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Sei post-femminista: l’insulto politically correct delle evangelizzatrici di massa!

UntitledIl concetto viene tirato fuori a partire da contesti in cui non possono più dirti espressamente che sei una seguace del maschilismo. Perché, ricorda: tutto quello che non fa capo al femminismo radicale, ovvero quello delle militanti antiporno e del comitato per la purezza dell’orgasmo, quello che “donna” è meglio in qualunque sua parvenza e se pensa autodeterminata è maschia, ovvero, maschilista, ovvero, politicamente parlando, è post-femminista.

Il femminismo, quello vero, pensato, respirato, finanche defecato da alcune donne, è giusto quello che praticano loro che irreprensibilmente dettano il verbo, la norma, che deve stare bene a tutte.

Per fare passare come buone le loro anacronistiche tesi, a partire dalle quali danno delle puttane alle puttane (ti vendi al patriarcato!!!), delle masochiste a quelle che nel sesso preferiscono farsi legare e danno delle donne permale alle porno star (cattiva, fai ergere peni e induci perfino alla masturbazione qualche donna!!!), son concentrate nel descrivere i mondi di donne che a loro non somigliano come sporchi, orribili, violentissimi, in cui le donne subiscono sempre e comunque, che poi è come dire che se stai in famiglia non ti succede niente, che se ti spogli e se ti esponi alle violenze te ne capiteranno di peggio.

Brutte e cattive le femministe che parlano di post-porno, di prostituzione libera e autodeterminata, di mettere fine alla repressione e alla proibizione. Brutte e cattive quelle che hanno da tempo abbandonato i santi crismi della beddamatresantissimosità e non valorizzano la differenza uterina (siamo queer, perdio!). Brutte quelle che raccontano la precarietà senza fare alcuna distinzione tra tutte le forme di sfruttamento.

Precarietà è quella vissuta da chiunque abbia braccia, corpo e testa da vendere per qualunque cifra. Lo facciamo tutte e non c’è differenza alcuna se io vendo il corpo o se vendo il cervello. La differenza attribuita deriva da una morale bacchettona che immagina alcune parti del corpo più preziose di altre, che non riesce a mettere sullo stesso piano, per esempio, il lavoro di cura e la prostituzione, perché la prostituta va salvata e invece la badante proprio no.

E’ una visione, quella loro, utile al capitalismo, perché separare la faccenda dello sfruttamento del corpo da ogni altra forma di sfruttamento riduce tutto al conflitto di genere rimuovendo il conflitto di classe. E come abbiamo visto tante volte, declinare la contraddizione di genere senza parlare di conflitto di classe  è un’idiozia.

A molto poco serve che si descriva, per esempio, la lotta alla pornografia o alla prostituzione come pratica anticapitalista perché, quando c’è sfruttamento, capitalismo è tutto, incluso quello che sfrutta il brand donna e lotta alla violenza sulle donne in tutte le sue forme. Il capitalismo è fabbrica di stereotipi e adora i vittimismi. Laddove riesce a dividere le persone, anche le donne,  in streghe e martiri, ha ottenuto quello che voleva: le donne a casa, ben protette, affidate ad un tutore, a fare figli, a produrre manodopera e a svolgere ruolo di cura, e l’uomo, quello cattivo, a fare guerre ancora in nome del profitto.

Autoritarie, macchiavelliche, ché il fine giustifica il mezzo, per cui hanno ben poco talento nel riuscire ad agire il conflitto con le altre nel rispetto delle differenze, non trovano modo per veicolare le proprie idee se non quello di insultare le donne che non la pensano come loro e dunque, tieni, sei una post-femminista se pensi che sia essenziale rispettare l’autodeterminazione delle singole, che non si possa ricondurre tutto ad una lotta in cui alla fine, in realtà, tu affidi la tua sorte a patriarchi, paternalisti e suore, che non si possa fare moralismo, imporre una morale unica e volgare alle donne instillando loro sensi di colpa sulle conseguenze delle proprie azioni nei confronti delle “altre”.

