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Femminismo anticapitalista

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Da ResistenzaAntisistema:

Di stringente attualità è la discussione sulla “questione femminile”, da più parti si cerca di ricondurre le problematiche che l’hanno generata al patriarcato o al sistema capitalista, secondo noi è importante fare una riflessione di più ampio respiro che analizzi come la concorrenza tra l’uno e l’altro abbia prodotto una situazione ormai non più sostenibile. Il patriarcato ha origini che affondano nella storia ma ancora oggi permea la cultura delle nostre società, il capitalismo, dopo essersi fatto sistema, ne ha colto la possibilità di sfruttamento rafforzando ulteriormente la violenza sistemica sulle donne; per questo pensiamo sia sempre più importante affermare il carattere anticapitalista delle lotte femministe.

Con riferimento particolare alla situazione italiana, è evidente come il cammino di emancipazione delle donne, iniziato con le lotte femministe, non sia ancora concluso. Ne sono esempio la mancanza della donne nei luoghi di potere (si pensi alla rappresentanza delle donne all’interno delle istituzioni), del difficoltoso ingresso nel mercato del lavoro, delle leggi che ne influenzano la salute (modifiche alla legge 40 e introduzione della RU486), della mercificazione del corpo femminile e infine della violenza degli uomini sulle donne.

Da qui in avanti ci riferiremo solamente al termine “donna” ricordando che:

«questo termine “donna” è solo un’astrazione generica, in quanto riferito prevalentemente a dati di ordine naturale o esteriori. Acquista invece significato storico specifico se lo si mette in correlazione con determinazioni che lo sostanziano di contenuti sociali identificabili, quali l’uso della differenza come particolare “risorsa” capitalistica, per una gestione del reclutamento ed erogazione della forza-lavoro femminile che ingloba in modo invisibile tutti i meccanismi della marginalizzazione od esclusione lavorativa e sociale.» (Carla Filosa, La donna senza qualità).

La scelta è stata funzionale per poter parlare con agilità di determinati argomenti, con questo non bisogna dimenticare che il termine donna è riduttivo e non si vuole escludere dal dibattito altri tipi di realtà e generi. In questa sede faremo riferimento solo alla violenza maschile sulle donne, nonostante riteniamo che la questione della violenza nelle relazioni umane sia un argomento da affrontare più approfonditamente.

VIOLENZA DI GENERE

Partiamo proprio dalla violenza sulle donne, ultimamente è sempre più frequente sentir parlare della sua estrema conseguenza, il cosiddetto femminicidio. Questo termine iniziò ad avere una più larga diffusione negli anni novanta ad opera di alcune criminologhe femministe, per mettere in luce una grave realtà: l’uccisione della donna in quanto donna.

Già una definizione di questo genere apre una prima riflessione su cosa si intenda, ossia la persecuzione nei confronti di un genere specifico aldilà della sua condizione sociale; questa visione restituisce un dato su quello che realmente accade, ma non chiarisce le cause che ne sono alla base. In particolare potrebbe apparire come una visione superficiale dei processi che determinano alcuni comportamenti nella società.

Un’impostazione di questo tipo allude ad una causa culturale della violenza sulle donne, verissima e presente da millenni di patriarcato, ma non tiene conto della causa legata alla conformazione del sistema capitalista: la donna viene relegata all’interno della famiglia, la cellula base del sistema economico, nella quale si sviluppano le relazioni di potere legate alla riproduzione (così come nel mondo del lavoro si creano le relazioni di potere legate alla produzione).

Impostare un ragionamento che sia esclusivo di una delle due visioni risulta sicuramente riduttivo, nonché errato, e questo in generale per qualsiasi argomento connesso alla società che si voglia affrontare; è infatti sempre necessario guardare ad un evento analizzandone sia le cause strutturali  che quelle culturali.

Nel libro “Femicide: The Politics of Woman Killing” Jill Radford e Diana F.H. Russell raccolgono diversi articoli per cercare di investigare sulle ragioni alla base di questo fenomeno:

«[…] all patriarchal societies have used – and continue to use – femicide as a form of punishment or social control of women by men. For example, men have employed femicide as a means of punishing women who choose not to live their lives according to men’s definitions of what constitutes a woman’s proper role.»

