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Fenomenologia di un titolo di giornale (Parking Violence Syndrome)

di Elisabetta Pierri

Fenomenologia di un titolo di giornale

(Parking Violence Syndrome)

I: un esempio verosimile

Sono dell’idea che i giornalisti non debbano necessariamente compiere analisi socioculturali  o politiche del caso di cronaca che trattano; mi aspetto che nell’articolo  ci sia  il resoconto dello stesso, i fatti così come si sono succeduti, scevri di tentativi di interpretazione, fermo restando che, al di là dell’opinione personale esplicitamente espressa, la scelta del linguaggio, che è materia viva e performativa, è di per sé un’avanguardia dell’interpretazione della realtà.

In un’altra sezione del quotidiano online o cartaceo, o di altro mèdium, oppure a corredo dell’articolo di cronaca, è auspicabile un approfondimento condotto con il rigore e l’obiettività propri di un giornalismo eticamente responsabile.

Ora, rimaniamo nella nostra sezione di cronaca e procediamo ad un esempio: una persona viene assassinata per un cosiddetto futile motivo, fingiamo che il delitto sia conseguenza di una lite per un parcheggio.
Il titolo sarà presumibilmente simile ad uno di questi: “Uomo ucciso per un parcheggio”, “Assassinio per un parcheggio conteso”, “Donna morta in seguito a lite per un parcheggio”. Potrebbe anche andar bene il seguente: “Dramma per un parcheggio” . Trovate che siano adeguati?
Poniamo che dopo tre giorni avvenga un altro omicidio le cui cause sono connesse ai parcheggi: il titolo rimarrà pressoché invariato.
Dopo il quinto omicidio, questa volta una vera e propria carneficina in cui sono stati coinvolti anche dei minori, il titolo è ancora lo stesso, ma nelle redazioni c’è un certo fermento, e si fa strada  la sensazione che quel titolo ora sia inadeguato al fenomeno in atto. Stessa percezione di disagio si potrebbe riscontrare nei lettori, diciamo pure la pubblica opinione, che non vuole e non può derubricare quella che va prendendo forma di una vera e propria criticità  sociale, ad un mero problema di beghe personali e di automobili da posteggiare; ci si rende conto che si tratta di una questione che trascende la dimensione privata.
Poniamo che sia trascorso quasi un anno dal primo omicidio, poniamo di trovarci di fronte ad una media di un omicidio, spesso plurimo, ogni due giorni, ad opera di individui sempre diversi. Ad oggi, 5 settembre del 2011, ci troveremo davanti alla 97esima vittima dall’inizio dell’anno.
Ritenete verosimile che un giornalista, anche inesperto (ma ritengo che nessun direttore di redazione affiderebbe le cronache di tale vicenda al primo arrivato), possa usare il buon vecchio titolo? Ritenete si possa ancora parlare di “dramma del parcheggio” alla 97esima vittima? “Uomo ucciso per un parcheggio”. Riuscite a ritenerlo tuttora adatto? Io non più.
Lo troverei invece inadeguato, artificioso, banalizzante, e superficiale. Perché? Perché sarebbe evidente che sta succedendo qualcosa di ulteriore al fatto in sé, che sicuramente c’è un problema sociale che soggiace a tali reati, un comune denominatore da cercare, identificare ed indagare. Si sarebbe certamente affrontata la questione degli omicidi “da parcheggio” con metodo, anche da parte dei mass media; nessuno avrebbe più scritto che qualcuno è stato ucciso da qualcun altro per un parcheggio, perché nel frattempo si sarebbe analizzato il fenomeno, avremmo assistito a dibattiti e inchieste televisive, si sarebbero condotte ricerche statistiche, il governo avrebbe fatto ricorso alla consulenza di esperti: sociologi, psicologi, forze dell’ordine, magistrati, avvocatura, chiamati a dare un parere in merito, e soprattutto, a tale fenomeno sarebbe stato dato un nome; parking violence, violenza da parcheggio. Ed è proprio quello il termine che si troverebbe nel titolo appropriato; non solo, si farebbe anche cenno alle statistiche sul fenomeno, e gli approfondimenti abiterebbero periodicamente le colonne stampate. “Violenza da parcheggio, la centesima vittima”, “Ennesima vittima di violenza da parcheggio”, “Parking violence: un bollettino di guerra”.
Li ritenete più appropriati questi titoli? Fine dell’esempio, torniamo alla realtà.

