettivi attaccati, nei vari organi d’informazione non vi è traccia. Quello che è stato, aggiungerei volutamente e con gran pace di tutti, mostrato, è l’aspetto irrazionale della rivolta. Invece le cose sono andate in modo diverso. Si è parlato tanto delle auto incendiate come se quelle fossero l’unico obiettivo, in realtà i principali obiettivi presi di mira erano altri, la polizia e i commissariati ovviamente, e di questo un po’ si è detto, anche perché quando si è cominciato a parlare di una regia della criminalità, per il resto inesistente, parlare dell’assalto ai commissariati poteva far comodo per sostenere questa tesi. Ma non è stata solo la polizia a essere attaccata. I Centri del lavoro in affitto e non poche strutture e proprietà del lavoro nero, e in alcuni casi anche alcuni suoi degni rappresentanti, sono stati attaccati non meno dei commissariati. A farlo sono state soprattutto donne. Di questo sulla stampa e nelle televisioni non vi è traccia. Puntare l’attenzione su tutto ciò è importante perché, visto che in tanti sembrano interessati alla condizione delle donne in banlieues, hanno molto a che vedere con le donne. Perché?
    Cosa sono i Centri del lavoro in affitto lo sanno tutti. Sono quelli che regolano l’accesso al mercato del lavoro a tempo e a condizioni vantaggiose per le aziende. Sono anche organizzazioni di ricatto e controllo sociale, politico e sindacale, perché se sei una o uno che organizza la lotta e il conflitto sul posto di lavoro, o in ogni caso sei una che non si fa mettere i piedi addosso, sei fatta fuori. Puoi stare sicura che, per te, molto difficilmente ci sarà un nuovo contratto. Finisci tra gli indesiderabili e non lavori più. I Centri sono tra le principali armi messe a punto dal capitalismo per rendere innocui i lavoratori e le sue parti più deboli e ricattabili, cioè le donne. Ecco perché c’è un legame strettissimo tra la ristrutturazione del lavoro capitalista e la nostra condizione di donne lavoratrici. Quindi i luoghi dello sfruttamento sono stati tra gli obiettivi principali del movimento e sono state proprio le donne ad aver maggiormente focalizzato l’attenzione su questi aspetti. Se vogliamo parlare di differenze di genere nel corso della lotta, dobbiamo dire che gli uomini guardavano con maggiore interesse i commissariati, le donne tutto ciò che aveva a che fare con la produzione.
    Questo è anche facile da capire perché i maschi subiscono più la pressione dei flics, noi quella dei capi e dei padroni.
    Quindi, avete individuato nella produzione la contraddizione principale. Puoi raccontare qualcosa su come vi siete mosse e su come avete scelto gli obiettivi da colpire?
    Oltre ai Centri non sono state poche le strutture produttive, quelle che usano esclusivamente lavoro nero e semi coatto, che sono andate in cenere. La maggior parte di queste sfruttano, attraverso la parcellizzazione del lavoro, soprattutto il lavoro femminile.
    Un lavoro a cottimo che si svolge all’interno delle case. Oppure, altro caso non infrequente, adattando a laboratorio magazzini e scantinati dove le donne lavorano quasi come in un campo di concentramento, in condizioni prive di qualunque sicurezza, senza areazione, con orari di lavoro mai inferiori alle dieci ore, sotto il controllo di capi violenti, maneschi e arroganti.
    Alcuni gruppi di donne, e questo te lo posso garantire perché ho contribuito a organizzarne alcuni, mentre nelle strade era in corso la battaglia ha regolato i suoi conti con i propri padroni e guardiani. Quando non è stato possibile attaccare i magazzini, abbiamo ripiegato sulle auto o sulle abitazioni. Qualche caid è andato incontro anche a incidenti. Qualche osso si è rotto è non è stato certo il nostro.
