di Egon Botteghi in Antispecismo.net (via intersexioni)
Mi chiamo Egon Botteghi, sono un uomo transessuale ed ho due figl*. Solo dicendo questo, mi rendo conto di rappresentare un ossimoro vivente per molte persone. Per “uomo-transessuale” i più intendono erroneamente una persona nata biologicamente maschio, talmente gay da voler essere donna e con una viscerale aspirazione alla prostituzione ed alle follie della notte. Allora bisogna spiegare che quella sarebbe casomai una donna transessuale, a cui bisogna rivolgersi al femminile, e spiegare che non a non tutte le donne trans piacciono gli uomini (ci sono molte donne trans lesbiche) e che la maggior parte di loro non fà la sex worker. Quindi devo puntualizzare che “uomo transessuale” è quella persona che ha fatto il percorso inverso a quello che si pensa comunemente e cioè una persona nata biologicamente femmina, che ha una identità percepita maschile e che quindi ha intrapreso un percorso per vedersi riconosciuta tale identità.
Molt* vengono così a sapere per la prima volta dell’esistenza degli “ftm”. Quando però dico di essere genitore, lì vedo proprio i neuroni della persone che ho di fronte andare in tilt, perché quasi nessuno pensa che una persona transessuale possa avere dei bambin*, anzi è assai radicata la convinzione che per una persona transessuale sia proprio impossibile avere figl*.
E’ senz’altro vero che in Italia, una volta iniziato l’iter di transizione, diventa praticamente impossibile avere dei figl*, in quanto la fertilità viene distrutta dalle cure ormonali e dagli interventi chirurgici e che le persone t* si sentano costrette ad abbandonare un eventuale progetto di genitorialità.
Ma c’è l’idea radicata che una persona transessuale non possa mai aver avuto, nel corso di tutta la sua vita, il desiderio e la volontà di avere dei figl*, in quanto “vittima” di un rifiuto e di una repulsione totale verso il proprio corpo “originario”. Chi può immaginare una donna transessuale che, in un determinato momento della sua esistenza, abbia deciso di usare il suo seme ed il suo pene per generare un* bambin* e sia diventata padre o un uomo transessuale che possa aver portato avanti una gravidanza e sia diventato madre?
Io, come tanti altri padri e madri transessuali, siamo la dimostrazione vivente che non è così e che le persone transessuali non sono tutte ascrivibili alla storiella tanto cara alla psichiatria “dell’anima prigioniera nel corpo sbagliato”. La nostra vita psichica, sociale e corporea è spesso molto più complessa e sfaccettata di questa immagine che si tramanda dalla metà del secolo scorso.
Anche l’identificarsi con le parole “padre” e “madre” getta scompiglio nelle convinzioni che sulle persone t* si hanno anche all’interno della stessa comunità lgbtqi. Faccio un esempio: il blog a tematica lbtqi “Queer blog” ha condiviso una mia video intervista che una giovane e brava giornalista (Elena Iannone) ha girato, il che mi ha fatto molto piacere. In questa circostanza c’è stato però un particolare che mi ha messo in imbarazzo e mi ha creato un po’ di disagio e cioè il fatto che sia stato condiviso nel giorno della festa del papà e che quindi io sia stato percepito come padre dei miei figli.
Sembrerebbe elementare (uomo uguale padre) e questa assegnazione al genere maschile non può farmi altro che piacere, ma le persone transessuali sono spesso interessanti perché riescono a mettere in crisi lo schema binario di sesso e genere. Perciò io posso dichiarare di essere un uomo ma di essere madre, di essere un uomo mamma. Questo perché io sono la mamma biologica dei miei figli, perché i miei figli un padre lo hanno già e non sono io ed è a lui che in quel giorno hanno consegnato i lavori fatti a scuola. Sono mamma perché i miei figli continuano a chiamarmi così ed io non gli toglierò mai questo loro diritto.
Loro hanno una mamma uomo, una situazione che non è nella norma ma è nella loro realtà ed in questo non ci trovano niente di sconveniente. Comunque non è stato facile neanche per me accettare l’idea di essere genitore e di essere transessuale. Partivo infatti dall’idea, che è un po’ una sorta di vulgata, purtroppo condivisa anche da molti psicologi, che i miei figli avrebbero subito danni irreparabili, che sarebbero impazziti vedendo la loro madre trasformarsi in “maschio” sotto i loro occhi innocenti.
Tale sentimento era rafforzato anche dalla rete parentale dei miei figli, che preoccupata per la loro sorte, riversava su di me ogni genere di accuse (dal dire che non amavo veramente i miei figli al sostenere che l’averli messi al mondo nella mia condizione era una grandissima colpa). Il lavoro con la terapeuta che mi ha seguito fu, innanzitutto, bloccare questa valanga di negatività e posporre la questione, facendomi concentrare su me stesso.
