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Anarchismo Queer – introduzione


“Crea tu il tuo genere”

E’ l’introduzione del libro di Samuele Grassi di cui potete leggere QUI. Introduzione tratta da A-Rivista Anarchica. Buona lettura!

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La “a” e la “q”

di Samuele Grassi

L’introduzione – che qui proponiamo – al recente volume Anarchismo queer ci pare un buon approccio alle tematiche a esso legate:
dai nuovi movimenti di contestazione dopo Seattle alla messa in discussione delle culture “di genere”, dall’analisi critica del patrimonio teorico e pratico dell’anarchismo alla ricerca di nuove chiavi di interpretazione sociale e di lotta al potere.

Con la proposta di incrociare etica anarchica e resistenza queer, questo volume lambisce lo scarto tra i discorsi su autonomia e autogestione in Italia e in ambito internazionale, in particolare in Inghilterra e negli Stati Uniti. Un presupposto di questo studio è che il postanarchismo e le teorie queer condividono spazi, promesse e ancor più spaccature e passaggi imprevedibili.
Il termine “queer” evoca il superamento delle politiche identitarie gay, lesbiche, bi- e trans del trentennio che va dagli anni sessanta alla fine degli ottanta1. Nella sua accezione di termine-ombrello per racchiudere esperienze e movimenti di liberazione sessuale esso rischia, però, di congelarsi intorno alle politiche integrazioniste incapaci di rapportarsi al pluralismo di differenze costitutivo del termine stesso; in altre parole, rischia di restare un elemento dell’acronimo Lgbtiq, per quanto questo sia insufficiente a contenerlo. Nell’ultimo decennio fenomeni di trasformazione del “queer” (tra virgolette) in un’etichetta facilmente spendibile sul mercato, come prodotto-immagine della cultura globale e globalizzata, hanno rivelato il rovescio del progressismo sessuale riconosciuto all’Occidente: il carrello di Ikea, per citare solo l’esempio di una pubblicità recentemente apparsa in Italia che discuterò in seguito, è la riprova mediatica che i gay (le lesbiche forse ancora no) hanno finalmente raggiunto il potere, non solo d’acquisto2. Ma il queer non è limitato né alla soggettività gay, né al rapporto dei movimenti di liberazione sessuale con il mercato; piuttosto, esso rappresenta le promesse disattese di quello che rimane un ampio progetto politico anti-essenzialista e anti- (o post-) identitario. Di conseguenza, sondare il terreno di critica al processo di omologazione queer è parte di una critica estesa alla normatività oltre i confini nazionali.
Dalle proteste contro l’Organizzazione mondiale del commercio a Seattle (Wto, 1999) al May Day di Londra (2000) e alle manifestazioni contro i summit del G8 in Europa (Praga 2000 e Genova 2001), Giappone e Stati Uniti, fino al momento presente con il movimento Occupy!, lo hacking di Anonymous, il caso wikileaks e la rivolta degli indignados spagnoli, il terreno per riflettere sulla stanchezza nei confronti del potere sembra essere conseguenza inevitabile del progresso di un terzo del mondo a spese dei restanti due terzi; su questo scenario si è aperto il terzo millennio. Da un lato il desiderio di abbattere il potere, dall’altro quello di partecipare alla costituzione democratica del nuovo; cioè il ritorno dell’anti-politica e dell’utopia – che vedremo al centro della definizione, di per sé “im-possibile”, del postanarchismo – avviene nell’ambito di sperimentazioni collettive spesso offuscate dall’attenzione rivolta a fenomeni di violenza episodica, dai media come dalla politica istituzionale. Entrambe adoperano questa strumentalizzazione per reprimere il dissenso e istigare reazioni di pubblica condanna.
Dalla fine degli anni sessanta, il discorso sull’autonomia si è concentrato da noi sulle fasi del movimento operaista, seguendo un tipo di indagine teorico-politica che privilegiava il modello marxista della lotta di classe: movimenti come Avanguardia operaia, Lotta continua e Potere operaio, in cui militavano, tra gli altri, Toni Negri e Primo Moroni dai quali poi prese forma Autonomia operaia (v. Balestrini, Moroni [1988] 1997). Dal sessantotto e per tutto il decennio successivo queste realtà della sinistra extra-parlamentare si sono diffuse su tutto il territorio italiano parallelamente alla nascita dei centri sociali autogestiti. Col tempo, la radicalizzazione economista (anti-capitalista) del movimento autonomo italiano ha rallentato, se non proprio impedito, che si creassero zone di contatto e contaminazioni tra il pensiero dell’autonomia e altre categorie sociali tra cui genere, razza e sessualità. Solo recentemente il modello autonomista italiano di lotta contro l’egemonia si è aperto a queste categorie di oppressione. Ne è esempio UniNomade 2.0 (Napoli), un collettivo di teorici, accademici e non, studenti e attivisti che hanno creato “un laboratorio in cui mettere continuamente in tensione e in discussione la separatezza tra pratiche teoriche e pratiche politiche” (UniNomade 2.0.), usando quindi la “conricerca” per osservare la crisi neoliberista da angolazioni molteplici attente a forme complesse di differenza e oppressione3.
Le esperienze di autorganizzazione delle donne sono un caso a sé stante rispetto a questo quadro di riferimento, a dimostrazione che nei regimi capitalisti oppressione economica e oppressione di genere sono inseparabili. Riprendendo il modello autonomista/marxista e intrecciandolo con la lotta all'(etero)sessismo, fin dagli anni settanta le donne hanno interrogato le categorie di reddito, lavoro, sessualità e riproduzione per denunciare l’immobilismo del patriarcato e la morale cattolica. Così possiamo citare per la situazione odierna l’esempio del Movimento femminista proletario rivoluzionario e del collettivo Facciamobreccia, riconoscendoli storicamente come frutto di reti de-centralizzate che hanno combattuto la violenza e lo sfruttamento anche sessuale con il fine di autodeterminarsi. E forse non è troppo eccentrico supporre che questo femminismo radicale italiano abbia tratto ispirazione dal modello di autonomia e autogestione delle femministe libertarie spagnole Mujeres Libres, che in soli tre anni durante la Guerra Civile (dal 1936 al 1939) aggregarono 20.000 donne contro l’oppressione sistematica, anche quella interna al movimento anarchico spagnolo, per rivendicare l’auto-determinazione economico-politica, socio-culturale e sessuale (v. Ackelsberg 1991; Nash 1975; trad. it. 1991).