E chi sarebbero le altre? Naturalmente loro, le femministe senza post. Non sono pornografe pentite, prostitute private della propria dignità. Sono donne, prevalentemente laureate, inserite in altri contesti sociali, che si interessano di studi di genere, e che parlano delle prostitute strumentalizzando la voce di quelle che lamentano, giustamente, sfruttamento. Si appropriano culturalmente di rivendicazioni autodeterminate e le brandiscono contro quelle altre, le sex workers, che invece, per proprio conto raccontano una realtà diversa, fatta di scelta, di rivendicazione di diritti, di lotta contro lo stigma moralista che viene loro imposto, di sottrazione di spazi di agibilità politica e di delegittimazione costante alla quale sono costrette a partire dalle “femministe” che si alleano con ogni forma di autoritarismo per motivare e realizzare la richiesta della proibizione.

Sono delle colonizzatrici delle cause altrui. Alla ricerca di vittime da vittimizzare per meglio poter elargire la loro tesi sul mondo. Di tante attrici porno che ragionano di pornografia femminista cercano giusto quella che dice che porno è sporco, ovvero cercano il dettaglio che possa dimostrare quanto queste donne, tutte, siano patologizzabili, da rinviare allo psichiatra, e dunque infine ritengono che le donne vanno salvate in ogni modo possibile, innanzitutto da se stesse, perché l’idea che queste donne hanno per il proprio futuro è sicuramente sbagliata, perché se non pensano femminista radicale allora non penserebbero con la propria testa, ché il pensare libero universale corrisponderebbe ad un unico pensiero, quello antiporno, perché se mostrano il corpo significa che lì bisognerebbe intervenire autoritariamente.

Infine hanno anche una loro particolare versione della storia su quanto, come e dove, interferisce sulla crescita di un individuo, uomo, l’immagine porno, sicché sono contrarie a ritenere che possa esistere una forma di condizionamento per chiunque salvo per gli uomini che nei loro progetti futuri, in odor di Arancia Meccanica, vanno rieducati sentimentalmente e sessualmente.

Curiosamente anche dire queste cose è post-femminista, di più, sarebbe addirittura antifemminista. Ma siamo proprio certe che il femminismo che raccontano, stagnante e mai in divenire, dove la società viene ancora vista come ci trovassimo negli anni ’50, sia quello che può piacere a noi?

A me non piace il fatto che esista una modalità di appropriazione culturale evidentemente discriminatoria da parte di queste femministe, che a partire dal porno,  il corpo, la sessualità, poi passando per la prostituzione, per finire alle donne che indossano il velo, praticano neocolonizzazione di massa. Riassumono concetti che normalizzano in chiave perennemente autoritaria. Parlano perfino di precarietà, per dare una parvenza di antagonismo ai loro temi anti-libertari, e vogliono moralizzare i contenuti della narrazione di qualunque donna, a partire da qualunque forma di precarietà. Sono rieducatrici di massa, evangelizzatrici, per me intollerabili per la modalità supponente attraverso la quale fingono di relazionarsi quando poi, in realtà, come qualunque volontaria pro/life, antiabortista, non ti ascoltano nemmeno.

Tutto quel che intendono fare e fanno è tentare di convincerti a seguirle nel loro modo di vedere il movimento femminista, né più e né meno che una setta, possibilmente con gruppi segreti su facebook, pianificando la sconfitta del patriarcato e “delle sue complici”, senza neppure sapere configurare le opzioni per la privacy :D, gruppi nei quali dividono il mondo in buone e cattive. Le buone sono loro. Le cattive, le post-femministe, ovviamente, siamo noi.

E se noi siamo post-femministe, dunque, loro come dovremmo chiamarle? Pre-femministe? C’era qualcosa prima del femminismo? Oh si, infatti, c’erano i comitati proibizionisti dell’alcool…

[da Abbatto i Muri]

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