(“Tutte le società patriarcali hanno usato – e continuano a usare – il femminicidio*  come una forma di punizione o un controllo sociale delle donne da parte degli uomini. Per esempio, gli uomini hanno impiegato il femminicidio come un mezzo per punire le donne che scelgono di non condurre le proprie vite secondo le definizioni date dagli uomini di ciò che costituisce il ruolo proprio della donna”).

Sempre nella stessa pubblicazione possiamo trovare nell’articolo di Marianne Hester, la quale spiega come, oltre al patriarcato, ci siano altri aspetti che concorrono a inasprire i rapporti tra uomo e donna:

«Sylvia Walby (1986) has found that when there are changes in the economic sphere, such as changes in production methods, conflict around male-female power relations also take place to ensure male dominance. It may be argued that other societal changes bring about a similar realignment regarding male power. […] An obvious area male-female conflict at the time was around economic resources, particularly within the areas of the economy that were especially important to the development of capitalism».

(“Sylvia Walby ritiene che quando ci sono cambiamenti nella sfera economica, quali il cambiamento nei metodi di produzione, anche il conflitto nella relazione di potere uomo-donna si verifica per garantire il dominio maschile. Si può sostenere che altri cambiamenti nella società provocano un simile riallineamento del potere maschile. […] Un’ovvia area di conflitto maschio-femmina al tempo [XVI – XVII secolo] si verificava attorno alle risorse economiche, in particolari nei settori dell’economia che sono stati particolarmente importanti per lo sviluppo del capitalismo”).

Con questa indagine si è individuato che il sistema economico capitalista, attraverso l’illusoria uguaglianza data alla donna di poter accedere al mondo del lavoro, fin dalle sue origini abbia giovato della sua situazione di subordinazione. La donna era costretta a svolgere un doppio lavoro, con il duplice risultato di fornire una risorsa gratuita che garantiva la stabilità sociale (lavori assistenziali) e allo stesso tempo una risorsa a basso costo che veniva sfruttata come mezzo di riserva nelle situazioni di crisi. Se si pensa alla situazione di crisi attuale, si possono riscontrare elementi comuni: la disoccupazione maschile è in aumento crescente non solo perché i settori caratterizzati da una forte presenza maschile hanno subito un duro colpo, ma anche perché è più conveniente assumere una lavoratrice donna, poiché quest’ultima avrà un salario più basso e sarà maggiormente propensa ad accettare contratti di tipo precario.

WELFARE

Analizziamo ora come la dinamica del capitalismo si ripercuota nella vita quotidiana ed in particolare all’interno della famiglia, luogo in cui la donna incontra il primo ostacolo nel suo cammino verso l’emancipazione e l’autodeterminazione.

Oltre al condizionamento culturale patriarcale, esistono altre cause dovute all’attuale sistema economico che concorrono a rendere difficoltoso l’accesso della donna nel mondo del lavoro. La società italiana sempre più spesso dimostra di avere notevoli carenze dal punto di vista del welfare sociale, si pensi alla scarsità di asili nido o alla mancanza di adeguata assistenza a malati e anziani, che provoca uno scarico di responsabilità sui nuclei familiari. Ciò significa inevitabilmente che, nel caso in cui non ci sia la disponibilità economica per potersi assicurare tali prestazioni, qualcuno della famiglia sia costretto a sostituirsi a quei servizi che non vengono forniti dallo stato. In questo quadro si rileva che tale responsabilità ricade invariabilmente sulla donna, non solo perché tradizionalmente le si affida questo ruolo, ma anche perché generalmente è colei che guadagna di meno all’interno della famiglia (gender gap) e quindi è più propensa a chiedere congedi parentali, a scegliere un impiego part-time e infine a lasciare il lavoro. Ad aggravare la situazione si può constatare che, nei casi in cui sia presente la volontà di rientrare nel mercato del lavoro, ovvero una volta che sono stati assolti i doveri famigliari, si può individuare una notevole difficoltà da parte delle donne a riottenere un impiego, non solo per l’allontanamento dal lavoro per un dato periodo di tempo, ma anche perché il mercato non è mai stato in grado di offrirle molte opportunità.