    Questo dovrebbe dare un quadro almeno un po’ diverso della rivolta e soprattutto del ruolo per nulla subordinato o addirittura invisibile che le donne vi hanno giocato. Ma non è questo, mi sembra, la cosa che va maggiormente messa in risalto. Mi sembra più importante invece parlare del silenzio che, a partire dagli stessi partiti e movimenti di sinistra, c’è stato su questo. Il fatto che la rivolta abbiamesso al centro, o tra gli obiettivi più importanti, la critica all’organizzazione capitalistica del lavoro e questo sia passato del tutto inosservato, dice molte cose. Dice, ad esempio, che il lavoro per una parte della società è una cosa completamente diversa che per l’altra. Si tratta di due mondi che parlano lingue diverse dove, per gli uni, vi sono opportunità e possibilità mentre per gli altri una rigida subordinazione, dominazione e ricatto.
    La vera questione è che oggi il mondo è cambiato radicalmente nella sua base materiale e strutturale, con ricadute molto grosse.
    È come se esistessero due mondi, abitati da specie diverse. E questi due mondi, per quello che mi riesce vedere, non sono separati semplicemente com’era anche in passato, dalla diversa posizione occupata all’interno della scala sociale ma che rimandava a un modello sociale unico, bensì dall’appartenenza a due realtà il cui colore è il bianco e il nero. Forse per questo la critica all’organizzazione capitalistica del lavoro è estranea a gran parte della sinistra perché, in fin dei conti, è un’organizzazione bianca, quindi anche la loro. È questa organizzazione che determina la condizione della donna in banlieue.

    IL VIAGGIO CONTINUA
    Quello che emerge dalle parole di M. B. è una divisione del mondo che non sembra lasciare spazio a possibili mediazioni. Il racconto di G. Z., una giovane black/blanc che per un certo periodo ha fatto parte di alcuni movimenti e associazioni della «sinistra bianca e rispettabile», sembra ampiamente confermarlo. Tu sei tornata a lavorare politicamente in banlieue dopo un’esperienza in altri ambiti. Perché? Nel corso degli anni Novanta il lavoro politico e sociale all’interno della banlieue ha subito una notevole frammentazione. Questo è stato sopratutto la conseguenza di alcune trasformazioni generali che hanno avuto notevoli ricadute nei nostri territori delle quali solo in seguito si è iniziato a prendere coscienza. All’interno delle aree che avevano portato avanti l’intervento in banlieue, si è sviluppato il dibattito sull’esigenza di un rapporto maggiore con i vari mondi politici.
    In poche parole si è posto il problema se rimanere in banlieue, per portare avanti in maniera autonoma un discorso completamente incentrato sulla specificità dei nostri territori, oppure portare la banlieue all’interno del discorso politico più generale. Una buona parte di noi ha scelto questa seconda ipotesi. Anche se molte delle critiche che erano state avanzate alle esperienze politico – istituzionale continuavamo a considerarle in gran parte valide, l’assenza di sbocchi che il nostro lavoro autonomo ormai evidenziava, ci ha portato a riconsiderare in maniera diversa il rapporto con
    alcune realtà che si stavano mettendo in movimento. In molti, pertanto, abbiamo deciso di cercare una sponda fuori dalla banlieue. Un’esperienza che, per me, è stata particolarmente deludente ma che mi è anche servita per capire molte cose sul mondo di oggi, il tipo di contraddizioni che si sono
    aperte e la loro natura. Perché c’è qualcosa di molto diverso rispetto al passato. In che cosa consistono, sulla base delle tue esperienze, maggiormente queste differenze?
    Vedi, la vecchia contrapposizione, tra chi aveva aderito ai progetti della sinistra istituzionale e chi invece aveva optato per una strada diversa, non era altro che una contrapposizione tra chi seguiva un’ipotesi chiamiamola realista e riformista e chi non rinunciava alla messa in cantiere di un progetto più critico e radicale. Le infinite discussioni, le banalizzo un po’, erano sui modi, i metodi, i tempi. Tutto questo, almeno formalmente sembrava essere una discussione tra persone che vogliono andare nella stessa direzione, che perseguono gli stessi obiettivi ma sono in disaccordo su quale strada seguire.
    Bene, oggi questo orizzonte comune non esiste nemmeno più sulla carta. Se prima, tra noi e loro, la differenza era politica oggi credo che sia possibile parlare di una differenza che nasce su tutt’altri presupposti. Il problema non è su come si interviene e si sta in banlieue ma essere o meno un banlieuesards. Mi spiego con un esempio che rende immediatamente chiaro la cosa.
