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La privatizzazione della lotta al #Femminicidio e il femminismo della differenza

da Abbatto i Muri:

Le Pagine SI tra le altre cose fanno pure gli elenchi telefonici. E’ una impresa, una società, che onestamente si guadagna il pane.

Come altre aziende prima di lei [Yamamay, Coconuda] ha deciso, immagino, di fare campagna contro il femminicidio, a dimostrazione del fatto che il brand funziona e che è un buon veicolo per dare positiva visibilità anche a chi vive di commercio.

Ha fatto un sito, una pagina facebook e pubblica contenuti che parlano di femminicidio e di lotta alla violenza di genere. Ha anche preso la Vezzali come testimonial per la campagna e precisa che la stessa si è prestata a titolo gratuito “per la lotta alla piaga sociale rappresentata dal femminicidio“.

Vezzali è una grande atleta che ricordiamo con piacere pensando al momento in cui disse all’allora presidente del consiglio Berlusconi “Presidente, da lei mi farei veramente toccare“. “In senso tecnico“, aggiungeva poi Bruno vespa. E ci si riferiva ovviamente al tocco del fioretto.

http://www.youtube.com/watch?v=-jjRRnA0t8U

Le pagine del sito web che l’azienda mette a disposizione per la causa sono piene di numeri utili, informazioni, e poi c’è l’angolo delle interviste.

Da lì scopriamo che Ida Dominijanni, femminista della differenza (sigh!) spera che il decreto sul femminicidio non passi, che lo trova “pessimo e non emendabile“. E poi continua: “E’ una specie di concentrato di tre ingredienti micidiali che contestiamo da trent’anni: vittimizzazione delle donne, riduzione a problema penale di un problema culturale, ideologia securitaria neoliberale. Dico di più, andando appunto al nocciolo pur sapendo di essere del tutto impopolare: tutta la discussione sul femminicidio è stata un modo per rimettere ordine nel discorso pubblico dopo il disordine provocato dal sexgate degli anni passati. Troppo difficile orientarsi nel ”gender trouble” del post-patriarcato: meglio tornare da capo, donne tutte vittime sotto tutela e patriarcato in splendida forma. Non sto negando che il problema del femminicidio esista e sia immenso, sia chiaro. Dico solo che dopo sei mesi di dibattito parlamentare non abbiamo un solo elemento in più per rispondere alla domanda di fondo: perché gli uomini reagiscono alla nostra libertà ammazzando noi e amputando se stessi? La giro a quelle zelanti parlamentari pddine che girano per dibattiti sostenendo che ”con questo decreto abbiamo messo in sicurezza le donne”.

Scopriamo anche che la viceministra Guerra, ovvero quella che diceva che le donne sono da tutelare in quanto risorse, ha affermato che:

il problema primario inerente le donne, secondo il mio punto di vista da economista, è capire il ruolo che deve essere assegnato al lavoro di cura non di mercato (non retribuito)”.

Chi la intervista invita alla lettura di Irigaray, pure lei teorica della differenza con l’assillo sull’ordine materno, con un passaggio che rimanda alla finalità a due soggetti, uomo/donna, perché altri soggetti (addio al queer!) il femminismo della differenza non ne vede, e sempre a proposito del ruolo di cura, per completezza, riporto l’intera risposta della viceministra Guerra:

Da economista, le rispondo che per me il problema primario è capire il ruolo che deve essere assegnato al lavoro di cura non di mercato (non retribuito). Sono infatti proprio le caratteristiche di questo lavoro  a determinare i confini fra Stato, mercato  e famiglia riguardo alle responsabilità per la prestazione e anche per i costi della cura dei bambini, degli anziani e delle altre persone non compiutamente autonome.

Visto che il lavoro di cura  è sempre stato assegnato in base al genere, si tende a pensarlo come un problema dell’organizzazione dei tempi di vita femminili. Si tratta, invece, di un tema che riguarda il funzionamento complessivo della società, perché senza il lavoro di cura non può reggere né riprodursi. Un tema, quindi, che coinvolge l’organizzazione del lavoro, e non può prescindere dalle mutate e mutevoli caratteristiche della struttura famigliare. Sotto questo profilo, le politiche di conciliazione vanno impostate in un’accezione ampia. Non solo è necessaria la creazione di servizi e di politiche dei congedi, ma servono anche i tempi del lavoro retribuito di donne e uomini. Una trasformazione che non si può fare senza un investimento culturale, per incidere sulle asimmetrie di genere nella ripartizione dei compiti, e sugli stereotipi ad essa collegati.

