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Hannah Arendt, quella straordinaria pensatrice indipendente

Da Abbatto i Muri:

Se Hannah Arendt fosse vissuta e avesse sviluppato il suo discorso sulla “banalità del male” ai tempi dei social network sarebbe stata sicuramente vittima di cyberbullismo e cyberstalking. Ai suoi tempi, ovvero non moltissimi decenni fa, esistevano telefonate e lettere, oppure gli editoriali al vetriolo di persone che l’hanno definita arrogante, traditrice, e via di questo passo. Perché?

Chi ha letto la Arendt come l’ho letta anch’io e dalla sua opera ha tratto insegnamento sicuramente non è rimast@ affatto sorpres@ vedendo il film. Quello che il film dice è cosa nota. C’è lei, raccontata con una meravigliosa destrezza (per quanto ad alcun* il film non sia piaciuto) da quella splendida regista che è Margarethe Von Trotta, bravissima l’attrice interprete nel ruolo della Arendt, Barbara Sukowa, e poi c’è un frammento, certo insufficiente ma importante, di quel suo percorso, ai tempi in cui in Israele si celebrò il processo contro Eichmann e la Arendt chiese al New Yorker di inviarla ad assistere per farne una cronaca. In realtà poi scrisse un saggio politico e filosofico noto a tutti con il titolo de “La banalità del male“, diviso in cinque parti sulla rivista e in seguito pubblicato anche come libro.

Aveva lei già suscitato un dibattito complesso con il saggio “Le origini del totalitarismo” dove metteva tutti i regimi totalitari, qualunque fosse l’ideologia politica che li ispirasse, esattamente sullo stesso piano. Questo suo ergersi oltre il discorso puramente identitario, senza cercare scuse, giustificazioni ma tentando, così come fece per tutta la sua vita, di ricercare le origini e le modalità del male affinché non potesse mai ripetersi, veniva interpretato con pregiudizio e malamente.

La sua non appartenenza, in generale, a null’altro che non fosse un pensiero indipendente che da nulla si faceva mai piegare, fossero anche le minacce, da lei ricevute, gli insulti, l’ostracismo e addirittura la esclusione da parte di parenti e amici della comunità ebraica, per molte persone era imperdonabile. Eppure lei non disse nulla di così particolarmente incomprensibile se rivisto con gli occhi d’oggi, a freddo, rispetto a quella atroce vicenda che fu la shoah, sebbene anche oggi tentare di fare un ragionamento laico sembra impossibile che già le accuse di relativismo piovono da ogni parte e c’è chi esige, per propria necessità emotiva, argomentativa, per propria convinzione politica, di rimettere i ragionamenti tutti quanti al posto già assegnato.

Hannah Arendt, legata in precedenza ad Heidegger e pur prendendone le distanze in termini politici comunque sempre disponibile ad ascoltarlo, credeva fortemente nel valore del pluralismo. Pensava che una delle maniere in cui si potesse in qualche modo allontanare lo spettro del totalitarismo fosse proprio l’inclusione dell’altro, anche di ciò che è più esterno a noi. Controversa era anche la sua posizione circa la democrazia rappresentativa, giacché riteneva che dividere gli umani per branchi – e scusate se sintetizzo banalmente – ciascuno con il proprio “rappresentante”, portasse semplicemente a nuove lotte per la conquista della maggioranza e del potere. Nulla di più lontano dall’idea di coinvolgimento diretto e partecipazione dal basso alla quale lei affidava invece una speranza.

Libera pensatrice, dunque, orgogliosamente indipendente, senza legacci identitari, laica anche rispetto alla sua provenienza, lei, ebrea, reclusa, costretta alla fuga, apolide per anni prima di ottenere la cittadinanza negli Stati Uniti, quando si ritrovò a guardare in faccia l’uomo che era sotto processo vide un anonimo ometto privo di capacità di pensiero critico, militarmente addestrato ad obbedire agli ordini, it’s my job, era solo il suo lavoro, lui obbediva agli ordini, come fanno oggi, ancora, i militari, i poliziotti manganellatori di poveri cristi nelle piazze, come fa qualunque burocrate che oggi rinchiude gli immigrati dentro i Cie o li lascia morire nel mediterraneo, e la sua cieca obbedienza, finanche quando riempiva i treni per mandare a morire migliaia e migliaia di esseri umani, portava alla sospensione del giudizio morale.

Quello che la Arendt vide era pura stupidità, assenza di empatia, l’incapacità di osare un pensiero proprio o semplicemente un pensiero, addestrato com’era, Eichmann, da una cultura da tutti veicolata e partecipata, che tutti quanti aveva plagiato – e non per questo Arendt gli addebitò meno responsabilità individuali – indottrinato e indottrinante di una cultura che rendeva legale perseguitare, umiliare, uccidere esseri umani perché ritenuti “superflui”. Ed è importante considerare questo aspetto: la legge non sempre è giusta e quel che è giusto non sempre è legge. E quando la legge non è giusta c’è Brecht, Thoreau, perfino Don Milani, che raccontano il valore della disobbedienza.

Quando lei perciò osservò la radice di quel male, tanto banale quanto assai diffusa, così facilmente replicabile ovunque l’ignoranza e l’assenza di controcultura impoverisse le menti umane fino a quel punto, quello che notò fu una mistificazione. Innanzitutto non fu d’accordo con il fatto che Eichmann fosse processato in Israele, perché quei fatti appartenevano all’umanità e non erano un conto da saldare tra un preciso popolo e quell’uomo. Dopodiché Eichmann non era il “mostro” e spogliarlo di quella veste demoniaca, guardarlo per quel che era, un banale burocrate, un signor “nessuno” come lo definì lei, consentiva alla Arendt la possibilità di capire di più, perché qualcosa certamente c’era da capire.