    In passato, essere un abitante della banlieue, finiva per essere una specie di valore aggiunto. All’interno dei mondi della politica riformista, essere un banlieuesard, poteva essere un buon viatico per far carriera. Certo, dovevi rimanere dentro ad alcuni schemi è ovvio, ma una volta dentro il gioco l’essere un banlieuesard poteva essere quasi un vantaggio.
    In che senso? Per certa sinistra c’era quasi il mito dell’abitante della periferia. Non pochi hanno utilizzato il loro status originario per accedere a, seppur piccole, carriere. Addirittura accentuavano, quasi in maniera parossistica, alcuni tratti da banliuesard. Il banlieuesard era un oggetto di culto, coccolato e ambito. Il banlieuesard era visto come il buon selvaggio, il grado zero ma puro della classe, i suoi comportamenti poco perbenisti e rozzi, negli immaginari degli intellettuali e degli appartenenti alla classe media della sinistra, soddisfacevano il loro bisogno di incontrare il popolo e il rappresentante del popolo aveva tante più chance di affermarsi rimanendo, almeno in gran parte, popolo e comportandosi come la borghesia progressista immaginava dovesse essere uno del popolo. Si può, a ragione, obiettare sulla poca dignità personale di un individuo che si presta, al limite del buffonesco, a impersonare la maschera del popolano che la borghesia progressista immagina ma questo è un altro discorso. Ovviamente io non ho mai accettato di essere la popolana e sono sempre stata molto critica verso questi comportamenti ma non è certo per valorizzarli che ti ho raccontato queste cose.
    L’ho fatto per mettere in evidenza come, per tutto un periodo e con tutte le contraddizioni che c’erano, l’essere un abitante della banlieue non era socialmente disprezzabile. Sia chiaro, non sto difendendo quel modello sto semplicemente dicendo che la banliue non era invisibile ma, semmai, soffriva di un eccesso di visibilità sociale. Per tutti, mostrare un banlieuesard che tale rimaneva cioè urbanizzato ma non troppo, questo come vedrai è l’aspetto fondamentale, era il classico fiore all’occhiello.
    Non solo. Il banlieuesard diventava, in qualche modo, oggetto di culto se, in lui, si poteva esemplificare l’intera banlieue. Un banliuesard come individuo non aveva alcun senso, e quindi in quanto tale non poteva neppure pensare di avere un qualche successo o affermazione, ma doveva essere sempre l’espressione, il rappresentante della banlieue.
    Per questo doveva, in ogni occasione, pubblica ma anche privata, mantenere un certo modo di essere e di fare. In questo gioco tutto girava intorno alla rappresentanza, a ciò cheuno finiva con il personificare. Per quanto in maniera distorto c’era, per la società, un riconoscimento di un intero corpo e blocco sociale. Il popolo, mettiamola così, aveva pieno diritto a esistere e a manifestarsi. Chi ha fatto un po’ di carriera l’ha fatta giocando su questo. E invece adesso?
    Tutto questo che ti ho detto mi serve per raccontarti invece quello che accade oggi che è esattamente l’opposto ed è quanto ho potuto concretamente sperimentare in prima persona. Se alcuni come me, a un certo punto, hanno deciso di interrompere quel tipo di esperienza, tornando a fare intervento in banlieue, altri sono rimasti a lavorare in alcune realtà. Anche questi hanno fatto, per piccola che possa essere, un po’ di carriera.Ma l’hanno fatta assumendo comportamenti e atteggiamenti esattamente opposti a quelli che li avevano preceduti. In poche parole se prima esisteva il mito positivo del banliuesard, in quanto popolo, oggi questo mito si è rovesciato in pura negatività, il banliuesard non è più la personificazione del popolo ma della teppa, dello sfigato, dell’invisibile, del premoderno, del presociale, dell’emarginato, del preglobale o non so più che cosa. In ogni caso è qualcosa che non può essere rappresentato ma deve essere reso invisibile.