La nascita del cosiddetto “movimento dei movimenti” durante le manifestazioni no-global a Seattle ha rappresentato una vera e propria apertura al cambiamento. Riprendendo le esperienze del Social Forum Mondiale di Porto Alegre nel 2002, realtà autonome dei centri sociali, dell’associazionismo e organizzazioni non governative sono entrate in contatto con l’attivismo Lgbt anche in Italia, aprendosi alla contaminazione e allo scambio e condividendo le proprie esperienze a livello locale. Al Social Forum Europeo di Firenze dello stesso anno, ad esempio, il gruppo bolognese Antagonismogay (oggi con il laboratorio Smaschieramenti) proponeva di indagare la coppia vivibilità-visibilità dei soggetti non eterosessuali in rapporto alla dicotomia normalizzazione/controllo, cioè di esaminare le ricadute di strategie politiche Lgbt assimilazioniste nel quadro della deriva neoliberista delle società occidentali. Su questo paradigma, insieme con altre realtà Lgbt/queer e trans italiane e gruppi dalla Grecia e dal Portogallo, gli attivisti bolognesi combattevano il patriarcato etero-sessista, benestante, bianco e omofobo su cui si fondano le società neoliberiste. Allo stesso tempo, però, interrogavano anche l’altra faccia del modello integrazionista Lgbt, cioè il paradigma del progressismo sessuale in quanto strategia a sostegno delle missioni civilizzatrici e guerrafondaie condotte dalle potenze occidentali (v. Azione gay e lesbica 2004)4.
Queste dicotomie strutturano i modelli di gestione della lotta al terrorismo da parte delle “democrazie sessuali” – espressione riferita a “’regim[i] di giustificazione’ dove convivono e si intrecciano i discorsi che riconoscono cittadinanze sessuali come marchio distintivo della superiorità dell’occidente e i discorsi nazionalisti e imperialisti legittimati da questa presunta superiorità”5. Esiste oggi un rapporto diretto tra l’assetto delle società occidentali e le politiche coloniali e imperialiste, come afferma Barbara de Vivo a proposito della campagna del governo di Nicolas Sarkozy in Francia (2010) sul divieto di indossare il velo integrale in pubblico:
“Le popolazioni immigrate di origine musulmana (e non solo) sono specularmente costruite come un corpo estraneo rispetto alla società civile europea poiché portatrici di valori tradizionali che contrastano e mettono a rischio l’avanzamento dei diritti in Europa. Questo uso strumentale dei diritti è indirizzato verso una vera e propria concorrenza tra le donne, i soggetti Lgbtq e gli immigrati, e tra i sistemi di dominio quali il sessismo, l’omofobia e il razzismo […] l’unico margine di ‘emancipazione’ per le donne, i gay e le lesbiche musulmane è quello di allontanarsi dalle ‘culture di origine’ e dalle proprie famiglie ‘tradizionali’ per metterle sotto accusa dopo aver abbracciato il discorso emancipazionista su base concorrenziale in Occidente” (2011: 158-159).
Alle donne e agli uomini musulmani in particolare, e più in generale ai soggetti etnici, eterosessuali e non, si richiede di sottoporsi a vere e proprie forme di amnesia che riguardano il senso di appartenenza e il modo di vivere la propria cultura (v. Puar 2007: 27; Butler 2009). Solo così è loro possibile ottenere il riconoscimento delle società ospitanti in qualità di “soggetti civilizzati” in diritto di cittadinanza: costruzione egemonica volta all’assimilazione agli ideali nazionalisti degli Stati che accolgono. La reificazione del mondo musulmano è avvenuta secondo una scelta tra due termini: il terrorismo (i musulmani sono da combattere) o il multiculturalismo (i musulmani sono da assimilare, da inglobare), accomunati dalla “retorica della modernità sessuale che costruisce il centro imperialista come ‘tollerante’ e al contempo giudica l’altro arretrato come ‘omofobo’ e ‘perverso’” (Eng, Halberstam, Muñoz 2005: 8). Ricordare gli interventi di giornalisti come l’egiziano Magdi Allam, frequenti sulle reti televisive italiane durante la guerra in Iraq e strumentalizzati per facilitare la circolazione della figura del musulmano-terrorista facendo appello alla necessità di “sanare” una cultura retrograda e pre-moderna, è utile per capire quanto questi discorsi ci interpellino direttamente, ma soprattutto come rimettano la questione della “responsabilità” al centro del dibattito filosofico-politico radicale6.
A posteriori, i governi delle cosiddette superpotenze occidentali hanno dimostrato la loro incapacità di gestire l’alterità e le forme del dissenso, se non ricorrendo alla costruzione di barriere di paura e di odio, o all’uso della violenza militare. L’Italia, per citare solo i casi più evidenti, si trova a fare i conti sia con il peso dei fatti accaduti alla scuola Diaz e l’uccisione di Carlo Giuliani, sia con gli effetti di una politica dell’immigrazione basata sul rafforzamento dei confini e delle divisioni tra il medesimo (occidentale) e l’Altro (non-occidentale), tra “noi” e “loro”, tra civiltà e pre-modernità.
Nel caso dell’Italia, ciò riguarda sia il ruolo degli Stati Uniti nell’assetto delle potenze mondiali sia quello dell’Europa, dove perdurano le volontà di implementare una Unione di entità sovranazionali come soggetto politico-economico autonomo (v. Anim-Addo, Covi, Karavanta, 2010a, a cura di). Esse sono in conflitto con il rafforzamento dei confini con cui i vari Stati intendono difendersi dai nemici esterni e interni, che si tratti dell’Islam come entità univoca o di popolazioni immigrate e/o richiedenti asilo che cercano di raggiungere le coste mediterranee settentrionali, pagando (a) qualunque costo, spesso con la vita. Creare nuove forme di pluralismo democratico che operino ai e sui limiti di società liberaliste sul modello di quella statunitense permette di sottrarsi a quelle realtà cooptate nel progetto nazionalista degli stati-nazione su base eurocentrista: un compito necessario per chi è impegnat* in progetti teorico-politici di critica non solo all’eterosessualità normativa.