Il motto era “prima di essere genitore sei una persona”. A me sembrava una cosa terribile, come sovvertire un ordine naturale delle cose, abituato a pensare che le madri si dovessero sacrificare per la loro progenie, fino all’annullamento laddove si rendesse necessario. La mia stessa esperienza, però, di figlio di una madre “intrappolata” nel suo ruolo di “angelo del focolare”, che l’ha portata ad una insoddisfazione e ad una infelicità profonda, mi ha aiutato a seguire la strada che mi veniva proposta.
Le rassicurazione della psicologa su come i miei figli avrebbero reagito ai miei cambiamenti mi suonavano però avventate e superficiali e se non fosse stato per il rapporto di fiducia ormai creatosi, sarei scappato a gambe levate. La dottoressa sosteneva infatti, in linea con le poche ricerche effettuate sul campo, che i miei figli, abbastanza piccoli, non avevano ancora quella rigida strutturazione che hanno gli adulti e che impedisce loro di accogliere e vivere certi cambiamenti con serenità e naturalezza.
Una volta deciso di affrontare la tematica figli, la psicologa mi diede delle semplici e chiare indicazioni da rispettare: non creare confusione ai bambini, rispondendo sempre sinceramente alle loro domande, aspettando che fossero loro a porle e non forzando quindi i loro tempi. Sopratutto far sentire loro che la loro madre, nonostante i cambiamenti, non se ne stava andando e che loro non la stavano perdendo.
Il ruolo di genitore che ama e che accudisce deve essere una certezza al di là di ogni apparenza esteriore: non importa che forma abbia loro madre, l’importante è che mantenga nei loro confronti il suo ruolo di figura di riferimento affettiva e di cura. Per questo io, come detto in precedenza, continuo a farmi chiamare “mamma” dai miei figli, nonostante il mio aspetto maschile, vincendo l’imbarazzo che questo può comportare in pubblico, e per questo mia figlia, nonostante i miei peli e le mie caratteristiche tutt’altro che femminili, mi guarda spesso rapita e mi dice “come sei bella mamma!”.
Il mantenere questa rassicurante “vicinanza affettiva”, presuppone un impegno all’osservazione ed al dialogo con i miei figli molto attento, e questo ha fatto in modo che loro siano molto aperti e fiduciosi nei miei confronti. Una delle cose più belle che potessi sentire è mio figlio che, quest’estate in occasione di una vacanza, mi dice “mamma, quando sarò genitore voglio essere come te”.
Io introdussi ai miei figli il discorso sulla transessualità “servendomi” degli amici FtM ed MtF che frequentavano la nostra casa. Ed in particolare si presentò l’occasione un giorno che il maggiore chiese perché una mia amica MtF avesse la voce maschile e quindi io, insieme a lei, gli spiegammo la sua esperienza di persona che vive in un corpo non congruo al sentire psichico e non sente come proprio il sesso biologico di nascita. La sua reazione fu un “ma io sono contento di essere nato maschio, sono contento di essere come sono”, che indicò una buona comprensione per la situazione e sopratutto una reale capacità di discernere e di essere in contatto con se stesso (tanto per sfatare il mito che i bambini possono essere influenzati da omosessuali e transessuali, “deviandoli” dalla loro reale identità ed orientamento e che quindi è meglio non parlare di certe cose nelle scuole, etc..).
Dopo un anno che già io vivevo al maschile e a qualche mese dall’inizio della terapia ormonale “mascolinizzante”, finalmente, sempre il maggiore, mi chiese perché tutti mi chiamassero Egon, nonostante il mio nome anagrafico fosse un altro. Allora, chiamando anche la piccina, ed in presenza del padre, spiegai che quello, pur non essendo il nome che in effetti mia madre e mio padre mi avessero dato, era il nome che avevo scelto per me e che desideravo che gli altri mi chiamassero così, tutti tranne lui e sua sorella, che potevano continuare a chiamarmi come volevano. In quell’occasione si irritò un poco, dicendo che voleva che tutti continuassero a chiamarmi con il mio nome anagrafico (paura di perdere la madre), ed io continuai a tranquillizzarlo sul fatto che per lui niente sarebbe cambiato.
Quindi li misi a conoscenza della mia condizione di disagio e del percorso che avevo iniziato e da allora ho sempre cercato di rispondere alle loro domande ed ai loro dubbi con schiettezza e semplicità, modulandomi chiaramente sulla loro capacità di comprensione e ribadendo in ogni occasione che io rimanevo la loro mamma e che li amavo tantissimo. Un dialogo che mi fece capire la sensibilità dei miei bambini risale ormai ad un paio di anni fa ed avvenne tra me e mio figlio più grande: ero a petto nudo e mio figlio mi disse “Certo mamma che io non ho mai visto un uomo con il petto grande come il tuo”, ed io “E’ perché sono nato donna” e lui “Lo so bene che sei nato donna, ma quando hai cominciato a sentirti uomo, ad un anno?” ed io “Ad un anno no, sei troppo piccolino. Tu hai detto che sei contento di essere un maschio?” lui “Sì, sono contento” io “E sei soddisfatto?” lui “Sì, sono soddisfatto” io “Bene, io alla tua età non ero soddisfatto di essere una femmina” lui “Capisco come ti sentivi” ed il suo sguardo era così carico di comprensione che avrei voluto abbracciarlo per ore.
