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La strage di Torino e l’alibi del #femminicidio (il capitalismo ringrazia!)

burattinaio

Da Abbatto i Muri:

Volevo scrivere ancora altre cose per raccontare il 2013, poi ho saputo della strage di Torino, un uomo di cui si dice fosse malato, depresso, disoccupato, ha ucciso moglie, suocera, figlia, e allora mi viene in mente la legge sul femminicidio, quella che avrebbe dovuto impedire le violenze, fondata sul criterio che la libertà delle donne si conquista con una denuncia e si persegue con percorsi legalitari e istituzionali. Fin dal momento in cui quella legge inappropriata, paternalista, priva di elementi di adesione alla realtà, fu approvata i delitti non sono affatto diminuiti. Ne sono seguiti molti altri, ché c’è sempre qualcuno, donne incluse, disposto a opprimere, per possesso e incapacità di accettare le differenze, l’autodeterminazione di chiunque dica no, agisca in conto proprio, autonomamente. Poi ci sono tanti delitti che per chi ha soldi e potere è comodo relegare nella sfera della cattiva predisposizione del maschile, così da deresponsabilizzarsi in termini sociali, economici, politici.

E dunque, io e altra gente adulta che viviamo con i piedi sulla terra, abbiamo capito che tanta deresponsabilizzazione corrisponde a una precisa intenzione: continuare a rendere precarie le vite, le famiglie, le persone, in nome del profitto.

Sarà pur vero che chi decide di togliere una o più vite mettendo poi fine alla propria è persona cattiva, padre padrone, dominatore, con uno scarso rispetto per le scelte altrui, perché se anche lui voleva morire di certo non è la stessa cosa che avrebbe desiderato per se’ moglie, suocera e la figlia. Ma possiamo dunque archiviare la questione semplicemente in questo modo?

A me sembra fin troppo comodo e quando mi chiedo cosa si sarebbe potuto fare per prevenire quella tragedia e guardo le presunte soluzioni imposte da tanta gente presuntuosa non vedo nulla di concreto che si sarebbe potuto fare ed è lì che resta il punto.

Disoccupazione e precarietà sono elementi atroci che alimentano e acuiscono la conflittualità. C’è poi anche una ragione culturale laddove un uomo non riesce proprio, a volte, ad accettare il fatto di non rispondere al modello sociale e non aderire al ruolo che altri hanno pensato per lui: il tutore, il capofamiglia, il macho vigoroso che giammai può mostrare debolezze ché altrimenti lo chiamano vittimista (l’uomo vero non deve piangere mai, dice la cultura patriarcale). Quella fragilità resta custodita in famiglia, con le persone che gli stanno accanto travolte da quella che in pochi attimi non può rappresentare una rivoluzione culturale. Non ce la fanno. Non riescono a farlo da soli. Lo vedi dalle cifre dei suicidi per disperazione dopo un grave problema economico. Allora giusto io che non sono né forcaiola né amante delle galere ché per mio conto non risolvono nulla e certamente non costituiscono una soluzione a problemi strutturali che producono a cascata molto altro di peggio, immagino che per disinnescare l’arma che ha portato quell’uomo a sterminare la famiglia e suicidarsi sarebbe stato necessario qualcosa di diverso dai provvedimenti sbandierati come estremamente eccezionali per il bene delle donne.

Cosa bisognerebbe fare, dunque, denunciare un uomo fin da momento in cui qualcuno lo licenzia? Lasciarlo solo quando cade in depressione? Escluderlo dalla propria vita dopo che ha partecipato a pieno titolo, finché ha potuto, alla costruzione di un progetto familiare? In quale preciso momento quella famiglia potrà impedirgli di fare del male e soprattutto come?

