Da Abbatto i Muri:
E poi restano a fare guadagnare tutto il giorno papà Zuckerberg su faccialibro. O commentano imperterrite, su siti e blog in cui ogni commento, ogni accesso fa guadagnare money in pubblicità, dicendo che giammai qualcuno guadagnerà sulla nostra pelle.
Quelle che “io non mi venderei mai per niente al mondo“. E sono lì a fare marketing involontario a ditte di profumi, di cosmetici, biberon e pannolini, modelli sociali e ruoli che arrivano dritti dritti da operazioni di marketing a largo raggio e da pubblicità.
Quelle che “io la do solo per piacere” e a parte il fatto che chissà se trombano davvero poi le vedi compiacenti e accondiscendenti a far pompini, metaforici o reali, per un posto di lavoro, uno spazio nella società, una fetta di mondo o l’illusione della libertà.
Quelle che vendono il modello “restiamo unite“, “vogliamoci tutte quante molto bene“, ridicolizzano un conflitto politico che è sempre rimosso, salvo legittimarlo impropriamente quando si esprime in flame, livore incontrollato o aggressività contrabbandati per “critica” e “dissenso”.
Quelle che “io non sono merce” e stanno a raccontarsela mentre c’è il mondo intero che vende il brand “femminicidio”, “violenza sulle donne”, “mamma” o più semplicemente “donna” e sono funzionali a neoliberismi e patriarcato, governi e istituzioni, botteghe e teatrini osceni, a rappresentare la patria in quanto “vittime”, “soggetti deboli”, a schiena nuda con su scritto “fragile”.
Quelle che “io puttana mai” e non fanno che puntellare il cammino, reale o metaforico, di quella che dovrebbe esprimere orgasmo, urli, parole, pensieri, controllati, ché alla società dell’oggi, al marketing istituzionale, all’industria del salvataggio altrimenti non siamo funzionali.
Quelle che “noi non siamo merce” ma mercificano il femminismo per farlo diventare strumento di promozione per industrie, reti assistenziali che di quella promozione campano.
Quelle che “la prostituzione, anche se per scelta, è una violenza” e per affermare quell’idea profondamente autoritaria legittimano leggi repressive in cui in programma si vedono tanti bei soldi per la formazione, la rieducazione, la intercettazione, la repressione, e neppure un soldo per prevenire la precarietà.
Quelle che se fossero libere, ma libere per davvero, se non avessero sviluppato micro/macro dipendenze, depressioni, ossessioni e idiosincrasie da precarietà diffusa non trascorrerebbero tutto il giorno a lurkare e pedinare virtualmente l’altr@.
Quelle che pensano che le “sorellanze” si celebrano con il rito sacrificale della strega di turno sull’altare della lotta contro la violenza sulle donne (not in my name!) e oggi gli si indigna il sopracciglio per un culo nudo in pubblicità, domani per un porno e doman l’altro considerano quei culi come oggetti, che è né più e né meno che quello che fanno altr*, perché dimenticano di chiedere alla persona che c’ha messo il “culo” se l’ha fatto di sua sponte oppure no, se ha bisogno d’essere salvata oppure no. Così quel culo da che era una “merce” pagata diventa “merce” gratis del Comitato per La Purezza dell’Orgasmo per il bene dei sacri valori morali e della società.
Quelle che hanno la parola un po’ più lunga, un po’ più pregna e moraleggiante e di mestiere fanno le spacciatrici di panico morale per sollevare l’audience di giornali, siti web e tv ogni volta che si ragiona di violenza.
Quelle che guardano alle puttane solo come anime perse da redimere, per farle ritornare sulla retta via, recuperare il loro buon senso, iniettando loro un po’ di banale senso del decoro, ché “cara, se gliela dai per i soldi hai perso il senso pieno del piacere che solo io conosco…“. Meglio fare la badante, la pulisci cessi, la lavapiatti, la moglie, la infermiera dove ti vendi uguale ma a prezzi da schiava d’altri tempi.
Quelle che “noi non siamo merce” ma ti rivendono anche da cadavere per dire messa, raccontare balle e poi celebrare la catarsi promuovendo polizia e galera.
Quelle che “noi non siamo merce” ma il welfare in cui le donne fanno gratis ruolo di cura e mammismo sociale in eterno non lo mettono mai in discussione ché le femmine c’hanno l’istinto, sono braverrime, migliori per fare quelle cose là e perciò, ‘sti cazzi, “rivendichiamo la nostra differenza” (ma anche no!)
No, dai, non siamo merce. E’ che rendersene conto è una tranvata in faccia. E’ una ebbrezza neuronale. E’ un risveglio necessario.
Noi siamo tutte merce. Esserne consapevoli significa monetizzare l’uso che altr* già fanno di te perché tra illudersi di essere liber* ed esserlo davvero c’è una distanza abissale.
Siamo tutt* merce, ma proprio tutt*, perché le battaglie identitarie social/anestetizzanti oggi sono funzionali al capitalismo che ti vuole illusa, inconsapevole e mai cosciente del fatto che sei tu a poter imporre un prezzo.
Ché tu ce l’hai stampato sul culo, sulla faccia, sulla vita quel prezzo. Ce l’hai dalla nascita, e fare finta che non sia così è una stronzata.
Quelle che “noi non siamo merce” e in fondo, ed è questo il punto, sono delle moraliste perché l’unica cosa che per loro non s’ha da vendere è la fika. Ché dicono che la tua vita e il tuo corpo dovranno essere liberi e li consegnano al controllo di “utilizzatori finali” di stampo istituzionale.
Puttane sempre. Puttane a testa alta. Fiere di esserlo.
Perché sei tu che puoi decidere il tuo prezzo. Ed è questa la cosa che non va bene a chi dice di volerti salvare. In fondo è sempre meglio essere sfruttate da papponi “legali” che non esserlo affatto.
Quelle che “noi non siamo merce” ma merce lo sono perché pensano da merce, vivono da merce, respirano da merce e quel che a loro sta sulle ovaie è solo il fatto che c’è chi decide di appropriarsi di quel ruolo e di gestirlo, autonomamente.
E dopo, solo dopo, quando avrai acquisito questa consapevolezza, quando sarai cosciente di essere soltanto merce, sempre, avrai la forza di prenderti tutto senza chiedere più niente e potrai dire di poter fare, forse, la rivoluzione mandando a quel paese liberismi e moralismi, anestetizzatrici delle precarie in nome del Bene delle donne e imbonitrici o imbonitori del circo dell’antiviolenza.
Un circo. Perché questo è. Al servizio dei padroni.