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Queer is Fight | Un nuovo linguaggio e una nuova strategia politica nella lotta LGBTQI

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Da QueerLab Glbtqi:

Queer is Fight

La manifestazione “Love is right” di sabato 7 dicembre ci ha offerto l’occasione per riflettere su prospettive diverse per il movimento LGBTQI.

Con l’assemblea aperta che abbiamo convocato a Communia il giorno 8 Dicembre e che abbiamo significativamente chiamato “Queer is fight”, abbiamo inteso criticare il linguaggio e la metodologia politica di quel sit-in e ci siamo confrontati sull’approccio che utilizziamo nella lotta per i diritti delle persone LGBTQI.

Dall’orgoglio della diversità all’inseguimento dell’uguaglianza.

Il 28 giugno 1969, con lo scoppio dei Moti di Stonewall, nasce il movimento di liberazione omosessuale. Fondato su parole come orgoglio e emancipazione, si inerisce pienamente nel più ampio contesto del movimento di liberazione dell’amore libero che prese vita tra gli anni ’60 e ’70.

A poco piu’ di dieci anni da quella rivolta, nei primi anni Ottanta, si scopre e inizia a diffondersi il virus dell’HIV e si hanno le prime morti legate all’AIDS.  I media parlano di Gay-related immune deficiency e in pochissimo tempo la spinta propulsiva di Stonewall si spegne.

Alla rivoluzione del ’69, con la quale, nelle parole del poeta della beat generation, Allen Ginsberg, “i gay hanno perduto lo sguardo ferito”, segue la controrivoluzione della “peste gay” e per il giovanissimo movimento di liberazione omosessuale inizia un decennio di buio.  Dove c’era il sorriso e l’orgogliosa rivendicazione dell’amore e del sesso libero, arrivano il terrore della malattia e lo stigma moralista. L’onta e il senso di colpa schiacciano il desiderio.

Nel 1994 la diffusione di una pillola che “controlla” il virus dell’HIV introduce un nuovo cambiamento nella comunità LGBTQI. Il movimento riemerge, ma profondamente cambiato: ha interiorizzato il senso di colpa per l’amore libero e ora si sente la necessità di essere accettati e accettate e non più di disobbedire alla norma imposta dal sistema educativo e sociale.

Il cambiamento lo si registra anche a livello di linguaggio: l’amore libero non più inteso come forza rivoluzionaria e di liberazione incarnata nel desiderio, bensì come parola universale, contenitore buono per tutti gli usi, atto a pacificare qualsiasi spinta alla devianza da ciò che è prestabilito, prende il sopravvento sull’orgoglio di essere ed esprimersi liberamente per ciò che si è; così, l’uguaglianza surclassa la diversità.

Il piano del linguaggio

La retorica vittimista – Nel video che presentava la manifestazione del 7 dicembre, gli attori e le attrici che si sono “prestati” alla causa, parlando con tono tragico, utilizzano degli esempi tutti al negativo come motivazione per chiedere i diritti: “io non posso…”, “se muoio…”, “se sto in ospedale…”.

Per un movimento nato dal passaggio da vittime a soggetti di liberazione, questo tipo di (auto)rappresentazione, insieme al linguaggio vittimistico di solito utilizzato per promuovere leggi contro l’omofobia, ci riportano indietro di diversi decenni.

La retorica moralista e perbenista – Grammaticalmente scorretto, il titolo dato alla manifestazione del 7 dicembre offre il fianco a letture pericolosissime: “right” è definito dai maggiori dizionari inglesi come “moralmente o socialmente corretto”. Le associazioni promotrici invitano quindi a mobilitarci per dire che il nostro amore è giusto, appropriato.

Pur volendo mettere da parte la penna rossa, il risultato non cambia: l’amore viene descritto come un diritto. Come se a dover essere codificato, e quindi validato giuridicamente, debba essere il sentimento.

Malriuscito è comunque l’ennesimo tentativo di alcune associazioni LGBT di inserirsi nel filone perbenista dell’“equal love”.

La retorica familista – Sulla scia della retorica moralista e conformista, alcune associazioni LGBT hanno cominciato anche a offrire un immaginario in stile “Mulino Arcobaleno”. Diventa così icona del movimento LGBT la famiglia con figli.

Se da un lato, in contraddizione rispetto alla retorica dell’“io non posso”, l’omogenitorialità distrugge l’immaginario normativo della procreazione, dall’altro si è andato imponendo come modello unico di affettività LGBT.

Tutto questo a scapito di ben più diffuse forme di relazioni e di famiglie, anche tra persone di sesso diverso, che necessitano di riconoscimento e tutela.

La retorica europeista – Con l’aumentare del numero di Paesi, soprattutto Europei, che hanno riconosciuto le unioni tra persone dello stesso sesso, in Italia il dibattito sui diritti civili si è infarcito di enfasi europeista. Al punto che, per esempio, il Pride di Torino del 2012 sceglie come slogan “Non vogliamo mica la luna… è l’Europa che ce lo chiede”.

Ma cosa ci chiede effettivamente? In Francia, alla luce della circolare che esclude dal “matrimonio per tutti” i cittadini e le cittadine di alcune nazionalità (tra le quali quella tunisina, algerina e marocchina) e alla luce dei provvedimenti, in Francia e in Spagna, contro prostituzione e aborto, una riflessione più attenta è necessaria.

Dunque, il vittimismo, il moralismo e perbenismo, il familismo arcobaleno e l’europeismo acritico, formano un quadro retorico complessivo che si traduce in un’azione politica, ben rappresentata dal “Love is Right” e dalle sue associazioni promotrici, per noi preoccupante.

