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Se non hai perso la verginità (da lavoro precario) a 25 anni…

da Abbatto i Muri:

Dice la ministra all’istruzione che se arrivi vergine di lavoro precario all’età di 25 anni allora non va bene. Bisogna sudarsela come si deve quell’età perché studiare e basta non fa più figo. L’attuale governo, come d’altronde quello precedente, promuove il modello “precario e non istruito è meglio”, perché più gente istruita arriva a 25 anni, forse, e più gente consapevole e incazzata nelle piazze si ritrovano a rivendicare diritti che nessuno ti concede.

Cosa figherrima è che non promuovono neppure, come usava ai tempi antichi, la possibilità d’apprendistato che poi ti regalava un mestiere. Proprio no. Ti parlano di fatica aggratis, senza maturare alcuna qualifica a garanzia di una mobilità professionale. Ti parlano di una fatica che ti serve a malapena per campare, di modo che arrivi all’università, semmai ci arrivi, completamente massacrato, già bell’e disilluso, stanchissimo o che comunque ti sei perso per strada gli studi perché se si lavora, e chi lavora faticosamente questo lo sa bene, in special modo se in maniera precaria, da sfruttato, in nero, poi di studiare non si ha più il tempo. Chi poi, malauguratamente, insiste e non si fa piegare e prova ugualmente a continuare gli studi, per tentare di trovare uno sbocco professionale differente che sia quello del camerierato a vita, si trova ad avere a che fare con il ritardo ormai cumulato. Dunque forse ti laurei fuori corso. Ti fottono quando immagini di poter ambire anche ad uno stage in nero. Non sei più in età appetibile da apprendistato. E nel frattempo magari hai messo su famiglia e tutto questo perché c’è chi mette sulla tua strada una serie di incentivi alla precarietà che tolto di mezzo te lasciano spazio, come sempre, ad una società di pochi, illustri, dottori e dottoresse, distinti da te da una differenza di classe non indifferente.

C’è dunque che la ministra ti dice che non puoi arrivare ad una certa età avendo studiato e basta. E te lo dice la ministra all’istruzione che forse immagina che lo studio non sia lavoro, non sia fatica, non sia un investimento sul tuo futuro e su quello del paese in cui scegli di vivere, nonostante tutto ‘sto po’ po’ di disincentivi.

C’era una volta il tempo in cui studiavi, ti dicevano che studio=lavoro, che era importante alfabetizzarsi, formarsi, apprendere e poi ricondividere saperi. Ce lo dicevano i nostri genitori che tanto avevano faticato e tanto erano stati presi per il culo con promesse di sopravvivenza che li hanno portati solo verso un gran disastro. Allora accadeva che fare studiare le giovani promesse equivaleva a fornire specializzazioni, personale colto e preparato per incarichi che coincidevano con una idea di sviluppo. E poi però la manodopera, ché ormai devi prendere una laurea anche per avvitare un cazzo di bullone, è diventata più esigente, sa leggere i contratti tra le righe, rivendica diritti, ciascun@ è sindacalista di se stess@, le stesse anime migranti che arrivano a colmare vuoti professionali in odor di sfruttamento in realtà c’hanno due lauree, qualche volta, e c’hanno pure l’animo rivoluzionario e proprio non funziona aggiungere il vigore migrante di chi ha lottato e sconfitto con il sangue le dittature e di farsi mettere i piedi in faccia non ha voglia.

Perciò da lì l’invito dei vari ministri del lavoro, e le ministre che a momenti ci manca che ci invitino a tornare a fare figli, a noi fanciulle, perché così saremmo produttive per reggere in piedi un welfare fatto di niente, e nella indole da lavoro sessuato, ci scommetto, ti invita a fare la cameriera o l’assistente di libreria (sono indirizzi genderizzati o almeno possiamo ambire di fare tutti entrambe le cose?).

Dico una cosa molto semplice e la dico perché questo destino precario, così come è capitato a me, capita a mi@ figli@ e a tante figlie e figli di questo tempo osceno. Lavoro praticamente da sempre. Educata a fare pulizie in casa in quanto figlia femmina del meridione, ho avuto il mio bel periodo di apprendistato a lavoro di cura, colf-ariato, badant-ato, camerierato e affini. In più studiavo. Davo perfino lezioni private che avevo tipo 15/16 anni. La prima volta che ho fatto la cameriera all’estero avevo 18 anni. Lavoro/studio, per imparare la lingua. Ho partorito a 20. Fatto la mamma, lavoratrice, studentessa per gli anni a seguire e quando sono arrivata al titolo di studio ero talmente speranzosa di trovare una posizione non precaria da meritare il titolo ad honorem di illusa. Invece ho fatto tre lavori contemporaneamente, se mi andava bene ne facevo due, così ho proseguito per mille anni che chissà quando e se sono finiti.

A 25 anni? Tu pensa che avevo perfino l’energia di fare la militante incazzata contro tutto il mondo che non faceva che togliermi diritti. Mi piacerebbe perciò sapere come ha trascorso i suoi primi 25 anni la ministra, davvero, ce lo dica e ci dica se i suoi figli o le sue figlie hanno fatto i camerieri o come impiego temporaneo giovanile non sono piuttosto andati a fare esercizio di managerialità da qualche parte.

E’ che queste gran balle si possono raccontare a quelle persone ancora forse troppo giovani, illuse, che immaginano di poter cambiare il mondo schitarrando nei campeggi dei giovini piddini alla festa dell’unità (se ha ancora un senso) le canzoni di de andrè delle quali evidentemente non capiscono neppure il senso, ma non si possono raccontare ad almeno due generazioni che non appartengono ad area borghese, arrivano da famiglie che hanno fatto grandi sacrifici per farti studiare e tuttavia non hanno futuro, perché davvero non ce l’hanno. Dunque, su, dai, grandi ministri, ora diteci che non si può arrivare alla pensione senza essere disponibili a spazzare gratis le cacche di cane del quartiere. Ditemi che pretendere anche la pensione, oltre un lavoro in gioventù, è choosy…

Posted in Comunicazione, Pensatoio, Precarietà, R-esistenze.