Questo dialogo lo utilizzai anche (sempre su consiglio della psicologa) a distanza di tempo, quando si trattò di informare i miei figli dell’operazione di mastectomia a cui mi sarei sottoposto di li a breve. In un momento di intimità, sdraiati tutti e tre sul lettone a farci le coccole, chiesi loro se si ricordassero di quando mi avevano detto che il mio petto era troppo grosso. Così gli spiegai che, in effetti, era per me fonte di imbarazzo, e per quanto fosse stato importante avendoli nutriti da piccoli, adesso sentivo l’esigenza di toglierlo per “sembrare sempre più un maschio”. Mio figlio era così a suo agio nei miei confronti, che nonostante il suo carattere tendenzialmente chiuso, sentì di poter esprimere la sua opinione contrastante e mi disse che avrebbe preferito che non lo facessi. Capiva però anche le mie ragioni e da quella sera, specie la piccola, non fecero altro che domandarmi se avevo telefonato al dottore e cosa aspettassi ad operarmi. Noto in effetti una certa differenza tra la figlia più piccola e quello più grande nel vivere la mia transizione, legati forse all’età ed alle peculiarità caratteriali.
La bambina, che forse non ha ricordi della mia vita al femminile, prende tutto con molta apertura: quando mi presenta a qualcuno, immancabilmente cinguetta allegramente “mia mamma si chiama Egon, perché si sente un maschio”. Il più grande invece, in qualche occasione, mi ha confidato un po’ di disagio, cosa che, nonostante il mio primo sentimento sia sempre di panico, denota il buon funzionamento del rapporto. Questo suo disagio è sempre in relazione al rapporto con gli altri (la volta che vengo scambiato per il padre o quando il compagno di scuola fa un commento su di me). Di solito in questi casi si innesta una relazione circolare di rassicurazione: mio figlio parla con me, io, un po’ in preda all’agitazione, parlo con la psicologa, la psicologa parla con me e mi rassicura e mi mette in condizione di ascoltare e di rassicurare efficacemente mio figlio.
Questo è un circolo virtuoso che ha spezzato un circolo che era invece vizioso, quello del senso di colpa. Io, infatti, non mi perdonavo di creare queste difficoltà sociali ai miei figli, come fosse una mia colpa e una mia scelta. L’esperienza mi ha invece portato a riflettere che, innanzitutto, qualsiasi bambino può essere oggetto di sfottò da parte del gruppo dei pari per le più svariate ragioni e che quindi “non serve” avere la madre transessuale per essere preso in giro. Inoltre, l’essere transessuale, non è una scelta e quindi io non posso cambiare la mia condizione. Mio figlio potrebbe ricevere commenti spiacevoli anche se io fossi nero o disabile o straniero… potrei cambiare il colore della mia pelle? Potrei colpevolizzarmi per questo? O qualcuno potrebbe colpevolizzare qualcosa d’altro se non una società non aperta alle differenze? L’unica cosa che posso fare è rafforzare i miei figli nei confronti di queste evenienze, ed anche qui la psicologa mi ha dato alcuni suggerimenti, come ad esempio raccontargli di quando succede lo stesso anche a me.
Quindi, riassumendo quanto imparato finora dalla mia esperienza, nella costruzione di un buon rapporto con i figli che sia funzionale al loro viversi serenamente la transizione del genitore (ma che ha poi tantissime ricadute positive sul rapporto in genere) mi sentirei di evidenziare: l’appoggio psicologico di una persona esperta di cui ci si fidi; l’età dei bambini, più sono piccoli più la situazione iniziale è facile; il rispondere sinceramente alle domande dei figli senza prenderli in giro e senza creargli confusione; aspettare spontaneamente che loro chiedano; e sopratutto il farsi sentire vicini e continuare ad assolvere nei loro confronti lo stesso ruolo di genitore, nella maniera più amorevole possibile.
Questa è la personale storia, la mia, di un genitore transessuale Ftm che ha perso ma ha anche ritrovato un lavoro, che ha comunque, ricostruito con pazienza, l’appoggio della rete parentale di origine, che ha avuto un ex partner oppositivo su molti punti ma mai sull’affidamento condiviso dei figli.
Conosco invece genitori transessuali a cui l’ex partner impedisce loro di vedere i figli, figli (magari più grandi e strutturati) che non riescono ad accettare il genitore trans e lo escludono dalla propria vita e persone trans che, rimaste senza il lavoro che permetteva loro di mantenere i figli, sono state costrette ad interrompere la transizione per riavere la loro attività (niente ripensamenti quindi, ne “errori di diagnosi”, quanto invece pressione sociale).
Conosco anche persone che hanno una relazione talmente solida con il partner da avere resistito al “terremoto” della transizione di uno dei due, e sono rimasti insieme…ma in quel caso, se si è sposati, ci penserà lo stato a dividerli, con il divorzio imposto!
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