Dove sta il male? Come nasce? Perché? E’ consolante immaginare che risieda in una persona perché mostruosa e tolta via di mezzo quella tutto si risolve? Su questo assunto distorto e sciocco si basano tante delle soluzioni inutilmente punitive che foraggiano la nostra industria carceraria e repressiva, ma quanto invece c’è da fare sul piano della cultura? Quanto invece c’è da indagare affinché alcuni eventi non si ripetano mai più? E per capire, il punto è che, bisogna guardare in maniera laica, per l’appunto, quello che pensi sia un tuo nemico, interpretarne i gesti, le pose, gli sguardi, leggerne le parole, ridimensionarlo in quanto ad assegnazione di poteri sovrannaturali che tu da vittima gli hai riconosciuto, perché in realtà è solo uno dei tanti che nelle stesse condizioni avrebbe fatto esattamente la stessa scelta a ancora oggi potrebbe nuovamente farla.

Eichmann era convinto di non aver commesso alcun crimine. Non era un soldato. Non uccideva personalmente nessuno. Era “solo” un burocrate dello sterminio organizzato. Perciò pensava di non dover rispondere del suo operato. Per quelli come lui si ripensò ad un reato fino a quel momento inesistente, perché il suo non era un crimine contro una persona in particolare ma un crimine contro tutta l’umanità. Anche per questo la Arendt nel suo giudizio e nella sua valutazione degli eventi si eleva dalla sua condizione identitaria, rifiuta l’appartenenza ad un popolo senza mai comunque rinnegarlo, e racconta quel processo da osservatrice umana, da persona, che coraggiosamente prende distanza emotiva perfino dalle angherie che lei stessa aveva subito, perché, ancora, era importante capire e capire fino in fondo.

Eichmann è il male, banale, “normale”, perché semplicemente non voleva sapere, non gli interessava dove finissero le persone che spediva su quei treni, non pensava, non sarebbe mai stato capace di un atto di disobbedienza e dunque bisogna fare attenzione, dice la Arendt, a produrre società in cui le persone vengono semplicemente indottrinate, manipolate, sottraendo loro l’accesso a ogni possibile fonte di informazione, privandole di ogni stimolo utile a far sviluppare senso critico, bisogna fare attenzione a militarizzare le menti, i popoli, l’istruzione, e bisogna fare attenzione all’uso che dei media fa una certa propaganda, ché è uno dei modi attraverso cui un regime realizza autolegittimazione.

Potrei scrivere moltissimo ma se vi interessa di lei leggetela (includendo nella lettura la corrispondenza tra la Arendt e l’amica McCarthy, raccolta nel libro “Tra amiche) perché ne vale la pena, e io concludo questa recensione, chiamiamola così, o questo elogio, senza nascondervi che adoro questa donna, il suo pensiero appassionato, il suo inimitabile equilibrio, raccontandovi che per l’appunto lei fu duramente attaccata anche dalla sua stessa comunità. Lei scrisse, tra le altre cose, che la banalità del male potè meglio esercitarsi per il ruolo che ebbero alcuni capi delle comunità ebraiche. Persone a volte semplicemente intimidite, comunque vittime e talvolta fino all’ultimo convinte di poter essere risparmiate solo in virtù delle ricchezze, dei titoli, delle amicizie, che erano pronte, come tutti coloro che di egoismo vivono, a svendere chiunque pur di preservarsi e conservare i propri spazi o talvolta privilegi. Questa valutazione obiettiva che fece la Arendt, unita al suo rifiuto di considerare utile, rispetto al ragionamento che andava fatto, la santificazione di un popolo intero, come se diversamente i crimini perpetrati nei loro confronti potessero apparire meno gravi, le costò, appunto, insulti, minacce, disprezzo, ostracismo, scomuniche di vario genere, da parte di chi in definitiva la invitava a realizzare quello stesso conformismo che sostanziava parte del pensiero di chi aveva esercitato totalitarismo.

Alcuni membri della comunità ebraica giunsero da Israele per tentare addirittura di impedire la pubblicazione del suo libro e quando si adopera lo stesso metodo, rispetto a quelli contro cui dici di voler combattere, a protezione di una idea che dovrà essere l’unica possibile, è lì che si realizza una nuova forma di autoritarismo.

Talvolta, insegna la Arendt, l’autoritarismo nasce per paura, potrebbe definirsi la tirannia delle buone intenzioni, dove da un lato ti si dice che devi essere libera di pensare ogni cosa ma in conclusione c’è chi ti impone di pensare solo quello che corrisponde ad una precisa interpretazione della storia. Arendt condanna i totalitarismi, odia vederli replicare in germe in qualunque contesto e situazione, odia essere censurata, si difende e partecipa a un dibattito, pur avendo provato a evitare le provocazioni, convinta di non voler fuggire, così affronta anche i suoi detrattori e di fronte ai suoi studenti spiega perché mai il suo pensiero sarebbe dovuto andare in una certa direzione.

Si può criticarla o meno ma nessun@ può certamente negare il fatto che Hannah Arendt ha comunque spostato la linea del discorso, ha obbligato tutti/e a guardare anche alla storia dell’olocausto a partire da un punto di vista complesso e alternativo, offrendo un’altra chiave di lettura che, a mio parere, non è fondamentalista, non è vittimista, non assolve nessuno e non si piega ai conformismi. Perciò lei merita, per quel che può valere, tutta la mia stima, così spero meriterà anche la vostra.

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