    Questo cosa comporta? Allora succede che per essere accettato devi mostrare, fino all’eccesso, di esserti lasciato completamente alle spalle, di aver reciso ogni cordone ombelicale con il tuo passato, con le tue origini. Devi morire come banliuesard e rinascere come individuo. Questo è un gioco al quale alcuni si sono prestati. Ora tutta la loro vita è un continuo cancellare tutto ciò che sono stati. Si vergognano delle loro origini, non mettono praticamente più piede in banlieue e quando parlano di noi dicono: quelli là. Il loro comportamento è tipico di tutti i rinnegati. Forse più di altri ci considerano pure escrescenze e nullità sociali. Tutto questo ti dice molto su come delle cose siano cambiate.
    La periferia non rappresenta più un mondo, una realtà con la quale il centro deve fare i conti ma l’ignoto. Quello che ha detto Sarkozy, ovvero che noi siamo un semplice problema di karcher,di pulizia, stringi, stringi è un po’ quello che pensano tutti anche se poi non tutti arrivano alle sue stesse conclusioni operative. Ma che cos’è alla fine la banlieue se non il luogo dove è maggiormente concentrato il lavoro basso, più mal pagato e meno appetibile? Che cos’è la banlieue se non il luogo dove più alto e intenso è lo sfruttamento? In banlieue vivono milioni di persone e la favola che le banlieues siano improduttive, parassitarie, completamente assistite non sta in piedi. Vorrebbe dire che in Francia ci sono milioni di persone che non producono ricchezza e profitto e dove starebbero, invece, quelli che la producono? In quali quartieri abitano? Dove sono? È vero, le statistiche indicano nella banlieue il luogo dove è maggiormente concentrata la disoccupazione ma è una verità parziale.
    In realtà, la banlieue, è il luogo dove è maggiormente concentrato il lavoro deregolamentato per cui, il vero paradosso, è che non c’è nessuno che lavora tanto quanto chi è ufficialmente disoccupato. Questo, inoltre, è particolarmente vero se guardiamo alla popolazione femminile sulle cui spalle, in non pochi casi, regge l’intera economia familiare. Ma questo è il punto.
    La banlieue è il luogo dove è concentrata quella fetta di lavoro che, nelle società attuali, non ha più alcuna legittimità e riconoscimento sociale. Il mito che in un’epoca neppure troppo distante in molti nutrivano verso il popolo della banlieue rimandava al riconoscimento politico e sociale che il lavoro
    operaio e proletario aveva nella società. Oggi è questo a non avere più alcun riconoscimento anzi a essere oggetto di pregiudizio e stigmatizzazione.
    L’isolamento della banlieue, in realtà, è l’esatta fotografia delle condizioni in cui è precipitato il lavoro che non fa figo. (G. Z.)

    IN DIVISA
    L’attenzione e le riflessioni delle donne di banlieue ci restituiscono un quadro dei «quartieri popolari» francesi ben distante da quello a cui media, mondi politici e gran parte dell’intellighenzia abitualmente ci offrono. Non solo l’intero movimento dei banlieuesards si mostra molto meno «impolitico» di quanto la società legittima abbia cercato di mostrare ma le donne,o per lo meno una parte significativa di loro, sembrano ben distanti dall’incarnare e accettare un ruolo mesto e subordinato al «potere maschile». Anzi, per certi versi, sembrano proprio loro ad aver colto con non
    poca lucidità il «cuore» della contraddizione individuando nelle trasformazioni che hanno attraversato l’organizzazione capitalistica del lavoro il nodo centrale del problema. Ma le donne, o perlomeno alcune di loro, sembrano avere avuto ruoli non secondari anche all’interno della «questione militare» aspetto che, secondo le retoriche maggiormente accreditate sulle donne di banlieue ha a dir poco dell’incredibile. Di tutto questo ne offre un’esauriente ricostruzione Z., una giovane francese black della banlieue di Argenteuil, che ha lavorato a fondo in questo settore.
    Hai avuto un ruolo importante nell’organizzare e gestire alcuni ambiti «militari» nel corso della rivolta. Puoi descrivere, almeno per sommi capi, i problemi che hai dovuto affrontare?
