Vanessa – uccisa dall’ex fidanzato – stava al numero #54. Pierina – uccisa dal marito – è la numero #55. Matilde, ammazzata dal marito – e siamo a #56. Antonietta non è un femminicidio, forse uccisa da un clochard, dicono i giornali, e Bollettino di Guerra – che conta anche i bambini e gli uomini vittime trasversali – non la inserisce nel conteggio. Stessa scelta per Carmela – uccisa da un parente per via dell’eredità. Lui e lei, padre e madre – uccisi dal figlio che si suicida – e non vengono contati neppure questi anche se sarebbero riconducibili alle dinamiche da strage familiare. Dilia – uccisa dall’ex compagno – è la numero #57. Di lei l’assemblea “We Want Sex” scrive che si sia trattato di una morta annunciata e denunciata rispetto alla quale nessuno ha fatto nulla. Damiana, separata, aveva trovato un lavoro in una pasticceria di Firenze, l’ex è andato, l’ha pugnalata dove capitava e l’ha mandata in ospedale in prognosi riservata. Speriamo non sia la numero #58. Quel numero al momento spetta ad Alessandra, giovane donna di 35 anni, fidanzata con un ex poliziotto in pensione, che l’ha uccisa, pare, a mani nude, battendole la testa più volte sul pavimento fino a fracassarle in cranio. E’ la #58esima vittima dall’inizio del 2012.
http://www.youtube.com/watch?v=40ODhBFGMLA
Queste ultime vittime non sono giovani, forse neppure così fotogeniche come Stefania e Vanessa, Dilia è addirittura una straniera, e chi lo sa se di lei c’è la foto o meno, e in ogni caso l’estetica della violenza contro le donne vuole che se non sono fisicamente decorative, se non hanno un sorriso, splendido, se non possono essere usate per aumentare l’audience dei programmi televisivi o il numero dei click dei quotidiani online, le loro foto non saranno pubblicate.
Di loro si ricorderà il luogo del ritrovamento del delitto, un lenzuolo steso a ricoprire un cadavere e, naturalmente, immancabili, tante auto delle forze dell’ordine che tracciano un secco marketing istituzionale per restituire credibilità ai militari anche quando, come nell’ultimo caso, è uno di loro a commettere un delitto contro una donna.
I militari sono anche quelli che hanno pestato donne inermi in piazza quando queste donne osavano alzare la testa e porre senza deleghe le proprie rivendicazioni. Sarebbero queste le fonti di tutela alle quali dovremmo rivolgerci, con questo martellante e ossessivo riproporre ad ogni delitto, a corredo delle notizie di cronaca, le immagini delle forze dell’ordine invece che immagini che ricordino altri luoghi di riferimento territoriali, numeri utili, il 1522, un numero di un centro antiviolenza, per recuperare credibilità sulla pelle delle donne morte, per le quali possibilmente nulla era stato fatto prima, lasciate sole come sono le donne che denuncia dopo denuncia restano spesso inascoltate, che se anche vengono considerate è per altro genere di strumentalizzazioni, che non sarebbero morte se ci fosse alla radice un lavoro di prevenzione sulla cultura, che deve coinvolgere anche i media.
E i media dovrebbero infatti fare attenzione ad ogni dettaglio, perché da ogni parola sbagliata deriva la legittimazione di un delitto e perché i media formano le persone che avete/abbiamo accanto e tutte loro, formate all’accettazione della violenza, come fosse normale, come se dovessero vergognarsi di percepirle come ingiuste, come terribilmente sistematiche, come frutto di un meccanismo e di una dinamica che si ripete senza che nessuno faccia nulla per porvi rimedio, senza che nessuno si ponga il problema della mentalità dalla quale trae origine, tutte loro, se formate in modo errato, saranno certo più esposte ad ogni pericolo.
Questo genere di delitti contro le donne traggono origine da quella mentalità che vuole che le donne siano una proprietà degli uomini. Si chiama possesso. E ancora oggi, per l’ultimo delitto, leggiamo della parola “gelosia”, in nome della quale chiunque in Italia immagina di poter limitare o porre definitivamente fine alla vita di una donna.
Questi delitti traggono origine anche da una errata cultura che autorizza tutori, Stato, donne di destra, a immaginare che la libertà di una donna debba essere soggetta a moralizzazioni, censura e limitazioni, a partire dalla scelta di migrare, senza darle mai diritto di cittadinanza, a quella di fare sesso non riproduttivo, e in questo senso chiederei a chi ha firmato l’appello sul Femminicidio, tipo la Polverini, se pensano davvero di cavarsela così a fronte delle decisioni gravemente lesive delle libertà delle donne assunte in altre sedi.
Le donne non appartengono a nessuno, né agli uomini né allo Stato, sono libere di scegliere, dovrebbe essere così se godessero di diritti umani, e così non è come rileva infatti Catharine A. MacKinnon nel suo ultimo libro edito Laterza “Le donne sono umane?”.
Ci si sono messi in tanti per limitare le loro vite, per impedire che scelgano cosa essere e con chi stare, per fare in modo che restino semplicemente degli accessori che procurano a tempo pieno il benessere a quegli uomini sentimentalmente analfabeti, egoisti e immaturi.
Le donne non sono sempre vittime e vittimiste ma sanno scegliere senza delegare e chiedere tutele e devono poter ottenere strumenti per gestire e risolvere le loro vite prima che siano uccise.
L’indipendenza economica per tante donne è un miraggio, il lavoro manca a più della metà delle donne presenti su tutto il territorio nazionale, la precarietà rende dipendenti e se sei economicamente dipendente inevitabilmente tu appartieni. La possibilità per le donne di determinare la propria esistenza sembra essere una utopia. La gestione della propria sessualità è ancora oggetto di attacchi integralisti da parte di chi, nei secoli, come racconta Carlo Flamigni nel suo “Storia della contraccezione” (edito Dalai), ha teso semplicemente a limitare l’autonomia femminile e a ridurre le donne a semplici macchine per fare figli e per soddisfare le esigenze sessuali maschili.
Cosa insegnare alle proprie figlie? A esigere rispetto, a rivendicare diritti, a studiare, lavorare, trovare un posto dove vivere per se’ e stare assieme a chi le rispetta nelle reciproche autonomie.
Cosa bisogna insegnare nelle scuole? Che le donne non sono un accessorio per risolvere la fragilità di certi uomini. L’uso delle donne non può essere consentito.
E questo è un lavoro che va fatto insieme, donne e uomini, perché di questa guerra sono tutti vittime. Senza esclusione alcuna.
Le donne uccise, infine, sono morte per la propria libertà. Al pari delle partigiane, delle donne resistenti di tutto il mondo, delle donne che vengono picchiate in piazza quando agiscono e rivendicano i propri diritti di persone, cittadine. Dunque sono morte anche per la mia libertà, la nostra, quella di figlie e figli e uomini e donne che non esercitano alcun potere e controllo nei confronti di nessun essere umano e che quella libertà la apprezzano, la praticano e la immaginano come risolutiva per ogni genere di conflitto.
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