Relazioni

Dai primi anni novanta, la filosofia politica sollecitata dal termine “postanarchismo” si è interrogata sul bisogno di rileggere le origini della teoria e della prassi anarchiche per sviluppare nuove pratiche etiche della responsabilità. Così come il queer rischia di essere ridotto a un termine ombrello con cui rinunciare alla differenza in cambio di visibilità e assimilazione, il postanarchismo rischia di diventare slogan di una politica difficilmente spendibile in termini di rapporti tra l’individuo e il sociale, rischio in parte connesso all’uso del prefisso “post-” (v. capitolo I). Nell’obiettivo di precisare la scelta terminologica tra anarchismo e postanarchismo, in questo libro adotterò il secondo riferendomi a tesi e testi che operano nell’ottica di espandere i limiti di una visione (l’anarchismo “classico”) ritenuta obsoleta, rileggendo o dialogando con altre filosofie radicali del novecento come il poststrutturalismo francese, il femminismo, gli studi sul genere e la sessualità, le teorie queer. “Anarchismo”, invece, indicherà la filosofia politica radicale propositiva di un’etica anti-autoritaria, storicamente collocata nel XIX secolo ma sempre e ancora internazionalmente attiva; un insieme eterogeneo che ricondurrei a tre questioni principali: la critica al potere, la relazionalità e l’utopia come parametri per la ricerca di forme non-gerarchiche del vivere (v. Daring et al. 2013a, a cura di; Gurrieri 2010).
Le teorie queer hanno radicalizzato il discorso sul genere e la sessualità muovendo da un’articolazione fluida dei due concetti, e attivando una serie di pratiche discorsive non-egemoniche che sembrano incrociarsi produttivamente con il discorso postanarchico. Il modello della performatività queer presuppone una corrispondenza univoca tra “dire” e “fare” qualcosa, quindi è breve il passo verso la concezione di un mondo che si fa teatro e di un teatro che è già mondo (Frabetti 2011a: 33, 30). La performatività queer ha attraversato la filosofia del linguaggio di John L. Austin, il decostruzionismo di Jaques Derrida, le teorie sul genere di Judith Butler (1990, 1993 e 2004) e Eve Sedgwick (1990). In particolare, Derrida ha contribuito presupponendo che qualunque cosa accada in situazioni ordinarie del sociale è inclusa in un catalogo di convenzioni normative che la rendono accettabile; si tratta, appunto, di citazioni senza matrice7. In questo modo, il queer ha sovvertito la concezione essenzialista delle lotte identitarie (lesbo, gay, bi-, trans) come un caos rivoluzionario dalle forti connotazioni anarchiche, che tuttavia sono sempre state parte di un’etica della liberazione sessuale (v. Daring et al. 2013a, a cura di; Heckert, Cleminson, 2010 e 2011a, a cura di; Kissack 2008).
Il caos anarchico continua oggi a essere associato, spesso per comodità, a un’etica della violenza che le idee proposte in questo volume rifiutano. Inserendosi nell’ambito di teorizzazione offerto da un numero ancora esiguo di testi circolati in Italia di recente, così come da un numero maggiore di siti internet e blog, questo saggio intende piuttosto mettere l’accento su quelle forme di resistenza che, sfruttando la rete (anche nel senso di Internet) per la circolazione di resoconti di esperienze e materiali di vario tipo (audio, video, scritti ecc.), rappresentano esempi documentari importanti di interventi autogestiti di grande impatto.
Penso, ad esempio, alle pratiche di azione diretta del Clandestine Insurgent Rebel Clown Army (Circa), vere e proprie performance collettive ispirate ai movimenti di teatro di strada come l’agit-prop e altre avanguardie degli anni sessanta e settanta. Nato nel Regno Unito nell’ambito delle proteste contro la guerra in Iraq e poi diffuso in altri paesi europei, il Circa propone l’uso del linguaggio del corpo per inscenare proteste dalla teatralità giocosa e ironica, partecipate da attiviste/i in tuta mimetica, trucco e parrucche da clown. Penso alla mobilitazione in occasione del G8 a Gleneagles, in Scozia (2005), una delle tante costruite dal gruppo, durante la quale i militari-clown stringevano in un abbraccio i membri delle forze dell’ordine, mimando pianti e risate di gruppo, schioccando baci col rossetto rosso sugli scudi anti-sommossa della polizia. Sono immagini straordinarie e dirompenti per la sincerità con cui queste pratiche de-codificano e ri-codificano il corpo per riprendere spazi che ci sono stati sottratti e ristabilire “legami di comprensione infiniti” (Maddog 2009) oltre ogni confine, barriera e differenza con cui il neoliberismo ha reciso l’essenziale socialità umana.
