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Disquisire di baci, molestie, restando sempre dalla parte dei tutori (si può!)

C’è lei che dopo essere stata messa in croce su ogni possibile media esistente per non aver corrisposto sacro amore nei confronti delle forze dell’ordine viene ancora messa alla gogna con l’accusa di “violenza sessuale” per una leccata impropria alla visiera di un casco della polizia.

Poi ci sono persone alle quali di lei o delle dinamiche e pratiche di movimento, a occhio, mi pare importi molto poco. Quel che sembra interessare è ribadire alcuni concetti a costo di accreditare la tesi dell’accusa.

C’è una signora che scrive: “Parte integrante della lotta non violenta è accettare le conseguenze che simili gesti comportano.” e lo scrive mentre sovradetermina nell’interpretazione la stessa versione che la protagonista invece ne dà. Addomestica la ribellione insita in quel gesto e riduce infatti tutto al solito pappone sentimentale non-violento di chi sogna abbracci e baci con i tutori. Così conclude:

Io comunque ringrazio xxxxx, per avermi regalato un altro bacio da non dimenticare: la manifestante che bacia il poliziotto.

Un bacio nel quale abbiamo visto ciò di cui avevamo bisogno: l’amore che vince sugli orrori del quotidiano.

Tanto scrive dopo aver fatto una analogia con un altro “bacio” impresso in una fotografia concludendo che “Insomma, si è trattato di molestie.

In sintesi sarebbe una azione non-violenta un po’ molesta e la protagonista della storia dovrebbe “accettare le conseguenze che simili gesti comportano“.

Un altro, parlando di questa questione, dopo aver riprodotto nomi, cognomi, perfino il nick name come farebbe La Repubblica con una qualunque NoTav, fornisce argomenti all’accusa. Filo/piddino, filo femminismi/istituzionali, abolizionista della prostituzione, non manca mai di bacchettare le femministe autodeterminate sulle pratiche (no postporno, no slut walk) e in questo caso ci illumina su quel che sarebbe “disobbedienza civile”. Così prende a “pretesto” una ragazza a rischio di denuncia/processo, sulla quale pesa una accusa ridicola, per ricucirle sulla pelle il proprio teorema.

La tesi è che quella accusa non avrebbe senso perché di molestia si potrebbe parlare solo a parti invertite. Non già perché si considera asimmetrico il rapporto tra la militante di piazza e un tutore (dell’ordine), ma perché molestia sarebbe quando la pratica un uomo. Perché la donna è un soggetto debole (questa la visione paternalista), dunque quando una donna mette in pratica una azione di quel tipo, accrediterebbe modalità “sessiste”. Lo stesso, per intenderci, egli scrive quando si parla di slut walk o post pornografia. Riappropriarsi di termini e modalità per sovvertirli, scardinandone i significati, non è una pratica che – lui – ritiene utile per il bene delle donne.

Perciò se ne deduce che per riaffermare il fatto che quando un uomo compie un gesto simile dovrà meritare la galera bisognerà pur dire che in un certo senso, non fosse che è una donna (che culo!), quella galera potrebbe meritarla pure lei.

Tale teoria, a parte muoversi solo entro i limiti della discussione securitaria, non oltre quella, è speculare e opposta all’occhio per occhio brandito dai maschilisti che invocano garantismo quando c’è da parlare di uomini accusati di violenza e quando invece si discute di donne le rinchiuderebbero in carcere a vita.

In ogni caso questo si chiama disquisire sulla pelle altrui per imprimere nella discussione un principio, astratto, ideologico e tale maniera di disquisire su queste vicende è delegittimante per la ragazza, la pone in condizioni di fragilità rispetto all’accusa ricevuta, ed è irresponsabile tanto quanto quelle discussioni teoriche e slegate dalla realtà realizzate da intellettuali radical chic filo/istituzionali che mentre c’è un ragazzo che rischia processi e galera, con accuse improbabili che ricalcano lo stesso schema della repressione del dissenso, vanno spargendo il verbo sui buoni e cattivi nelle piazze, sulla lotta non-violenta e su come quel ragazzo, alla fine, dovrà imparare a stare al mondo.

Sono tutti approcci pedagogici filo repressivi, in qualche modo autoritari, tesi giammai a disconoscere l’eterno ricorso alle galere e l’azione repressiva dei tutori, tra i quali al limite possono stigmatizzare il comportamento della “mela marcia“, quanto piuttosto a incasellare le pratiche di dissenso e resistenza civile in appositi spazi affinché il mondo possa andare sempre nella stessa direzione.

La protagonista di quel gesto, cui lei stessa ha attribuito valore simbolico, direi che non è incline, come si è visto, a subire questo tipo di pedagogia, e una cosa (si tratta di abc, in effetti), sulla maniera in cui si pratica sorellanza e militanza collettiva, voglio insegnarla io a chi si permette di dare lezioni di femminismo e disobbedienza dall’alto del proprio pulpito paternalista:

quando una compagna compie una azione in piazza, autodeterminata, può piacerti o meno, puoi certo criticarla, discuterne con lei, innanzitutto con lei, ma qualunque cosa lei faccia e, soprattutto, quando quella compagna diventa oggetto di repressione, tu le stai vicino, e basta. E tutto il resto è fuffa.

Posted in AntiAutoritarismi, Comunicazione, Critica femminista, NoTav, Pensatoio, R-esistenze.