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Identikit sessuato di una vittima di violenza

1173845_637278386291099_1286171987_nDa Abbatto i Muri:

Ve ne descrivo una, poi decidete voi se è una descrizione valida anche per altre persone che conoscete. Intanto questa vittima di cui parlo rutta, scorreggia, caga e piscia. Non è la madonna, non ha l’aureola, non è asessuata. E questa descrizione minima vale per chi pensa che le vittime bisognerebbe adorarle invece che ascoltarle, perché l’ascolto, effettivamente, è più impegnativo, costa fatica e se poi quella vittima parla ti rendi conto che non è una santa e smetti perfino di appassionarti alla sua vicenda.

Perciò affinché certe strenue lottatrici contro la violenza sulle donne possano continuare la loro tenera e solidale attività serve che le vittime non proferiscano parola, così può essere mantenuta l’illusione di celestiali forme che parlano dicendo sempre la cosa giusta perché è loro obbligo quello di essere mostri di perfezione, coerenza e integrità. Santificare la vittima di violenza togliendole umanità, desideri propri, è il modo migliore per sovradeterminarle e sostituirsi ad esse.

A ogni sacerdotessa del tempio, d’altro canto, serve una icona muta, una statua di pietra, un quadro attaccato alla parete con una figura in nome della quale poter dire messa e regalare riti e estreme unzioni. Immaginate lo sconforto di queste volontarie dell’antiviolenza quando la vittima prende vita, parla senza chiedere il permesso e senza essere perfettamente in linea con le loro opinioni, dopodiché usa perfino quel linguaggio che la fa tanto umana. Si deve subito correre ai ripari, la vittima risuscitata che parla per se’ va delegittimata, sennò di che vivrebbero quei voyeur del dolore? Perciò la vittima muove i suoi passi, decide con la propria testa, ha voce e osa anche parlare, e questa cosa non piace, non piace per niente. Tu vittima sei il perno attorno alla quale ruota l’ideologia vittimaria, tu sei quella che deve solo lamentarsi, al più pregare, e poi fare sentire utili quelle altre che sono lì a rubarti tempo e vita per coltivare un hobby e sentirsi un po’ a posto con la propria coscienza di brave cittadine del mondo. Tu servi perché loro hanno bisogno di sentirsi migliori e senza di te, evidentemente, non ci riescono.

Tu sei quella che non può avere una vita autonoma perché quello che ti è consentito è solo di interpretare quel preciso ruolo. Un giorno la vittima di violenza decise di tornare umana, un piede dopo l’altro percorse la navata lasciando discepoli e sacerdotesse a bocca aperta, la vittima tra l’altro scaccolava perché la spolveravano poco e a parte le ragnatele aveva cumulato anche un gran mal di testa. Quei riti, quegli slogan, quelle cazzate sovrumane che sentiva ripetere ogni giorno, e in fondo tutto era espressione di un loro bisogno: dovevano riempire un vuoto, la causa antiviolenta serviva più a loro che alla vittima che prima o poi, certo, aveva pur diritto di smettere di essere tale.

Ma per le sacerdotesse la vittima di violenza resta vittima a vita, diventa perfino una condizione ereditaria e trasmissibile finanche agli amici. Guardate quella, è figlia della vittima di violenza, e quello? è amico di una vittima di violenza. Così diventava sempre più chiaro che essere vittima era addirittura un obbligo, perché dopo la figlia e l’amico poi c’erano, appunto, le sacerdotesse e i sacerdoti, i tutori e le tutoresse, e tutto questo ambaradan aveva assolutamente bisogno del fatto che la vittima restasse tale in eterno, per sempre, incluse le generazioni future. 1374155_543964165670748_394394780_nLa vittima ridiventò umana, per prima cosa volle fare una doccia e così scoprì la propria corporeità, e quanto è bello riprendere contatto con la pelle, tirarsi giù un po’ di muffa, gustare la propria carne e saziarsi del proprio odore, era piacevole, e da quanto tempo lei negava a se stessa il piacere?

Si guardò allo specchio e pensava alle sacerdotesse e ai tutori che da quella gran guerriera che era l’avevano trasformata in una statua inerme, quella che non poteva dire, fare, parlare, raccontare, perché la vittima non si salva, può solo essere salvata, la vittima non agisce, può solo subire passivamente le azioni altrui, la vittima non smette mai di lagnarsi della propria condizione, anzi, la lagnanza è l’unica cosa suggerita, quasi imposta, perché quello è l’unico riconoscimento che ti spetta. Diventi statua, vittima in senso ereditario e puoi lagnarti, giammai rivendicare, e soprattutto mai con la tua voce.

Dovranno farlo altre, non si capisce a che titolo, al posto tuo. La vittima camminò, si spogliò degli abiti muffiti e dopo una bella doccia si guardò allo specchio. Guardò le sacerdotesse che le chiedevano perché mai lei fosse diventata umana, oh tu che eri santa, perché non torni quella che eri? perché hai dismesso la santità? perché indossi quegli abiti? perché lavi via la polvere, quel grigio marmo che ti fa tanto più credibile? perché indulgi con i piaceri della carne? perché?

La vittima guardò le sacerdotesse e ne comprese fino in fondo i timori, le paure, senza di lei non avevano più scopo, senza di lei non avrebbero saputo più che fare, di che argomentare, per cosa lottare. Avrebbe voluto dirle, lei, la vittima, smettete di nascondervi dietro di me per evitare di guardarvi allo specchio e risolvere i vostri problemi. Smettete di occuparvi di me e occupatevi di voi stesse. Affrontate i disagi della vostra vita, smettete di sfuggirli fingendo missionariato assistenzialista, così comprensivo e cristianamente pietoso, nei miei confronti. La suora che viene a rimboccarti le coperte quando sei in ospedale non può pretendere che tu resti ammalata a vita a sorbirti il suo credo, la sua religione, le sue preghiere e le sue raccomandazioni.