Nonostante i tentativi coatti di repressione, screditamento e marginalizzazione, l’ondata di dissenso a livello mondiale ha dimostrato il bisogno di negoziare alternative sostenibili al capitalismo e al suo collasso. Essa ha ripensato la rivoluzione come negoziato continuo e come esplorazione di forme di resistenza collettiva, agite abbattendo confini e superando barriere in nome di una giustizia universale ben diversa da quella predicata dalle istituzioni senza effettiva ricaduta sul sociale:
“Le forme di protesta e di opposizione che stanno evolvendosi in mezzo mondo, puntano i piedi sull’estrema necessità di ripensare le forme della comunicazione, una conquista. Collettivi molto radicati propongono tattiche inesplorate nelle strade durante cortei anti-capitalisti con una passione differente e veramente coinvolgente, magari anche con riferimenti più pungenti e sotterranei” (Maddog 2009).
In questo tipo di mobilitazioni vi è la stessa teatralità, la stessa propensione all’aspetto ludico della resistenza e alla sovversione di linguaggi attraverso il corpo che ha contraddistinto l’attivismo dei movimenti di liberazione sessuale dal Gay Liberation Front a Stonewall fino ad Act Up, prima negli Stati Uniti poi in Inghilterra nell’attivismo di OutRage! dei primi anni novanta. Le pratiche di azione diretta di questi movimenti rappresentavano forme “esperienziali” di teatro per valutare “non soltanto un futuro alternativo, possibile, ma anche quali identità potessero costruirsi al suo interno” (Greer 2012: 134, 136). Seguono e hanno seguito questi esempi le reti internazionali anarcoqueer, tra cui Bash Back!, Gay Shame, Ladyfest, Queers Without Borders, Queeruption e Queer Mutiny. Con una storia relativamente recente e in parte giù documentata in ambito anglofono e in altri paesi in Europa, esse sovrappongono discorsi ed etiche antagoniste queer, femministe, anticapitaliste e antirazziste, partecipando in azioni di massa transitorie e incontenibili. Ognuna di queste reti costituisce una micro-politica dell’effimero, che corrisponde alla definizione di T.A.Z. – zona temporaneamente autonoma di Hakim Bey: “una sommossa che non si scontri direttamente con lo Stato, un’operazione di guerriglia che libera un’area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo, prima che lo Stato la possa schiacciare” (1991; trad. it. 2007: 15)8. Ancora in questo ambito è da collocare il movimento pink, un insieme disperso di pratiche libertarie del desiderio e del piacere anche sessuale, di etiche hacker “black, pirate”, le cui radici affondano nelle sottoculture punk dagli anni settanta in poi: “La chiave di volta del Pink è costituita da forme di convergenza fra tendenze e forme d’espressione pink queer e attivismo noglobal, secondo una progressione/commistione di significati che possiamo sintetizzare come pink, punk, no global […] Pink vuol dire femminista, queer, strano, libertario, vuol dire dissenziente, deviante, vuol dire aggressività gioiosa. Tutte qualità intrinsecamente eretiche e noglobal” (Foti 2009: 46, 47).
È interessante notare come, per i motivi esplicitati in apertura a questa introduzione, in Italia spesso attivismo pink, antagonismo queer, teorie e pratiche anti-autoritarie convergano, senza necessariamente auto-definirsi anarcoqueer come invece avviene in altri Paesi: con l’eccezione delle mailing-list “Deviazioni” (http://www.ecn.org/deviazioni/) sul sito Ecn (Isole nella rete) e il blog “anarcoqueer.wordpress.com” di recente formazione, si tratta perlopiù di collaborazioni internazionali e di attività – dalla circolazione di materiali in Rete all’organizzazione di raduni, convegni, gruppi di discussione e interventi – da parte di movimenti attivi in varie zone sul territorio nazionale. Basandomi su scritti che trattano di networking, antagonismo radicale e sottoculture queer (A/I 2012; Bazzichelli 2006; Foti 2009; Ilardi, 2009, a cura di; Warbear 2009a, 2009b) e su informazioni tracciabili in Internet fino al passaparola di contatti negli ultimi due anni, in questo studio discuterò dei gruppi Antagonismogay/Smaschieramenti, FrangettEstreme, Mujeres_Libres, Sexyshock di Bologna; A/Matrix, OrgogliosamenteLGBTIQ, Phag Off! e il collettivo Facciamobreccia di Roma; Pornflakes queer crew di Milano e la Torino Samba Band. Al momento, il recente libro La società de/generata di Alex B. (2012)9 risulta inoltre essere il primo e finora unico studio a trattare sul piano teorico l’evoluzione di un anarchismo queer, dimostrando lo stato ancora tutto “in-divenire” di queste istanze di critica anti-normativa.