    Intanto bisogna spiegare un po’ di cose, altrimenti si finisce con l’avere un’idea molto falsificata. Noi, ma è una cosa che credo succeda sempre, abbiamo dovuto organizzare la guerriglia combattendo su due fronti: uno esterno, uno interno. Quello interno, per certi versi, è stato quasi più importante dell’altro. Gli sbirri per colpire con una certa precisione devono ricevere delle informazioni ma non solo. In non pochi casi hanno anche bisogno di trovarsi il terreno spianato. Avere, per esempio, persone che mettono in giro informazioni sbagliate al tuo interno, per loro, può essere fondamentale perché ti induce a muoverti esattamente nella direzione che loro vogliono. Allo stesso modo ricevere informazioni su dove intendi colpire, oppure attraverso quali percorsi intendi raggiungere un obiettivo, attaccarlo e sganciarti, per loro sono informazioni essenziali.
    Un’altra cosa importante è ricevere informazioni sui livelli di organizzazione raggiunti al nostro interno. Infine, dovendosi muovere in un territorio praticamente sterminato come il nostro, diventa decisivo scoprire e individuare quali e dove sono i nostri rifugi e il nostro logistico. Un lavoro che può essere fatto solo disponendo di una buona rete di spie e informatori all’interno dei nostri territori. Poi, ma questo è un problema che si è posto in un secondo momento, abbiamo dovuto misurarci con alcuni tentativi da parte dei fascisti di costruire dei gruppi di contro guerriglia dentro la banlieue. Questa, così come siamo stati in grado di ricostruirla, è stata un’iniziativa più ufficiosa che ufficiale. È partita autonomamente da alcuni ambienti di estrema destra della polizia nei confronti dei quali il potere ufficiale ha fatto finta di niente. Se funzionavano bene, altrimenti lui non c’entrava. Le classiche operazioni sporche che se riescono bene, altrimenti nessuno ne sa niente. Ma questo, come ti dicevo, è avvenuto in un secondo momento e forse è stato anche il problema minore. Il vero problema è stato neutralizzare la rete di spie e informatori il che, come è forse facilmente intuibile, non è assolutamente una questione diciamo tecnica.
    Quindi, ha comportato la messa a punto di una struttura organizzativa in grado di stanare spie e infiltrati. Un lavoro non facile che comporta, per chi se ne assume l’onere, capacità di varia natura e, soprattutto, una stima e un riconoscimento sociale non indifferente?
    Sì, credo che il modo come mi hai posto la domanda sia quello giusto. Per fronteggiare una rete di quel tipo è occorso soprattutto la messa a punto di una struttura in grado di fare una serie di mosse. Ma forse è meglio portare degli esempi piuttosto che affrontare la questione in modo troppo astratto. La prima cosa da fare è stata socializzare l’infinita serie di informazioni di cui, in maniera frammentata, eravamo comunque in possesso. Questo è stato il primo passaggio e non è stato un semplice passaggio tecnico. Per arrivare a questo si è dovuto rompere con la logica di setta che sia le gang sia alcuni gruppi si portavano dietro.
    C’è stata la tendenza da parte di molti a porsi continuamente come gruppo autonomo, separato dagli altri che, al massimo, poteva allearsi con altri ma senza perdere la propria identità. Questa è palesemente una cazzata perché in questo modo non si fa altro che fare il gioco del nemico che ha tutto l’interesse a tenerci divisi. Certo, unirsi non è una cosa che si può fare semplicemente sommando le varie realtà come se nulla fosse ma occorre delineare un ipotesi collettiva nella quale, le diverse esperienze, si possono riconoscere. Accanto a questo, che è il problema di contenitore generale, ne compare un altro non meno importante. In realtà la resistenza a unirsi e a mettere insieme le forze, non dipendeva solo da ipotetiche differenze ma dalla resistenza che i piccoli leader o boss ponevano perché, in quel modo, vedevano venir meno il loro micro potere. Il processo di costruzione di una struttura rivoluzionaria, se vuole essere tale, non può esimersi dal mettere in discussione anche ciò che avviene al tuo interno, mettendo in luce quanto le logiche del dominio e del potere hanno fatto presa anche tra coloro che sono pronti a battersi contro i dominatori.