Dunque si afferma che la società non si regge in piedi senza cura e riproduzione. Che l’organizzazione del lavoro deve dipendere da questo e perciò si parla di politiche di conciliazione, ovvero quelle politiche che “aiutano” le donne a restare incastrate tra lavori precari e flessibili e famiglia. E mi vengono in mente tutte le sciocchezze affermate dalle femministe della differenza anni fa, quando erano loro, tra gli altri, che promuovevano la politica dei tempi e della flessibilità del lavoro tra le donne come fossero utili a fare realizzare la nostra “differenza”. Perché, come dice la loro bella teoria, noi non siamo “pari” ma siamo “diverse” e dato che siamo “diverse” (l’orgoglio della maternità, la naturale inclinazione per la cura e tutta quella serie di stereotipi sessisti che ci imprigionano in ruoli precisi) ci devono trattare “diversamente“.

Quel “diversamente” è stato, negli anni passati, esattamente come è adesso per le campagne sul femminicidio, inteso come elemento di vittimizzazione. Perciò vedevi la descrizione di lavoro flessibile, addirittura la palla del telelavoro, promossi come fossero un favore fatto alle donne.

Posso serenamente dire che le donne, anche allora, in tutta Europa, lo so perché c’ero e combattevo, hanno risposto picche, perché non ci serve “conciliare” per dare legittimità a lavoro flessibile, i co.co.co., i co.pro, con relativo marketing economico/istituzionale fatto sulla nostra pelle, ma ovviamente le leader del femminismo di partito (le antesignane del Pd) dell’epoca, assieme a tutto il filone socialdemocratico europeo, in procinto di sdoganamento di neoliberismo, e a chi stava al governo non hanno affatto tenuto conto delle nostre opinioni.

Ancora oggi, dunque, si ritiene che la parità si raggiunga riconoscendo la diversità, ovvero con una politica di discriminazioni positive. Le donne non sono pari ma sono diverse (vittime, deboli…) e i tempi di lavoro delle donne dovranno così essere diversi. E se questa è la premessa mi sfugge il perché la viceministra poi parli di asimmetria di genere e stereotipi. La prima asimmetria e il primo stereotipo sono giusto quelli che applica lei.

Per lei siamo donne, dunque diverse (leggasi da tutelare in quanto risorsa per la cura e la riproduzione) e quel che si fa è metterci uno sgabello sotto per farci sembrare pari? E lo sgabello è ancora quella sciocchezza della politica dei tempi diversi nel lavoro?

Poi ci sorprendiamo del fatto che le donne sono viste da questo governo come vittime, deboli, da tutelare?

Ripeto, e lo scrivevo qui:

Le politiche paternaliste e autoritarie contro la violenza sulle donne esprimono chiaramente la linea governativa in materia, che è quella di mettere sotto tutela le donne in quanto apparati riproduttivi dello stato-nazione in crisi, affidando loro il welfare privatistico familiare. Attraverso la tutela del genere femminile in realtà si riafferma e si tutela l’ordine sociale tradizionale, basato sulla famiglia etero-patriarcale.

Non vedete anche voi una strana coerenza tra tutto quello che dunque succede?

E’ sempre lì, il femminismo culturalmente egemone, che anestetizza le precarie e usa la contraddizione di genere per rimuovere il conflitto di classe, quel correntone femminista in cui ovviamente esistono contraddizioni, persone che declinano quel pensiero in modo differente, pur restando dentro quello schema, come fa la Dominijanni che critica ma senza mettere in discussione la radice stessa di quello a cui si oppone, e quel pensiero femminista sta facendo danni da anni. Quand’è che lo metteremo seriamente in discussione?

In quanto a Pagine Si penso esattamente quello che penso per ogni azienda che decida di utilizzare un brand per farne una campagna sociale. Non esiste un capitalismo buono, dicevo a proposito della querelle Barilla. La logica è pur sempre quella del profitto, al di là delle ottime intenzioni delle persone che avviano le campagne, ma nel momento stesso in cui su un manifesto, un sito, una copertina degli elenchi telefonici, qualunque cosa tu faccia per parlare della tua campagna metti il tuo logo, ovvero pubblicizzi il tuo marchio, e sono consapevole del fatto che costituisce un investimento, di fatto privatizzi una lotta, parli di donne uccise, di vittime di violenza e ci metti un marchio sopra.

Lo dico a tutte le aziende: volete fare campagne contro la violenza sulle donne? Volete fare un investimento disinteressato? Allora cooperate con le associazioni che si occupano di questo tema, tenendo conto della loro sapienza ed esperienza. Ovvero fate le campagne ma se non vi interessa la pubblicità è proprio necessario veicolare il vostro marchio?

#IoMiSalvoDaSola e non ho bisogno che le aziende private arrivino in mio soccorso. E’ possibile comprendere questo concetto?

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Posted in AntiAutoritarismi, Comunicazione, Critica femminista, Pensatoio, R-esistenze.