“Quest’anno va di moda
il rosa su fondo nero”

Utopie

In contesti anglofoni, l’espressione queer(ing) anarchism si riferisce alle connessioni possibili tra i modi di fare esperienza del mondo attraverso la lente della sessualità, caratteristici del queer, e i principi anti-autoritari dell’anarchismo10. Secondo Deric Shannon e Abbey Willis questo incrocio è anzitutto capace di sovvertire ogni criterio di oggettività poiché rifiuta l’autorevolezza di un unico punto di vista proponendo al suo posto un pluralismo di prospettive: “un collasso dell’anarchismo per accogliere una anti-identità politica allo stesso modo in cui il queer doveva rispondere (o, forse, estendere la domanda?) alle questioni di identità sessuale e di genere” (2010: 440); e suggeriscono di perseguire un “poliamorismo teorico” che adotti posizionamenti, sviluppi discorsi e prospettive eterogenee e anche apparentemente contraddittorie, nel privato come nel pubblico-politico: “una discussione per stabilire connessioni tra i modi di amare e di pensare, e abbattere le barriere del pensare/agire/amare e così via accettate in un mondo di principi gerarchici, di coercizione e di controllo. Un controllo in parte svelato se si dimostra il processo di naturalizzazione di queste distinzioni categoriche e si inizia a mettere in discussione la necessità di operare distinzioni tra modalità differenti di interessarsi alla vita e alle idee” (2010: 440).
Sempre seguendo Shannon e Willis, nella seconda parte di questo volume incrocerò teorie e posizionamenti non sempre facilmente intersecabili al fine di dimostrare la loro rilevanza per una critica anti-essenzialista alla normatività. Da tali processi di sovrapposizione e contaminazione emergeranno quelle che definisco “etiche della responsabilità”11.
Nel tentativo di attribuire una riflessione teorico-filosofica e un soggetto politico alle connessioni in oggetto, Benjamin Shepard individua una serie di affinità tra prassi postanarchiche e queer: entrambi scelgono “il piacere e la democrazia diretta piuttosto che le logiche del profitto”, e promuovono un concetto di libertà basata sull’auto-determinazione che comprenda anche “esperienze eclettiche, dinamicità e sperimentazione” e critichi ogni forma di normatività. Infine, nel rivendicare “il rispetto del piacere” contro il proibizionismo sessuale, postanarchismo e queer condividono “una cultura della resistenza” sottoforma di T.A.Z. (nell’anarchismo) e controculture (nel queer) (v. 2010: 515-18). A queste linee, che condivido, aggiungerò a fine volume un altro importante termine di confronto ripreso dal femminismo deleuziano di Rosi Braidotti e dalla critica alla violenza etica di Judith Butler: il concetto di “responsabilità”. Il sé è sempre vulnerabile all’Altro e viceversa, dice Butler; nel momento in cui il soggetto si rende umilmente consapevole della propria vulnerabilità, l’etica si apre all’incontro con e tra differenze (2005; trad. it. 2006). L’anarchismo queer, così come è mio obiettivo presentarlo, rappresenta il tentativo di contaminare i confini tra teoria e pratica, di radicalizzarli attraverso letture anti-autoritarie delle differenze seguendo i percorsi inevitabilmente affini del (post-)anarchismo e del queer, per riflettere su quali nuove dimensioni di libertà consentono e, soprattutto, quali vietano: un discorso dedicato al confronto con alcuni principi, su tutti quelli di democrazia, pluralismo, singolarità, etica, sostenibilità e responsabilità12.

Red Emma

Il volume è organizzato come segue. Nel capitolo I riassumo i tratti significativi delle teorie di Lewis Call, Todd May e Saul Newman attraverso una lettura dettagliata di alcuni loro scritti, concentrando l’analisi su tre questioni: la localizzazione del post-anarchismo nell’ambito delle filosofie politiche radicali contemporanee, la critica al potere e le figure della resistenza da loro proposte. In questo capitolo è importante il concetto di genealogia ripreso dagli studi di Michel Foucault: un metodo d’indagine a cavallo tra storia, filosofia e sociologia che interroghi le condizioni di emergenza di un fenomeno anziché limitarsi a posizionarlo su un asse puramente cronologico. Essa “serve a sovvertire l’apparente inevitabilità del presente. Dirompente, sovversiva, la genealogia sottolinea l’alterità del passato mostrando la propria immagine multipla nel presente, un’immagine soggetta a un’alienazione costitutiva” (Love 2007: 44). L’anarchismo “della soggettività” con cui Newman, leggendo Max Stirner e Foucault, propone un soggetto (post)anarchico anti-essenzialista, plurale e democratico, è un concetto rilevante per l’etica, sul quale torno più volte nel corso del volume. Introdotto in vari scritti il postanarchismo come nuova filosofia politica in Italia, Salvo Vaccaro sostiene infatti che: “quando il post-anarchismo riflette intorno alla soggettività, intende anche offrire come spunto di riflessione l’interrogativo sull’unità del soggetto storico incarnato nei corpi degli individui, contrapponendo a tale categoria la nozione più sfumata di singolarità, al plurale, che convivono entro la cornice identitaria di uno stesso individuo” (2008: 8).
Prendo dunque in esame la questione di una soggettività anarchica queer, se questa sia in grado di prefigurare mappature sostenibili del radicalismo politico o se addirittura essa non sia già parte integrante dei rispettivi progetti – il postanarchismo e il queer – che compongono l’analisi di questo saggio.
Il capitolo II, seguendo Foucault e Butler discute il principio di opacità del soggetto come presupposto di un’etica relazionale della vulnerabilità; verso questo tipo di etica anti-fondazionalista si orienta la discussione del rapporto tra femminismo e anarchia da Mary Wollstonecraft a Emma Goldman, per poi arrivare alle tracce di soggettività anti-autoritarie negli scritti di femministe non-essenzialiste della fine del secolo scorso. Gli scritti di Goldman sono fondamentali per la costruzione di una genealogia del femminismo anti-autoritario; come sostiene Bruna Bianchi, “attraverso la sua vita e la sua elaborazione teorica [Goldman] ha contribuito a dare una dimensione femminista all’anarchismo e una dimensione libertaria al femminismo” (in Goldman 1910; trad. it. 2009: 21)13. Goldman si concentrava su questioni molteplici, dalla necessità per ogni donna di emanciparsi dalla doppia tirannia subita sia a livello personale/intimo sia come soggetto politico, alla “tragedia” del suffragio che, in quanto movimento borghese, non poteva né affrontare radicalmente né tantomeno risolvere l’oppressione femminile nel sociale (v. Bettini 1999). Ma intanto qualcosa si poteva fare, perché “la vera emancipazione non inizia dai seggi elettorali né dai tribunali. Ha inizio nell’animo della donna” (Goldman 1910; trad. it. 2009: 114).
Goldman credeva nella pratica dell’amore libero come alternativa radicale al matrimonio e si schierava apertamente contro la “tratta”, un subdolo meccanismo patriarcale che costringeva le donne, specie quelle non sposate, a prostituirsi (v. Jose 2005); e combatteva affinché le donne si liberassero dai “tiranni interiori” effetto del sessismo in ogni relazione sociale disponibile (v. Jose 2005), che impedivano lo sviluppo autonomo di individui liberi capaci di condividere forme di socialità alternative alla “bancarotta morale” dello Stato. Intrecciando femminismo e anarchia nella teoria e nella pratica, la resistenza allo Stato proposta da Goldman era una “combinazione strategica di individualismo e sessualità per destabilizzare le definizioni patriarcali di genere” (Borghi 2002: 6).
Le variazioni del e sul genere in Goldman possono essere lette dal punto di vista di una “androginia intellettuale” rintracciabile anche nell’appello di Wollstonecraft alla maschilizzazione delle donne in un passo interessante di A Vindication of the Rights of Woman[Rivendicazione dei diritti delle donne]: “se è contro l’imitazione delle virtù maschili, o più propriamente, il raggiungimento di quelle capacità e virtù il cui esercizio nobilita il carattere e innalza le femmine nella scala degli esseri animali, quando le si include entro il termine comune di umanità, credo che tutti coloro che le osservano con occhio filosofico si augurino con me che esse diventino sempre più mascoline” (1792; trad. it. 2008: 29).
Wollstonecraft continua qui una discussione precedente, nella quale ha discusso l’ostracismo sociale subito dalle donne che mostrano abbigliamento, abitudini o comportamenti non conformi agli stereotipi di femminilità della morale borghese, e osserva che “se una donna di intelletto tenta di dare un’inclinazione più razionale alla conversazione, la fonte comune di consolazione è che questa donna difficilmente troverà marito” (1792; trad. it. 2008: 123).
Appropriandosi di questi stereotipi e ribaltandone gli esiti, il suo obiettivo non è sostituire il potere femminile a quello maschile, poiché questo comporterebbe solo un temporaneo spostamento di confini, ma lavorare in un’ottica di ri-significazione del genere. Un’ottica che attraversi il maschile e il femminile verso articolazioni mobili, fluide, antitetiche al potere repressivo della società e della cultura messa sotto accusa attraverso la sua disamina del sistema educativo nell’Inghilterra di fine settecento.