    Quindi, a partire da un problema apparentemente tecnico, si sono dovuti affrontare dei nodi molto più complessi che hanno posto molti di fronte alle loro contraddizioni obbligandoli, però, a dover compiere delle scelte. Un processo utile perché ha consentito di fare chiarezza dentro al movimento facendogli compiere un salto in avanti. Dentro tutto questo, il tuo essere donna, ha comportato dei problemi? Alcuni. Il problema va posto sotto due aspetti. Il primo rimanda al fatto che, abitualmente, gli scontri di strada sono fatti da uomini e ragazzi mentre le donne ne rimangono per lo più fuori. Questo porta molti a pensare che ogni questione che ha a che fare con l’uso della forza sia monopolio dei maschi. Sarebbe però sbagliato vedere in questo una contrapposizione tra donne e uomini perché il vero problema è un altro e ha a che fare direttamente con la dimensione politica. Il problema non è la forza o la violenza in quanto tale ma l’organizzazione e la gestione politica della forza. Questo cambia completamente la cornice in cui l’esercizio della forza e la sua organizzazione vengono posti.
    Quello che si è dovuto far capire è che la gestione della lotta che stavamo conducendo non poteva assumere le stesse dinamiche degli abituali conflitti di strada. Si è trattato, e in parte siamo stati in grado di farlo, di trasformare e far evolvere una situazione per indirizzarla verso un modello operativo molto diverso da quello abituale. A questo punto il conflitto tra uomo e donna ha potuto essere smussato perché il problema reale diventava chi era in grado di essere direzione di questo questo processo. Il confronto è avvenuto sulle qualità politiche, militari e operative dei singoli piuttosto che sull’appartenenza di genere. Se, in molti, hanno riconosciuto a me e ad altre questo ruolo direttivo lo hanno fatto sulla base della stima sociale che, nei fatti, ci siamo conquistate.
    Questo è quanto accaduto in generale. Poi ci sono state situazioni di tensione che avevano però una natura diversa. Alcuni capi gang sono stati contro di noi, e lì lo scontro a un certo punto lo abbiamo dovuto affrontare senza mezze misure, perché non volevano perdere la loro posizione di piccoli signori della guerra.
    Allora, in quel caso, si è trattato di sputtanarli davanti ai loro gruppi mostrandoli palesemente incapaci di svolgere un ruolo che era ampiamente più grande di loro. Quindi, alla fine, in alcuni casi
    alle donne è stato riconosciuto un ruolo non solo legittimo ma decisionale e dirigenziale? Sì ma questo perché noi abbiamo sempre posto la questione sul terreno della prassi politica. Non abbiamo detto: noi siamo donne e quindi ci spetta questo o quello. Abbiamo dimostrato di essere in grado di organizzare e gestire un percorso politico con alcune ricadute militari e su quel terreno ci siamo confrontate. Non ci siamo messe a fare discussioni infinite che non avrebbero portato a nulla ma abbiamo messo al centro la questione della prassi.
    Non butti giù dal piedistallo un piccolo boss andandogli a parlare in astratto di diritti ma lo sbatti a terra e lo calpesti mettendolo di fronte alle sue responsabilità e alla palese incapacità di far fronte a una situazione che ha perso del tutto la dimensione del micro conflitto urbano. Quando il problema diventa fronteggiare lo Stato e non una qualche gang rivale il gioco assume contorni che lui neppure riesce a intuire. A quel punto sei tu che hai in mano la situazione.
    Torniamo a parlare delle spie di come avete affrontato il problema. Il problema vero erano gli spioni non conosciuti e insospettabili. Questi erano dentro di noi e non sono certo quelli che se ne vanno in giro con la coccarda francese. Come saprai, una parte dell’economia della banlieue è fatta di micro traffici ed è intorno a questi che le Bac reclutano la maggior parte degli infiltrati. Perché è lì che trovano quelli più facilmente ricattabili. Allora lì si è trattato di fare una serie di inchieste al nostro interno che non sono state sempre facili anche perché, in una situazione simile, accadeva che qualcuno, per risolversi delle questioni personali, dei vecchi rancori o anche cose molto più stupide, mirava a screditare altri bollandoli come spie.
    Un lavoro non sempre facile e che, in alcuni casi, ci ha portato a commettere degli errori mettendo sotto accusa persone che, poi, si sono rivelate completamente trasparenti. Ma questo ti dà anche l’idea di come, nel momento in cui scendi sul terreno dello scontro reale, della prassi e non ti limiti alle chiacchiere, come ama fare la sinistra parigina dentro i salotti, gli scenari con i quali ti devi misurare siano tutt’altro che semplici e che, in definitiva, la guerra impari a farla solo facendola.