Ci sono due questioni secondo me fondamentali da considerare: da una parte bisognerebbe lavorare su stereotipi e cultura. La direzione presa è quella in cui agli uomini si chiede di non toccare donne, mogli, madri, perché vittime, deboli, fragili, indifese, e dunque rispedire gli uomini in un bel girone dell’inferno a prendere coscienza della propria perfidia per poi pentirsi e tornare a frequentare il mondo come persone nuove. Uomini che dovranno sempre essere solidali o anche tutori in difesa delle figlie e delle mogli. Ed è questa la pecca più grave che una società culturalmente patriarcale come la nostra non ammette: l’uomo vero custodisce i corpi delle figlie e delle mogli, non le ammazza. E se è questa la riflessione che origina ogni provvedimento capite bene come lo Stato si proponga semplicemente sostituendosi al ruolo del patriarca buono quando il padre/marito perde colpi. Capita dunque che la scelta e la volontà delle donne non sia neppure considerata.

Una visione così paternalista ben si sposa con una politica neoliberista che ha bisogno di capri espiatori per stabilire che tutto quel che avviene non dipende mai da differenze sociali che sono comunque originate da uno sfruttamento di tipo economico che sta a monte. E’ a partire da questo che si stabiliscono vari gradi di sfruttamento che marginalizzano soggetti ricattabili, economicamente deboli, migranti, donne, uomini, persone, con le differenze di etnie e di genere che certo vanno considerate.

Ma ragionare di violenza senza tenere conto di quante conseguenze derivano dalle differenze economiche è veramente un trucco, un alibi sociale, una grossa distrazione. Provo a spiegare: affinché si realizzi il capitalismo serve una redistribuzione precisa di ruoli. Le donne devono stare a casa a fare figli, forza lavoro, e a compiere lavori di cura e gli uomini dovranno essere produttivi fuori e a loro è delegata la “tutela” e il mantenimento della famiglia. Queste sono le funzioni che lo Stato, nel suo progetto di welfare, prospetta per noi. Disertare questi ruoli soprattutto in tempi di crisi è molto complicato. Allora lo Stato che è soltanto interprete della volontà di ricchi e potenti stabilisce che la famiglia è e resta unico ammortizzatore sociale, dunque qualunque sia il tuo livello di condivisione, solidarietà, feeling con le persone che hai accanto dovrai pur restarci assieme.

La famiglia come obbligo sociale ed economico è spesso una trappola per quanti, precariamente, sono obbligati a vivere sotto lo stesso tetto anche se non vorrebbero, a misurare i propri disagi senza averne le capacità, completamente soli, mentre aumenta il numero di vittime tra madri e padri pensionati che ospitano figli quarantenni depressi, disoccupati, o tra uomini desiderosi di suicidio che non mancano di andare a morte in compagnia di moglie e qualche volta figli.

Ci sono due approcci a queste dinamiche: paternalisti e alcune femministe (portatrici di quel femminismo che Nancy Fraser definiva “ancella del capitalismo) dicono che sono gli uomini a doversi adeguare, perché non fossero violenti il problema sarebbe già risolto. Altri paternalisti e conservatori, di altra visione dogmatica, sostengono che la famiglia prima di tutto, e dunque bisogna tollerare e sacrificarsi anche se ti arriva un colpo in testa.

Legalitari e alcune femministe dicono che l’idea del sacrificio non va bene e dunque bisogna andare, mollare, lasciar tutto e quegli altri dicono che se vai via stai mettendo in crisi la famiglia, i valori dell’unione, eccetera eccetera. In entrambi i casi si fornisce un alibi a chi ci vede lì a scazzarci mentre altri si arricchiscono sulla nostra pelle. Perché il problema è e resta ancora a monte.

E’ chiaro che io devo poter andare e lasciare chi mi pare e non c’è alcuna ipotesi di martirio riconosciuta socialmente che potrà mai convincermi a diventare una missionaria laica che dovrà risolvere le fragilità altrui se neppure so risolvere le mie. Dichiarare qualcosa di diverso è puro delirio di onnipotenza ed è anche un minimo presuntuoso. Perciò il suggerimento normativo secondo cui sarei io responsabile di reazioni violente nel caso in cui, così si dice, abbandono una persona fragile al suo destino non può andare bene. La solidarietà sociale e reciproca si realizza fino a che non mi fai male. Se mi fai male io, semplicemente, dovrò pensare a sopravvivere.