Il femminismo nord-americano non-bianco

Il femminismo ha condotto battaglie da una pluralità di prospettive, partecipando a teorie e pratiche in costante ridefinizione. Così come è avvenuto per alcune teorie queer, il femminismo identifica il luogo di “un movimento (un queering)” tra posizionamenti diversamente situati e localizzabili all’interno di un progetto ampio di liberazione dalle oppressioni, su tutte la lotta al sessismo (Busarello 2010: 57). Nella gestione di queste lotte, il femminismo ha posto almeno due ordini di problemi, il primo dei quali riguarda la natura dell’oppressione. In particolare, esso ha stabilito “che le forme di oppressione non sono tutte identiche, ma anzi diversamente strutturate, e che si intersecano in incarnazioni complesse. Il confronto tra i differenti assi d’oppressione sarebbe dunque un lavoro cruciale, non perché consentirebbe di gerarchizzare le oppressioni, ma, al contrario, perché la relazione che ciascuna oppressione intrattiene con altre particolari articolazioni del sistema culturale potrebbe essere singolarmente rivelatrice” (Sedgwick 1990; trad. it. 2011: 66).
Il secondo ordine di problemi riguarda il confronto con la creazione di soggetti e figure della resistenza che non corrano il rischio di replicare strutture e meccanismi autoritari – un ambito in cui rimane vitale, almeno fino dagli anni ottanta, il contributo del femminismo nord-americano non-bianco, al quale guardo, in parte, per discutere la prospettiva di alcune soggettivazioni femministe a conclusione del capitolo II: il cyborg di Donna Haraway, il soggetto intersezionale di Kimberlé Crenshaw e la mestiza di Gloria Anzaldúa14.
Con la scelta di tesi e testi di una genealogia come la mia intendo sostenere che le zone di contatto tra femminismo e anarchia non si concentrano sull’archivio anarco-femminista “canonico”, che dovrebbe necessariamente includere anche Voltairine de Cleyre, Angela Heywood, Louise Michel, Etta Palm e Lois Waisbrooker, e, dagli anni settanta, le zines, i testi di Martha Ackelsberg, Carol Ehrlich, Peggy Kornegger così come lo SCUM Manifesto di Valerie Solanas (1967) fino alla raccolta di testi del gruppo Dark Star Collective (2002) e, in Italia, all’etica cyber di Helena Velena, indubbiamente importanti. Apro però la sezione sulle radici del femminismo anti-autoritario dall’incontro tra Wollstonecraft e William Godwin, per poi arrivare a dialogare con tesi e testi anche di femministe che non si definiscono anarchiche, ma che presentano affinità più o meno marcate con discorsi che intreccerò, tra queste Donna Haraway e Rosi Braidotti. Come sostiene Alix Kates Shulman, infatti, l’etica femminista e una politica antiautoritaria come l’anarchismo sono entrambi “sostanzialmente e fortemente anti-gerarchici e anti-autoritari. Entrambi operano in forme di organizzazione sociale consensuali dal basso, si affidano all’impegno collettivo di gruppi esigui, come ad esempio i centri di assistenza domiciliari, centri di accoglienza per donne maltrattate, squadre anti-stupro, gruppi per la presa di coscienza, anziché grandi coalizioni di partito; entrambi poi scelgono il cambiamento attraverso l’azione diretta” (2007: 252).
Nel capitolo III indago alcuni aspetti dei presupposti etico-politici del discorso antirelazionale/antisociale di alcun* teoriche e teorici queer. In risposta alla capitalizzazione (in parte anche mediatica) delle identità sessuali, costoro rifiutano la felicità imposta dai modi di vivere out and proud proponendo politiche del fallimento, delle passioni tristi, di sessualità anti-normative con le spalle volte al futuro; e mostrano l’ubiquità di relazioni con il potere definite il fondamento di un progresso continuamente riattivabile e riattivato, dietro al quale r-esistono soggetti e articolazioni effimeri e rivoluzionari. Queste riflessioni formano il contesto per discutere l’omonormatività e l’omonazionalismo prendendo spunto anche dalla lettura di testi culturali di massa (pubblicità e fotografia), ognuno dei quali diventa una “scena strutturante dell’interpretazione” (Butler 2009: 85), cioè compie di per sé l’atto di interpretare l’oggetto/il soggetto rappresentato. Nella teoria e nella pratica, il queer abita gli spazi dell’utopia poiché comprende una parte politica di contestazione di ciò che esiste, segnando il limite di ciò che esiste e di ciò che “potrebbe essere” (v. Muñoz 2009: 38). Se la molteplicità di punti di vista adottata per confrontarsi con i discorsi sulle differenze e la loro diversa realizzazione sovverte il binarismo “dentro/fuori”: dentro/fuori la “teoria, dentro/fuori la ”resistenza“, dentro/fuori la “politica”, ci si interroga su ciò che comporti in termini di costi, di sostenibilità e responsabilità [accountability] per il soggetto; e su come si giustificano questi costi nell’ambito di una critica alla normatività del potere e al potere della normatività.
Lo sforzo necessario per abbandonare le strutture invisibili del sé, quelle che Wollstonecraft riconduceva all’ideale borghese di sensibilità nell’Inghilterra del Settecento e che Goldman definiva “tiranni interiori”, è un passo importante, se non il più urgente. Promuovere iniziative che prevedano un certo distacco dai fondamenti del consenso democratico è altrettanto necessario; questo spostamento può aiutare a differenziare tatticamente – nel senso che ricorre in questo volume (cfr. May 1994; trad. it. 1998) – il “noi” collettivo da un “io” impuro, anti-fondazionalista in ricerca di sostenibilità etiche che includano la relazionalità con l’Altro. Si tratta quindi anche di coltivare “alleanze non violente” (Frabetti 2011b: 85) alternative alla comunità, la quale è inevitabilmente costruita in base alla logica binaria inclusione/esclusione e quindi a un meccanismo gerarchico costretto a ripetersi.