Eteronormatività e organizzazione del movimento

Quando si sceglie di incentrare la propria riflessione teorico-politica e le proprie azioni rivendicative intorno all’eteronormatività, si sceglie di utilizzare un quadro concettuale che nella sua complessità riesce a spiegare meglio cos’è e da dove nasce l’omo/lesbo/transfobia e dunque qual è la via della nostra liberazione.

Con il termine “eteronormatività” ci riferiamo a quel sistema di “norme” non scritte veicolato attraverso l’educazione, la famiglia e le strutture sociali che vanno a formare nell’individuo un habitus psichico fortemente coercitivo inducendo l’idea che la forma di espressione eterosessuale sia la “normale” e “naturale” espressione delle identità, dei ruoli di genere e delle relazioni. Prima ancora del vuoto legislativo, a opprimere le persone LGBTQI ci sono delle sovrastrutture di personalità, interiorizzate sin dall’infanzia, che si configurano come “norme” e “modelli” non scritti che sostengono l’impalcatura della normalizzazione.

Le norme legali sono uno degli elementi fondamentali su cui si regge questa impalcatura poiché delle leggi che escludono ri-producono discriminazione. Ed è per questo importante che, per esempio, il movimento Queer affianchi quello LGBT nella battaglia per l’estensione del matrimonio alle coppie dello stesso sesso come traguardo fondamentale nella distruzione del modello eteronormativo della famiglia. Come sostiene Judith Butler in una recente intervista, nessuno “obbliga” le persone omosessuali “a sposarsi, ma è bene che vi sia questa possibilità. È una norma, ma non è obbligatoria”.

Al contrario, in Italia, sposarsi (per le coppie eterosessuali) è quasi un obbligo: quando il welfare è di impostazione familista, il matrimonio rappresenta l’unica via d’accesso a diritti e tutele in materia di reddito e misure assistenziali.

Se per accedere a questi è necessario sposarsi, allora il matrimonio sarà una forzatura sulle vita delle persone, per ora solo su quelle eterosessuali, e non una libera scelta. Per questo non c’è rivendicazione del matrimonio egualitario senza riforma del welfare.

La strategia politica

Se fosse sufficiente estendere alle persone LGBT i privilegi a solo appannaggio delle persone eterosessuali, in gran parte dell’Europa il movimento non si troverebbe di fronte ad un’impasse dovuto all’idea che PRIMA si debbano conquistare dei diritti sul piano legale, POI si debba lavorare sul piano culturale e sociale.

Per scongiurare l’impasse che ci aspetterebbe se replicassimo i “modelli europei”, dobbiamo rifiutare questa politica dei due tempi. Nei Paesi in cui si è puntato, con successo, sui diritti civili solo attraverso le leggi, tralasciando, però, la “norma”, l’habitus psichico di cui abbiamo parlato, la cultura e il linguaggio, non si sa come procedere. I diritti sono passati dall’essere un mezzo per abbattere l’etero-normatività a essere un fine. Se non addirittura una fine.

Il pericolo in Italia è seguire in maniera provinciale e acritica questo modello di lotta e ritrovarci fra qualche anno nello stesso stallo degli altri paesi, con l’aggravante del ritardo e, quindi, di non aver imparato dagli errori degli altri. Bisogna per questo andare oltre e superare l’approccio vertenziale adottato dai movimenti LGBTQI europei.

Dobbiamo costruire un movimento che abbia profondità e lungimiranza, capace di tenere aperti più fronti di lotta, che comunichino tra loro e che si diano forza reciprocamente contro l’obiettivo comune: destrutturare l’impianto eteronormativo.

Un esempio è la battaglia sul reddito in parallelo a quella sul matrimonio. Ogni individuo dovrebbe godere dei diritti d’esistenza: reddito, casa, un welfare che garantisca una vita dignitosa; ogni individuo dovrebbe poter godere di questi diritti a prescindere dal tipo di relazione affettiva che sceglie di avere (famiglia monogamica, famiglia poligamica, coppia aperta, convivenza, single).

Serve, inoltre, uscire dagli ambiti strettamente LGBT e instaurare un nuovo sodalizio con il movimento femminista, l’unico tuttora a spaventare il Sistema con le sue pratiche di lotta: dallo Slut Walk ai blitz in stile Pussy Riot. D’altronde, eteronormatività e patriarcato sono due facce della stessa medaglia.

Il modello di lotta

Si accusa il movimento LGBTQI italiano di essere diviso, litigioso, caotico, malato di personalismi. E come soluzione cosa si propone? Il solito palcoscenico cavalcato dagli auto-elettisi leader del caso?

“Love is Right” ha usato questo approccio verticistico, infatti ha molto insistito sul carattere “nazionale” delle associazioni promotrici, quasi a sottintendere che queste fossero “titolate” a convocare una manifestazione senza doversi confrontare con il movimento.

Noi riteniamo che il movimento abbia bisogno non di un padre o di una madre che ci rappresentino e che risolvano per noi i nostri problemi, ma di fortificare la base: organizzarci tra individui LGBTQI attraverso momenti di confronto, di dialogo e di studio, come è stato, ad esempio, l’incontro “Queer is Fight”. Altrimenti le piazze rischiano un flop, in termini di partecipazione della comunità, come quello di Love is Right.

Occorre ripensare alle pratiche di lotta, ampliare le richieste rivendicative. Non ci accontentiamo di assomigliare a qualcuno, nella fattispecie gli etero bianchi e cattolici (usiamo il maschile perché nel mondo etero il maschile è il linguaggio universale!), per prendere anche noi una fetta di privilegio, ma rivendichiamo tutto ciò che scardinerà la Norma vigente. Sarà lotta Queer.

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