II: una realtà disconosciuta

Ritengo che sia inadeguato e fuorviante  titolare l’ennesimo articolo di cronaca sull’uccisione di una donna da parte di un uomo facendo uso di espressioni quali “dramma della gelosia”, “uomo uccide per gelosia”, “uccisa per motivi passionali”.
Titoli come questi sono sintomi, e allo stesso tempo producono effetti, di un problema che non viene affrontato nella sua specificità e che quindi neanche si nomina, un disconoscimento della sua identità che lo rende invisibile alla percezione comune. Dall’inizio dell’anno ad oggi, 5 settembre del 2011, sono state uccise 97 donne per motivi  “passionali” o “affettivi” che dir si voglia , circa una ogni due giorni; e poi ci sono molti uomini  (spesso parenti o nuovi compagni, mariti, della vittima) che sono stati uccisi per i medesimi motivi, e  bambini naturalmente. A questa statistica si aggiungono coloro che sopravvivono al tentativo di omicidio, rimanendo ferite, ustionate, invalide. E dobbiamo considerare inoltre i suicidi ai quali spesso giungono gli stessi assassini. Da rilevare anche il costo sociale di processi, cure sanitarie, e detenzioni conseguenti ai fatti.
Uno scenario piuttosto simile a quello della parking violence, eccezione fatta per i suicidi; ma come chiunque può constatare da sé, la questione reale viene comunicata ben diversamente da quella di fantasia utilizzata nel mio esempio: non è nominata, ma ignorata e disconosciuta.
Ciò avviene da decenni; non si tratta di uno stato di emergenza, perciò è ancora meno tollerabile che i mass media, la cui propensione a coniare neologismi laddove non ce n’è alcuna esigenza è innegabile, non utilizzino una terminologia adeguata

III: definizione e riconoscimento di una realtà

La sistematica uccisione di donne per i motivi apparenti più disparati, ma pur sempre connessi all’appartenenza al genere femminile e riconducibili, nonché culturalmente legittimati, da un contesto di iniquità di genere, viene definita infatti “femminicidio” o “femicidio”.

Tale termine fu introdotto pubblicamente per la prima volta nel 1976 da Diana Russell in occasione della sua testimonianza presso il Tribunale Internazionale sui Crimini Contro le Donne di Bruxelles; nel 1982 Russell ne definisce il significato: “l’assassinio di donne in quanto donne” . Qualche anno più tardi, insieme a Jane Caputi, giunge alla seguente definizione: l’assassinio misogino delle donne da parte degli uomini.

Nel 2001 Russell e Roberta Harmes diedero ulteriore definizione del termine come “l’uccisione di femmine da parte dei maschi a causa della loro appartenenza al genere femminile” (l’utilizzo dei termini “maschio” e “femmina” che vanno a sostituire “uomo” e “donna” non è casuale e tiene conto delle ragazze e bambine vittime di femminicidio, così come degli adolescenti che lo commettono).

In questo modo Russell intendeva evidenziare il femminicidio nel contesto di iniquità delle relazioni di genere e del potere maschile di dominazione sulle donne.

Da allora il termine – riconosciuto come categoria giuridica dalla “Legge contro il femminicidio e altre forme di violenza sulle donne” in vigore dal 2008 in Guatemala e incorporato nella “Legge generale per l’accesso delle donne ad una vita priva di violenza” vigente in Messico dal 2007 – viene correntemente utilizzato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (si vedano le raccomandazioni CEDAW indirizzate al governo italiano), dalle Ong e associazioni che si occupano anche della violenza sulle donne, dall’UNICEF, e da alcuni mass media internazionali.