Una via di uscita da questa situazione potrebbe esprimersi da un lato nell’investimento da parte dello stato in servizi destinati alla persona, che non penalizzino le classi più povere, dall’altro nell’ottenere pari opportunità di lavoro sia per le donne che per gli uomini, con ciò si intende la possibilità di ottenere lo stesso tipo di regime contrattuale senza un soggetto economicamente penalizzato.

Va poi considerato anche l’aspetto della distribuzione diseguale dei servizi di welfare che ha inasprito le differenze sociali, creando una frammentazione dei fronti di lotta. Da qui si può dedurre che l’ottenimento di un reddito non basta ad ottenere l’emancipazione delle donne, ma è necessario condurre una lotta per far valere i propri diritti primari. Riuscire ad ottenere un’indipendenza economica e un’assistenza da parte dello stato (welfare) porterebbe la donna ad avere un ruolo non subordinato all’interno del nucleo familiare e avere quella sicurezza che le permetterebbe di ribellarsi davanti ad una eventuale situazione di violenza.

Ancora oggi può risultare allora di grande importanza riprendere il dibattito centrale nella divisione dei femminismi, soprattutto per comprendere il conseguente sviluppo delle argomentazioni distinte sui vari temi: la visione culturale e strutturale della politica di genere.

D’altra parte vi è un altro motivo che giustifica la necessità di riassumere come centrale tale discussione: il momento attuale di crisi del capitalismo ci impone di riflettere sui fronti di resistenza, più ampi possibili, da creare e su quali soggetti sociali più di altri potranno fare da propulsione del cambiamento. Chi meglio delle donne, maggiormente sfruttate dal sistema capitalista, può bloccare la sua ciclicità con della sana lotta di classe?

I soggetti sociali più sfruttati , tra cui le donne, potranno bloccare il sistema capitalista solo unendosi nella lotta di classe. La lotta alla discriminazione deve essere comune, e deve puntare ad ottenere una situazione più equa e quindi è naturale che provenga da chi non ha nulla da perdere ma tutto da guadagnare.

Ancora una volta infatti, come negli anni di contestazione del marxismo ortodosso, le donne scorgono più in là nella scala dei bisogni, ma se ieri aggiungevano alla creatività (opposta al concetto di alienazione del lavoro e di gerarchizzazione dal mercato del tempo sociale) il bisogno dell’altro, oggi si ritrovano a dover sottolineare molte contraddizioni, soprattutto sull’autodeterminazione del proprio io (eh sì oltre al pane vogliamo ancora le rose).

STORIA

Dedichiamoci allora innanzitutto a un po’ di storia, sempre tenendo in mente che non si tratta di un esercizio analitico ma piuttosto di una precisa funzione politica, cioè comprendere le ragioni di un movimento.

Con la nascita dei movimenti femministi nascono anche le contestazioni alla rigida cultura sovietica di stampo stalinista, si sottolinea l’impossibilità di ricondurre il tutto al conflitto di classe e si avviano critiche nei confronti del modello di donna di riferimento (eterosessuale, sposata, madre, che non contempla nuove aperture riguardo ad identità sessuali variegate o al rifiuto di un identità sessuale definita e del binomio uomo/donna; a tal proposito anche il linguaggio del femminismo inizia a modificarsi riferendosi ora non al soggetto donna ma a quello di donne, capace di inglobare le differenti specificità). L’esigenza è quella di rinnovare, senza articolare in maniera meno semplicistica, il rapporto tra capitalismo e patriarcato, e quella di rifiutare dogmi, facendo riferimento a vari modi di praticare la politica.

Tale sforzo d’interpretazione del mondo inizia però a trovare differenti ostacoli, da una parte gli ortodossi del marxismo lo considerano pericoloso per l’unità della classe sociale proletaria e dall’altra molti nutrono dubbi nello spiegarsi, durante la rivoluzione sessuale in atto, i fenomeni del mondo femminile non solo come puri scontri tra classi sociali: la componente culturale/sociale entra prepotentemente nel mondo della politica.

Tuttavia se il dibattito acceso era estremamente utile al crescere della teoria e pratica femminista, segnò anche il momento di divisione interna ad esse sulla questione della lotta per il riconoscimento simbolico della differenza tra donne e uomini. Cerchiamo allora di individuare chiaramente il punto di analisi.

