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Piuttosto che il suicidio troviamo un’isola per praticare anticapitalismo

Da Abbatto i Muri:

Un altro uomo, un ragazzo in realtà, perde il lavoro e si dà fuoco. La disoccupazione in Italia è altissima e a essere maggiormente disoccupate secondo i dati Istat sono le donne. Tuttavia se guardiamo questa analisi dei dati relativi i suicidi per motivi economici si può vedere che sono gli uomini che si suicidano di più.

Il dato è del 2012 e parla di 165 suicidi e 70 tentati suicidi. 158 uomini e 7 donne si sono suicidati e 59 uomini e 11 donne hanno tentato di farlo. Da Gennaio a Ottobre del 2013 la tendenza non cambia. 114 uomini e 5 donne. Età media delle persone che maggiormente si suicidano va dai 45 ai 64 anni. Nel 2013 c’è stato un incremento dei suicidi tra persone con un’età tra i 35 e i 44 anni. Avviene soprattutto nelle regioni del centro/nord con il Veneto in prima fila. Nel 2013 Sicilia e Campania hanno registrato casi in aumento. Si suicidano impiccandosi, lanciandosi nel vuoto, sparandosi un colpo in testa, dandosi fuoco, talvolta in azioni dimostrative e pubbliche. A morire sono per lo più imprenditori e disoccupati. Ragioni analizzate: crisi economica, perdita posto di lavoro, debiti, difficoltà riscossione crediti. Il dato resta coerente anche per i tentati suicidi.

Non so se chi ha fatto queste ricerche ha incrociato i dati con episodi tragici che talvolta precedono un suicidio. Ma resta il fatto che in tutto ciò io ci vedo un problema di genere.

La crisi economica, la disoccupazione, i debiti, colpiscono tutta la famiglia salvo che non siano strutturate in modo tale da nominare quale unico responsabile economico il marito/padre/uomo. Se è lui a essere titolare di attività e destinatario di reclami, richieste di pagamento, protesti, pignoramenti, pressioni esattoriali è lui che subisce più pressioni, che sente il peso della responsabilità del destino di tutta la sua famiglia. E’ quello che ha impegnato risorse e vita per tentare di costruire qualcosa da lasciare ai figli e poi non ha più nulla per ricominciare. E’ quello che è sostenuto da moglie e figli nelle imprese familiari e si disperano tutti, ma alla fine è lui che va in depressione e cede, si toglie la vita e lascia parenti e ceneri del disastro che gli è capitato per dormire, spegnersi e non pensare a nulla più.

Di donne disoccupate, precarie, depresse, senza speranza, indebitate, ce ne sono tantissime ma secondo questi dati si suicidano meno. Perché possono riciclarsi nei ruoli di cura o perché lo stigma sociale che pesa su di loro non è tanto e tale da farle smettere di vivere. Perché non possono, molto spesso, concedersi nessuna battuta d’arresto giacché loro è il compito di occuparsi di tutti. A soffrire e risentire di precarietà e disoccupazione sono tante donne indipendenti, autonome, che non si realizzano in casa a fare le mogli e le madri e hanno necessità di fare altro. Ma è davvero difficilissimo. Per ogni donna che ha tentato di trovare lavoro, per quanto intraprendente sia, rifiutata in mille colloqui, non più in grado di pensare a se stessa, può esserci forse una famiglia presso cui tornare, genitori anziani cui badare, qualcun@ che barattando cura per mantenimento la sostiene. Inaccettabile per tante che non si rassegnano a essere risospinte in quel ruolo ma così più o meno è. Per un padre di famiglia che ha messo in piedi un’impresa e deve chiudere i battenti sommerso dai debiti chi mai può esserci a sostenerlo? Quale ruolo sociale gli può essere destinato e può essere disposto a sostenere? Come saprà riciclarsi? Come saprà disertare il suo genere per mettere a disposizione altre risorse?

In Italia il gap che separa donne e uomini nel lavoro è più che evidente. Quel gap è istigato da politiche economiche dello Stato che organizzano un welfare in cui le donne saranno produttive e riproduttive dentro casa e gli uomini dovranno esserlo fuori. Con ciò ne deriva che sulle donne pesa uno stigma sociale se si rifiutano di riprodursi e occuparsi dei lavori di cura. Sugli uomini pesa lo stigma relativo il mancato mantenimento del nucleo familiare. Se non sono in grado di fare fronte alle spese, se hanno consumato tutta la vita per una casa, mutuo, impresa, lavoro, inseguendo un’idea di benessere e consumo che pensavano potesse renderli più felici, infine non sanno da cosa o dove ricominciare.