    Infine il tentativo di colpire il movimento dall’interno con i gruppi para militari. Un’operazione che non ha avuto molto successo perché i tentativi tentativi che ci sono stati li abbiamo stroncati sul nascere. Intanto bisogna dire che in banlieue c’è una forte propaganda razzista,principalmente anti araba, come del resto tutti sanno l’arabofobia è una cosa molto diffusa in Francia, che è portata avanti dai gruppi di destra legati a Le Pen i quali, in banlieue, hanno una certa forza, e che possono contare su appoggi e coperture sostanziose da parte delle Bac. Il rapporto tra Bac e gruppi nazisti è molto stretto e per certi versi sono la stessa cosa. Solo che gli uni sono legalizzati e gli altri ancora no.
    Questi gruppi para militari sono stati utilizzati in due modi. Il primo è stato quello legale che hanno
    visto tutti grazie alla televisione e ai giornali. Erano i sedicenti cittadini che tutti correvano a intervistare e a riprendere grazie ad accordi ben precisi presi dalla polizia con gli organi di stampa e informazione.
    In quel caso, i lepennisti, si mostravano come i bravi cittadini, facendo intendere di rappresentare la maggioranza della popolazione della banlieue che chiedeva il ripristino della legalità, dell’ordine e la repressione della rivolta. Come abbiamo saputo interrogando a lungo uno degli organizzatori di questa messa in scena volutamente, i toni tenuti nelle riprese e nelle interviste, erano improntate alla moderazione e a quello che comunemente si definisce il buon senso del cittadino medio. Erano tutti discorsi contro la violenza e che tendevano a mostrare la presa di distanza da parte della popolazione dagli incendiari con il chiaro intento di far apparire la guerriglia opera di gruppi assolutamente minoritari che non avevano alcuna legittimazione all’interno.
    Una volta sbandierata ai quattro venti questa versione, diventava molto facile andare giù pesante nella repressione. C’è stata, e questo ti dà anche un’idea della sostanziale unità che i vari poteri hanno raggiunto per contrapporsi a noi, una vera e propria propaganda di guerra da parte dei media e degli organi di informazione nei nostri confronti. Giornali e televisioni non facevano altro che riportare interviste ad abitanti delle banlieues che si dicevano stanchi di quanto stava accadendo. Questa, nelle loro intenzioni, doveva essere l’inizio di un’operazione a più ampio raggio che, in un secondo momento, doveva far entrare in gioco i gruppi paramilitari camuffati da cittadini che si mobilitavano per ristabilire l’ordine.
    Prima è partita la propaganda che doveva preparare il terreno di consenso, poi sarebbero entrati in azione questi gruppi. Il progetto, però, non ha funzionato per almeno due motivi. Il primo è stato il tempestivo intervento delle forze militanti che hanno azzerato, attraverso una serie di azioni mirate, tutti o almeno gran parte delle basi che i paramilitari stavano approntando dentro le banlieues facendo, tra l’altro,un discreto bottino. Molte cose, molti strumenti che dovevano servire alla controrivoluzione sono passati nel logistico della guerriglia.
    Probabilmente le Bac si saranno incazzate non poco! (Z.)

    MINORANZA CONSAPEVOLE
    Alla fine del viaggio, l’immagine della donna di banlieue ne esce non poco diversa da quella che la società perbene e rispettabile si è continuamente affannata a fornirci. Le banlieuesards non solo sembrano perfettamente in grado di prendere la parola in pubblico ma lo fanno con una lucidità e una consapevolezza che difficilmente trova riscontri analoghi tra la popolazione di genere maschile.
    Certo, queste donne, sono pur sempre una «minoranza» ma non è questo il problema. Centrale, piuttosto, è il grado e il livello di legittimità e autorevolezza sociale che queste «minoranze» possono vantare.
    Del resto, sembra il caso di ricordarlo, a prendere la Bastiglia secondo Adolphe Thiers non furono in più di settecento.

  5. Pralina says

    FikaSicula, ti aspetto nel mio blog… 🙂
    Baci baci baci.