L’italiana Barbara Spinelli contribuisce ad una definizione estesa e articolata in un dossier sulla violenza di genere in cui spiega che per femminicidio s’intende “ogni pratica sociale violenta fisicamente o psicologicamente, che attenta all’integrità, allo sviluppo psico-fisico, alla salute, alla libertà o alla vita della donna, col file di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla sottomissione o alla morte della vittima nei casi peggiori“, e dedica all’argomento anche un libro, “Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale”, in cui si può trovare una trattazione omnicomprensiva del fenomeno.

Presentiamo qualcuno dei rari esempi di utilizzo di questa categoria nei mass media nazionali: un articolo pubblicato dalla versione online de La Repubblica dove propriamente con il termine femminicidio si indicano le morti di donne italiane a causa della violenza maschile in un contesto di iniquità di genere;

un articolo de Il Corriere della Sera, versione online, proprio riguardante i femminicidi nazionali;

se ne trova anche una remota traccia risalente addirittura al 1977, appena un anno dopo l’intervento di Russell a Bruxelles, in un articolo cartaceo dell’allora edizione pomeridiana de La Stampa (Stampa Sera del 4/04/77 pag. 3).

Nonostante abbiamo dimostrato che tre dei più importanti quotidiani del nostro Paese siano a conoscenza del termine e ne facciano, seppure di rado, un uso congruo, negli articoli di cronaca che ci devono dare conto di avvenimenti appartenenti a tale fattispecie, questa parola, e tutto quel che implica concettualmente, di fatto scompare, e non si parla neanche della violenza di genere, così come si evita di utilizzare un linguaggio che possa permettere all’accadimento di uscire dall’angusto limite della sfera privata e dell’eccezionalità a cui viene relegato.

Vale la pena citare  un estratto di un documento del 2008 pubblicato da alcune Ong e agenzie intergovernative tra cui l’WHO (World Health Organization) in cui si parla anche della modalità in cui i mass media dello Zambia comunicano le notizie relative alla violenza di genere:

“…i casi di femminicidio sono stati presentati come isolati, eventi eccezionali, piuttosto che facenti parte di una tendenza frutto di una dominazione di genere. Il linguaggio utilizzato e i dettagli rivelati spesso hanno nascosto la brutalità del crimine, incolpato la vittima per l’aggressione subita, e perpetuato l’idea che tali omicidi siano questioni private. Sono stati pubblicati più dettagli sugli accusati invece che sulle donne uccise. Gli uomini erano spesso descritti come incapaci di contenere la loro rabbia e la loro violenza, e le donne come se li avessero in qualche modo provocati.

Mi sembra che i contenuti dei media italiani sulla violenza di genere, in particolare modo le cronache degli atti di violenza sessuale, possano rispecchiarsi fedelmente in questa analisi.

IV: conclusione

Si chiama violenza di genere, si chiamano ancor più specificamente femminicidi o femicidi, i delitti che in Italia si definiscono arbitrariamente  “passionali” , e che sono considerati come eventi eccezionali, di natura privata e sufficienti a sé stessi. E’ necessario utilizzare questi termini e affrancarsi dalla sindrome di parking violence; l’adozione di un linguaggio appropriato non renderà migliore – anche se credo esserci buone possibilità che ciò possa avvenire nel lungo periodo – o peggiore la realtà, ma possiamo ragionevolmente ritenere che ci consentirà di misurarci con essa in maniera adeguata.

 

Elisabetta Pierri
N.b.  Parking Violence Syndrome, espressione usata per indicare l’uso da parte di alcuni mass media di una terminologia inappropriata nella trattazione della violenza di genere, è naturalmente frutto della fantasia dell’autrice.

 

Posted in Omicidi sociali, Pensatoio, R-esistenze.


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Continuing the Discussion

  1. Sempre sulla responsabilità del linguaggio e dei giornali linked to this post on Settembre 12, 2011

    […] di pubblicare. Non prima, forse non ultima. Lo stesso post, infatti, è stato pubblicato anche da Femminismo a Sud, a testimonianza del fatto che il movimento delle donne in Rete sta tessendo una rete sempre più […]