A proposito di anarchia

Sull’onda di questo ragionamento Newman sostiene che, nelle loro tesi, Foucault, Gilles Deleuze e Félix Guattari hanno finito col replicare, almeno in parte, la logica binaria del potere: hanno investito di una certa autorità una serie di figure anti-essenzialiste (i corpi e i piaceri per Foucault, il corpo-senza-organi e il rizoma per Deleuze e Guattari) che, per quanto efficaci, non riescono a portare a termine la creazione di un soggetto, aggiungerei “incarnato”, della resistenza. Diversamente, la decostruzione di Derrida
“permette di aprire il dominio dell’etica alla re-interpretazione e alla differenza, e quest’apertura è di per sé etica. È un’etica dell’impurità. Se la moralità è sempre contaminata dal suo altro – se non è mai pura – allora ogni giudizio morale, ogni decisione è per necessità indecidibile. Il giudizio morale deve sempre essere auto-inquisitore e cauto, perché privo di fondamenti assoluti” (Newman 2001: 127).
Un’entità etica consapevole della propria impurità serve a Newman come veicolo per confutare il presupposto morale della legge. L’ideale di giustizia derridiano non si sedimenta, continua Newman, si modifica di volta in volta a seconda delle contingenze; il suo unico legame di dipendenza è con un’etica della responsabilità che ne contraddistingue e ne caratterizza la costituzione15. La giustizia “conserva la legge poiché opera in nome della legge; ma allo stesso tempo sospende la legge nel processo di reinterpretazione continua”. Se ad “anarchia” si sostituisce il termine “an-archia”, cioè un tipo di azione “costretta a rendere conto di se stessa, proprio come questa costringe l’autorità a fare altrettanto”, è possibile aprire l’esterno all’interno, costituire resistenza dall’interno del potere verso un fuori in continuo movimento: “Derrida allude alla possibilità di un fuori generato dall’interno […] Rivela questa ‘linea’ dell’indecidibilità esistente tra interno e esterno, e opera ai limiti dell’interno per trovare un esterno, proprio come opera ai limiti della tesi poststrutturalista per trovare un ‘oltre’” (Newman 2001: 128, 130-131).
L’an-archia, per Newman, allude in effetti all’impossibilità di affidarsi a principi morali e/o linee guida come forme di prassi politica e etica. Il poststrutturalismo ha dimostrato che i concetti di moralità e razionalità su cui si è impostata gran parte della filosofia politica, se essenzializzati, sono in realtà strumenti normativi per “giustificare il dominio” di soggetti non conformi (2001: 161-164). Per questo motivo, un’etica senza fondamento (v. anche May 1994), che attraverso la significazione vuota [empty signification] della semiotica rompa il legame significante-significato per aprire al divenire e al pluralismo, potrebbe performare il ruolo di un “tendere a” che ritengo abbia affinità profonde con le teorie queer. Occorre tuttavia precisare che, più che di una rottura, si tratta, come si vedrà, di una tensione tra significante-significato e un’etica del divenire in cui il soggetto si (ri)crea ogni volta in maniera diversa. In altre parole, la contraddizione diventa il presupposto dell’etica, anziché un ostacolo alla sua affermazione, poiché genera possibilità e alternative inaspettate (Newman 2001: 165, 167).
A questo proposito, Federica Frabetti, parlando del suo rapporto con il queer, fa riferimento alla “possibilità di pensare a un futuro possibile come promessa non messianica, come l’inatteso […] come portatore di qualcosa che non possiamo prevedere (e che perciò cambierà il mondo)” (in Pustianaz, 2010, a cura di: 85). “Queering anarchia” (capitolo III) vuol dire anche riconoscere che queste due politiche radicali condividono un investimento passionale nei luoghi dell’altrove, in un futuribile ancorato al presente che deve necessariamente restare eccentrico, evitando di cristallizzarsi su identità fisse e di perdere la sua sostanziale radicalità antagonista. Così facendo il queer incrocia già il dominio etico del postanarchismo; per Newman, ad esempio, l’inatteso è alla base di teorie e prassi in grado di prendere le distanze da un’etica fondata su principi immutabili, e di permettere di sperimentare nel presente forme di sostenibilità posticipate:
“non bisogna accontentarsi mai delle forme esistenti di democrazia ma piuttosto impegnarsi per una maggiore democratizzazione nel qui e ora; per un’articolazione continua della promessa democratica im/possibile di una libertà e un’egualità perfette […] e integrare il concetto di democrazia a venire con una micro-politica e un’etica libertaria allo scopo di rimuovere i nostri investimenti psichici nel potere e nell’autorità inventando pratiche inedite della libertà” (2010: 180, 181)16.