A partire dagli anni ’70 diviene centrale nella discussione l’identificazione del “nemico principale” e su questo si creano due correnti, il femminismo marxista che riconosce ancora come contraddizione fondamentale quella capitale/lavoro (socialità del momento produttivo e privatezza di quello appropriativo, su cui molto avranno da formulare) ed il femminismo radicale che disconosce collegamenti patriarcato/capitalismo (la concentrazione del potere nel maschile dipende dall’organizzazione della società), entrambe le posizioni mancheranno di una doverosa volontà d’integrazione, presentandosi come analisi universali. Tale distinzione risulta ancora più chiara riferendosi  ad un altro tipo di terminologia: da una parte il femminismo dell’uguaglianza, per cui le differenze tra donne e uomini sono costruzioni sociali che creano disuguaglianze e gerarchie; dall’altra il femminismo della differenza, che rifiuta l’uguaglianza con il genere maschile a partire da una forte affermazione della differenza sessuale. Il primo critica al secondo il ritorno all’idealizzazione della femminilità partendo da una proprietà specifica esclusiva della donna per il solo fatto di essere donna. Il secondo critica al primo di riprodurre il sessismo invece che abolirlo, negando la differenza  femminile a beneficio del soggetto maschile, che si pretende universale.

Una discussione  di questo tipo ha segnato forti cambiamenti nella politica di genere, di conseguenza risulta impegnativo scioglierla velocemente, proprio perché l’interpretazione del mondo passa spesso attraverso la dualità delle cause strutturali e culturali.

È vero, dicendolo con Friedrich Engels, che «Sembrerebbe che l’emancipazione della donna, la sua eguaglianza di condizioni con l’uomo sia, e continui ad essere impossibile, tanto che la donna rimarrà esclusa dal lavoro sociale produttivo e dovrà limitarsi al lavoro privato domestico.» ( L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Nella realtà il capitalismo tende a dissolvere i rapporti di potere che non sono di classe, infatti al suo tempo il lavoro di fabbrica consentiva un’indipendenza economica anche alla donna, in questo si poteva individuare un allontanamento dal sistema patriarcale, concedendo un’emancipazione fittizia. Nella realtà si stava solo cambiato il modo di sfruttare le donne: come già accennato, da un lato le donne rappresentavano (e rappresentano) una risorsa strategica nei momenti in cui era richiesta una forza lavoro più numerosa, per poi tornare a casa quando non più utile; dall’altro la differenza salariale non garantiva un’indipendenza economica.

È vero che il conflitto di classe sconfigge la solitudine dei soggetti sociali, donne comprese, e permette quindi la ribellione alla propria condizione di sfruttamento, ma questo solo se nella lotta è reale la riflessione specifica di genere. Dicendolo con Carla Lonzi: «L’oppressione della donna non inizia nei tempi, ma si nasconde nel buio delle origini. Non si risolve nell’uguaglianza, ma prosegue nell’uguaglianza. Non si risolve nella rivoluzione, ma prosegue nella rivoluzione.» (Sputiamo su Hegel, 1970), sicuramente il progetto politico può e deve essere comune. È vero anche che bisogna sempre riconoscere la cultura che contraddistingue le epoche storiche, senza però slegarla dall’ambito economico e di classe altrimenti sarà difficile concretizzare il superamento del sessismo.

L’importanza che si vuole sottolineare è che la spinta debba provenire dal basso e che non riguardi una semplice conquista formale di diritti, in quanto questo lascerebbe indietro la maggior parte delle persone oppresse.

Per una donna che raggiunge una posizione di prestigio, ne esistono molte altre che continuano a combattere con gli stessi problemi, per questo non interessa molto che una donna ottenga una posizione di potere se continua a riprodurre le stesse dinamiche di oppressione verso altri soggetti o verso donne come lei (come ad esempio Fornero e Marcegaglia), ma deve cambiare il sistema stesso, che vuole che ci sia un oppresso e un oppressore.

Oltre all’esigenza di non perpetuare le dinamiche capitaliste, occorre rompere anche quegli schemi culturali per cui vengono riproposte logiche paternalistiche e patriarcali, che portano a prendere decisioni secondo la formula ‘so io cosa è meglio per te’ senza creare il dialogo e il confronto con coloro che quotidianamente vivono la situazione di disagio.