Quello che emerge dai dati racconta un’Italia divisa per generi nella quale si pensa poco a eliminare le condizioni che realizzano quelle differenze e piuttosto si utilizzano queste cifre per legittimare ulteriori stereotipi. Per chiarire: il fatto che una precaria forse non si suicida e il precario invece si non significa che servono regole sociali per cui bisogna prima risolvere il problema economico a lui affinché a cascata lui risolva quello di tutto il nucleo familiare. Perché non è avallando lo stereotipo e riparando la debolezza divisa per generi che si risolve il problema. Piuttosto bisognerebbe intervenire a supporto di una economia disastrata che deve essere aggiustata per il bene di tutt*.

Ma è fondamentale capire come la cultura e gli stereotipi di genere incidono anche in questo. Perché un uomo non senta su di se’ il peso di debiti e disoccupazione bisogna andare alla radice. Esattamente come bisogna andare alla radice quando parliamo di condizioni di depressione e insofferenza di donne che non tollerano più sorbirsi ruoli di cura.

Andare alla radice a cominciare dal fatto che le responsabilità vanno divise tra tutt* a prescindere dal sesso, ma soprattutto a cominciare dal fatto che il lavoro deve essere una opportunità per chiunque. Se io e lui, io e loro lavoriamo, in una relazione sociale solidale di mutua assistenza collettiva, a prescindere da chi perde il lavoro e chi no, infine abbiamo una possibilità per restare in piedi tutt*. Se invece l’investimento è solo a suo favore perché io dovrei restare a casa a fare figli e a compiere lavoro di cura, quando le cose andranno male non ci saranno grandi possibilità.

Gli effetti del capitalismo sono anche questi. Ti fa sentire incapace e fallit@ se non riesci a realizzare più spesa, più consumo, ovvero ti mette al muro mentre tenti di restare in piedi per dare di che campare a te e ai tuoi dipendenti. C’è da rivedere la questione per generi ma ripensando anche il proprio modello di vita. Se non hai niente non possono toglierti niente e alla fine quello che conta non sono le cose, lo dico da precaria che fatica per tentare di sopravvivere ogni giorno, con il terrore che una sola spesa in più possa far travasare mancanza di prospettiva e disperazione. Quello che conta sono gli affetti. Quello che conta è smettere di avere paura.

Paura di minacce esattoriali, intimidazioni morali, della perdità di se’ assieme alla perdita delle cose. Paura di non avere niente, non poter essere più niente. Paura di vivere, svegliarsi, respirare. Paura di arrabbiarsi, non essere sufficientemente dignitosi e legalitari. Paura di non riuscire più ad arginare la disperazione. Prima del suicidio c’è la rabbia. Ed è la rabbia, la lotta, che cura la depressione. Non fatevi piegare i sogni, la speranza che qualcosa possa cambiare e per qualcosa non intendo che un giorno riuscirete a comprarvi un Suv o una villa al mare. Intendo che potrete vedere le cose in maniera differente, incluso il fatto che di Suv e ville non avrete proprio voglia. Che vi capiterà di non  avere niente ma avrete una gran voglia di ridere e costruire luoghi sociali in cui si mettono in comune sofferenze ma anche creatività e progetti di futuro. Spazi sociali in cui si smette di dare addosso all’immigrato, le donne, gli uomini, il gay, la lesbica, la trans, al capro espiatorio di turno e si comincia a ragionare di modelli di vita totalmente nuovi, di sogni che non riguardino il pezzetto di capitalismo che vorremmo per noi, tenendo ben presente che alcun* tra noi quella montagna non la vogliono proprio scalare, che non ci riguarda né ci interessa e che a una società che decide per noi destini in cui puoi solo suicidarti o fare l’imprenditore rampante preferiamo quella in cui diamo valore ad altre cose.

Se domani si decidesse di destinare trasgressori delle leggi di ricchi e potenti a una colonia penale forse lì si potrebbe realizzare una società autosufficiente con ritmi ed esigenze scandite da necessità reali e non indotte dal mercato e dalla perenne spinta al consumo. Altrimenti ci autoesiliamo da sol*, mondo di persone vittime del capitalismo. Avete in mente un paese, un luogo, un’isola da occupare in cui esistere per nostro conto?

Posted in AntiAutoritarismi, Omicidi sociali, Pensatoio, Precarietà, R-esistenze.