D’altro canto c’è pure chi racconta che il criterio di risoluzione di queste tragedie annunciate debba basarsi su una divisione del mondo in buone e cattivi, le buone riparate ma comunque lasciate a se stesse giacché nessuno ti dà casa, lavoro e reddito se non te li guadagni, e i cattivi in galera perché non sono stati tanto bravi da farsi tollerare nel contesto familiare.

In tutto ciò mi sfugge ancora come si sarebbe potuta prevenire la strage di Torino. Mi sfugge soprattutto il fatto che non si dica con chiarezza che c’è una rabbia sociale, diffusa, che quando si riversa nelle piazze, contro poteri economici forti, viene repressa e obbligata a rientrare nelle proprie gabbie.

A una persona, in generale, che ha problemi economici viene detto che non dovrà reagire male, dovrà rassegnarsi, che se non ce l’ha fatta è un po’ per colpa sua. Va fuori è viene malmenat@ in piazza o in qualunque luogo presso cui tenta di raccontare la propria ribellione. Tutto gli dice che dovrà ripiegare e quella rabbia diventerà frustrazione, autodistruzione, depressione che inevitabilmente si ripercuoteranno, se non hai risorse e strumenti per affrontarle meglio, nell’ambito familiare. Ed è questo il peso che viene lasciato alle “famiglie” e dunque anche alle donne che di quelle famiglie, così come welfare dice, dovranno avere cura.

Facile per lo Stato dire che alcune categorie di persone dovranno essere “tutelate” se poi praticamente lascia loro la gestione della conseguenza dello scempio che lo stesso Stato e l’economia capitalista compiono.

Per risolvere problemi di questo tipo non serve vittimizzare nessun@, né servono tutele ma urgono strumenti affinché chiunque riesca a liberarsi dalle dipendenze economiche. Non servono carcere e giustizialismi, ma servono disinneschi certo difficili da individuare se insisti nell’evitare di guardare alle cause delle tragedie per bieco opportunismo.

Dove sono gli ammortizzatori sociali reali? Dove i luoghi di riappropriazione di se’ quando ti crolla il mondo addosso e il sistema capitalista semplicemente ti risputa fuori? E non parlo di altre strutture di controllo sociale che psichiatrizzano i soggetti per sedarti invece che darti una motivazione per esistere. Dove è possibile reinventarsi, ricominciare, ottenere anche la possibilità di esistere senza restare poveri e defraudati di tutto, senza essere obbligati a stare sotto lo stesso tetto se non ci si sopporta? Dove avviene che si possa ragionare di cultura, considerando che se mi mantieni, padre/marito, non puoi comunque dettare legge e quando mancano i soldi un motivo per il quale ti sentirai privato di qualcosa sarà solo perché quei soldi per te rappresentavano il potere di gestire anche la mia vita.

E’ certo consolante pensare che l’uomo di Torino che ha compiuto la strage e si è poi suicidato fosse molto cattivo, ché in fondo non si tratta di nulla di nuovo e che le uniche vittime della storia certamente sono quelle tre donne morte ammazzate senza una ragione. Ma le solide certezze, le impostazioni rigide utlizzat* da alcun* per leggere questi eventi e legittimare solo un sistema repressivo dovranno essere un minimo messe in discussione se non vogliamo continuare a vedere morire altre, tante, persone nel corso del 2014. Ed è questo l’augurio che faccio per l’anno a venire. Che questo bollettino di guerra sia letto con le dovute cautele e con la reale intenzione di voler risolvere il problema. Perché altrimenti non c’è storia. Proprio non ce n’è.

Leggi anche:

La strage di Torino e la depressione di un uomo, mio padre (da SopravvivereNonMiBasta)

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