Ripensare l’agire individuale

La conclusione del volume è suddivisa in due parti: nel capitolo IV discuto le pratiche pink/queer nate nell’ambito delle mobilitazioni di massa del movimento dei movimenti, per poi concentrarmi sulla questione della responsabilità partendo dagli spunti teorici cui ho già accennato. Essi riflettono sull’urgenza di ri-pensare l’agire individuale nel mondo nella teoria e nella pratica, partendo da incontri imprevedibili con l’alterità – altre teorie, altre pratiche, altri soggetti, che ci rendono necessariamente impur* – come pratica quotidiana di operare il dissenso. Infine, la “Coda” contiene una sequenza di spunti, riflessioni e proposte per negoziare un’etica queer risultante dagli incroci sviluppati nei capitoli precedenti. Attraverso il dialogo tra sessualità, teorie queer ed etica anarchica cerco di proporre il soggetto queer come colei/colui che intuisce il fondamento della propria presenza nel mondo in ciò che non le/gli appartiene; un soggetto politico sempre già contestualizzato in un “fuori interno” al potere (v. Newman 2001). L’anarchismo queer rompe i legami tra significanti e significati nell’articolazione dell’esperienza e li sostituisce con espressioni singolari, autonome, anti-autoritarie in continuo divenire. Qui e ora.

Samuele Grassi

Note

  1. È indubbiamente riduttivo consegnare il queer all’ambito di un superamento delle politiche identitarie della sessualità; tuttavia, intendo esplicitare i vari richiami in termini di teoria e di pratica politica nel seguito di questa introduzione e nei capitoli successivi.
  2. Ringrazio Massimiliano Bertelli e la redazione della rivista Il Grandevetro per avermi permesso di presentare queste riflessioni in un intervento sul numero Questa o quello per me pari sono (103, 2012).
  3. I suggerimenti di Clotilde Barbarulli, Liana Borghi, Renato Busarello, Giovanni Campolo e Marco Pustianaz sono stati preziosi per le riflessioni in oggetto, qui e altrove in questa introduzione.
  4. Nel capitolo III, questo paradigma è al centro della discussione dell’omonazionalismo (v. Puar 2007 e altri).
  5. “Democrazie sessuali” è un termine particolarmente efficace ripreso dalla critica all’omologazione queer e mutuato dall’attivismo italiano. Nel 2011 Facciamobreccia ha organizzato un convegno sul tema (v. capitolo III), posizionando l’Italia come una democrazia sessuale “fantasma” in quanto occupa una posizione sia interna, sia esterna in questo ordine: “una periferia europea e mediterranea in cui convergono normativa antidiscriminatoria e respingimenti in mare, globalizzazione e identitarismo regionalista, neoliberismo in crisi e conservatorismo religioso” (Facciamobreccia).
  6. Mentre faccio queste considerazioni, si avvicina la presentazione del neo-partito di Magdi Allam, Io amo l’Italia (1 dicembre 2012).
  7. Nella sua applicazione della citazionalità ai fondamenti del concetto di genere, Butler sostiene che citando il genere stesso, anch’esso una copia senza originale, ci si rende conto della capillarità delle norme che lo regolano e dei loro effetti, e si dimostra la sua vulnerabilità in quanto categoria (Frabetti 2011a: 35-6).
  8. Ciò che rende la T.A.Z. realmente dirompente e sovversiva di ogni ordine precostituito è proprio la sua transitorietà, il modo in cui stabilisce il potere creativo dell’effimero. Prosegue Hakim Bey: “Appena la T.A.Z. è nominata (rappresentata, mediata) deve svanire, svanirà, lasciandosi dietro una corteccia vuota, solo per poi saltare fuori ancora da qualche altra parte, ancora una volta invisibile perché indefinibile in termini dello Spettacolo” (1995; trad. it. 2007: 15).
  9. La società de/generata. Teoria e pratica anarcoqueer, Nautilus, Torino.
  10. Essa ha riscosso un discreto interesse fin da subito, come dimostra anche la rete internazionale Anarchist Studies Network fondata dai ricercatori britannici Ruth Kinna e Alex Prichard, che contiene sezioni su “Gender” e “Sexuality”.
  11. Attraverso la sua critica all’eteronormatività, il queer è un modo per delegittimare il valore intrinseco attribuito alle identità sessuali dominanti: partendo da questo presupposto Laura Portwood-Stacer afferma che questo modello di critica “echeggia nella filosofia fondamentale dell’anarchismo, nell’impegno all’autonomia e all’opposizione contro le gerarchie, cioè a relazioni di potere inique che autorizzano una violazione dell’autonomia di alcune persone da parte di altre” (2010: 480).
  12. Ringrazio Aldo Ceccoli per aver stimolato le mie riflessioni su questo e altri punti di questa introduzione.
  13. Sul rapporto tra femminismo e anarchia in Emma Goldman, v. anche Wexler, cit. in Hewitt 2001: 313.
  14. In proposito, si vedano Heckert, Cleminson, 2011a, a cura di; Rousselle, Evren, 2011, a cura di.
  15. In Jacques Derrida, la differenza tra giustizia e legge è tale che, a differenza di quest’ultima, la giustizia si apre sempre all’altr*; diventa imprevedibile, proprio perché altrimenti non avrebbe ragione di contrapporsi alla legge stessa.
  16. L’anarchia a venire di Newman è una rielaborazione del concetto di a-venire di Derrida.

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