Proseguendo il ragionamento, bisogna eliminare anche la critica che viene da tutte quelle donne, che hanno raggiunto la vetta e che guardano con sospetto le iniziative volte a includere soggetti diversi (lgbtiq, migranti, classi povere) e a stravolgere lo status quo, poiché si aspettano che il miglioramento sociale avvenga dall’ “alto”, attraverso un progresso in campo giuridico. Giovanna Zepperi in una intervista sul suo ultimo libro (Lo schermo del potere) afferma che:

«Portare avanti un discorso femminista significa inevitabilmente posizionarsi in modo conflittuale, e il conflitto fa paura. […], il problema sta anche nel fatto che il femminismo viene spesso additato come qualcosa di fondamentalmente inattuale rispetto ad una visione spoliticizzata dei rapporti tra i sessi, visti come finalmente liberati da “innaturali” ideologie. […] . In questo senso il capitalismo ha captato alcune delle istanze centrali del femminismo degli anni settanta mettendole letteralmente al lavoro: questo aspetto è emerso in modo particolarmente evidente dagli scandali sessuali degli ultimi anni del governo Berlusconi. Di fronte a questa narrazione, ogni intervento della generazione protagonista delle lotte femministe viene percepito come un appello a regole desuete, moralistiche eccetera.»

Ispirarsi alle lotte degli anni 70 deve riuscire a scardinare anche il conflitto esistente tra le donne stesse. Combattere una certa rappresentazione della donna può avvenire solo se si evitano giudizi e moralismi tipici della discussione attuale, non può esistere un modello di donna “normale”, “reale” o “giusta” in contrapposizione con atteggiamenti sbagliati, perché si finirebbe con il condannare tutto ciò in cui non ci identifichiamo e ritrovarci in un’ulteriore discriminazione. Agire sul piano culturale significa questa volta rompere gli stereotipi riguardanti l’immagine femminile, non solo quella erotizzata, tanto criticata dagli ambienti più diversi, ma anche quella “giusta” della donna bianca, professionista, figlia, madre e moglie.

Da quanto detto fin’ora si deduce che non solo il sistema culturale induce la donna a posizioni di secondo piano, ma anche il sistema economico attuale contribuisce e concorre a relegare la donna in casa nel ruolo di curatrice del focolare. In conclusione, semplificando molto, sicuramente la base di partenza per un mondo senza oppressione di genere non può che essere il cambiamento strutturale anticapitalista, ma a questo va continuamente affiancato un lavoro culturale sulla società civile. Il patriarcato non nasce dal capitalismo, ma i suoi vincoli sono l’ostacolo determinante nel cammino femminista di autodeterminazione delle donne.

 

 

*Si è scelto di tradurre l’inglese ‘femicide’ con ‘femminicidio’, anziché con il letterale ‘femmicidio’. Questa scelta è dovuta al fatto che in Italia non è diffusa la conoscenza riguardo al diverso significato che assumono i due termini. Per approfondire la distinzione: http://femminicidio.blogspot.it/2011/03/da-chi-e-stato-coniato-il-termine.html

Riguardo alle critiche mosse da Diana Russel sul significato assunto dal termine femminicidio in Centro e Sud America: http://www.dianarussell.com/origin_of_femicide.html

Riferimenti:

La donna senza qualità – Carla Filosa
L’articolo può essere letto dal sito:
http://www.red-net.it/index.php?option=com_content&view=article&id=237:la-questione-femminile&catid=51:antisessismo
l’intera raccolta è scaricabile sempre dallo stesso sito:
http://cau.noblogs.org/gallery/5246/la%20questione%20femminile%20di%20carla%20filosa.pdf

“Femicide: The Politics of Woman Killing” – Jill Radford e Diana F.H. Russell
“The Witch-craze in Sixteenth-and Seventeenth- Century England as Social Control of Women” – Marianne Hester, 1989 – contenuto in “Femicide: The Politics of Woman Killing”
Libro scaricabile dal sito:  http://www.dianarussell.com/f/femicde%28small%29.pdf

“L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” – Friedrich Engels
È possibile leggere l’intervista a Loredana Zepperi sul sito:
http://www.labottegadihamlin.it/articoli/2558-riflessioni-sul-femminismo-giovanna-zapperi-e-lo-schermo-del-potere.html
Sputiamo su Hegel, 1970 – Carla Lonzi

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