E’ brava e buona ma quante volte avete pensato che abusasse della vostra pazienza e approfittasse della vostra condizione per evangelizzarvi e portare a casa un’altra anima pia e una nuova conversione? Alla vittima si chiede perfino di più, con lei si parla di processo di canonizzazione e se sei stata eletta per essere santa tu proprio non puoi trasgredire. Dovrai assumere posa estatica e vaffanculo alle tue umane inclinazioni. La vittima era a quel punto nuda, spogliata di santità e ripulita dalla polvere di tanta costrizione ideologica, quel che chiedeva era solo di poter vivere, ricominciare, respirare, uscire fuori da quel contesto che le ricordava i suoi momenti bui, la battaglia vinta, i tempi che furono di oppressione. Voleva andare avanti e per farlo le servivano cose concrete.

Voleva scegliere da sola i propri abiti mentali e fisici, le passioni, voleva esprimere i propri bisogni e voleva anche tornare a vivere, gioire, godere, amare, voleva appassionarsi ancora perché la passione non è una cosa brutta. Recuperarla è sano. 10308052_848437551851141_4261412639482155194_nDopo essere stata immersa in retoriche vittimiste che demonizzavano l’altro sesso, dopo aver ascoltato per giorni e giorni, mesi e anni, una interpretazione semplicistica e perfino assai più cupa di quel che le era successo, dopo aver visto archiviare ogni complessità e aver dovuto rinunciare a balbettare qualunque tipo di obiezione, dopo aver smesso di resistere alle certezze granitiche delle sacerdotesse che non facevano che dire che l’uomo è male, il sesso schifo, la stessa vagina va presa con le pinze e figuriamoci parlarne senza farsi il segno della croce, dopo aver digerito mille slogan utili a riempirle la testa di paure inutili, pessimismo a go’ go’, c’è uno stupratore dietro ogni uomo, dalla piano e non prudenza, vestiti come si deve perché la prossima volta potresti non sopravvivere, non mostrare il corpo perché rendi difficile il lavoro ai tuoi tutori e noi siamo qui a ricordarti che la dignità delle donne comincia dal rispetto per se stesse, dopo aver udito tutto questo, perciò, la vittima, che a questo punto decide perfino di avere un nome – la chiameremo Vittoria – si libera anche del chilometro di insicurezze che le avevano trasmesso, decide di fidarsi delle proprie sensazioni, decide che le sacerdotesse, forse, stanno troppo dentro a fatti di violenza, sono fragili e dovrebbero prendere un po’ d’aria, così potrebbero rendersi conto che il mondo non fa sempre così schifo e che la visione che ne danno loro è un po’ minata da una lieve perdita di obiettività, Vittoria allora salta preamboli, preliminari, dubbi e incertezze e si lascia condurre dalla voglia di sopravvivere che in quelle che sono quasi morte arriva forte e chiara.

Telefona ad un amico, uno che non vedeva da tanto tempo, lo trova ad aspettarla davanti al bar e lì lei non può più aspettare. Vuole essere toccata, abbracciata, leccata, perché una vittima di violenza non ha perduto né la voglia di godere e neppure la fiducia nel prossimo. Una vittima di violenza, se è davvero tale, sa distinguere tra libertà di scelta, consensualità e, per l’appunto, imposizione e la violenza. Vittoria accoglie baci e abbracci e quella scopata sembrò durare una eternità. La pelle viva, il respiro pieno, la vita attraverso, i suoni, i sussurri, la risata del suo amico, e quell’orgasmo che arrivò prima che lei potesse perfino prevederlo, perché se c’è una cosa di cui hai bisogno quando torni a vivere è proprio quella di lasciarti andare, vivere l’attimo, sapendo che potrà finire, godertelo fino in fondo e guardare positivamente al futuro. Questo è rinascere e se sei ancora lì a fingere di essere viva non puoi sapere di cosa parlo. Il passo successivo di Vittoria fu quello di andare al centro per l’impiego a chiedere un lavoro. Non lo trovò. Non lo trovò neppure a chiederlo alle sacerdotesse, per passaparola, perché le sacerdotesse parlano tanto e sono così solidali ma poi, alla fine, più che retorica vittimizzante non sanno offrire.

Vittoria andò allora a chiedere aiuto a una tizia che in realtà non le aveva mai fatto particolari sconti, una sopravvissuta, anche lei, di quelle che erano venute fuori dalla merda senza l’aiuto di nessuno e che di certo non si commuoveva di fronte a quello che Vittoria le aveva raccontato. Quell’altra non le disse buone parole, non la riempì di chiacchiere cristiane e non la rincoglionì di retoriche vittimizzanti. Aprì solo la porta e disse che lì c’era un divano e Vittoria avrebbe potuto sistemarvisi. Il giorno dopo l’avrebbe portata a sentire un tale che aveva bisogno di cameriere, di più non poteva fare. Vittoria ebbe in un giorno solo un orgasmo, un divano e un lavoro. Le ultime cose, in particolare, le ottenne grazie a una persona che non si sostituiva a lei, non beccava soldi e riconoscimenti per rappresentarla, ma dava a lei gli strumenti per salvarsi da sola.

Dimenticavo di dirvi che Vittoria ride, tanto, perché le vittime ridono, sapete?

Ps: è una storia di quasi invenzione. Ogni riferimento a cose, fatti e persone è puramente casuale. Leggi anche:

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