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Mutilazioni di fine rapporto (non per giusta causa!)

480231_334784236592841_1751263082_nDa Abbatto i Muri:

Quelle dell’anima e del corpo. Quelle di testa, quando non ragioni più e ti sembra plausibile quello che fino a qualche giorno prima non avresti pensato  mai. Quelle che ti sembrano utili a segnare una distanza e contemporaneamente una presenza. Non voglio vederti più. Ma chi ti vuole. Non ti sfiorerei più neppure con un dito. Ma guardami, mi vedi? Tu mi hai ferito e io ti faccio male. Ricorderai che cos’è stato massacrarmi il cuore. Ricorderai che mi appartieni e non ti lascio vivere felice con quell@ là.

Ci sono mutilazioni permanenti ed altre provvisorie. Una infinita serie di ossa rotte e cicatrici che per la maggior parte restano nascoste sotto abiti confezionati apposta. C’è che le tracce della violenza non spariscono come per incanto. Conosco tanta gente che ancora sta a combattere con sintomi post traumatici e che alle domande sulle ferite permanenti rispondono che è successo, tanto tempo fa, poi si va avanti. In mezzo alla montagna di mutilazioni ci sono quelle che sanno di finzione lontano un miglio. Uomini e donne che raccontano di lividi e miserie patite e ricevute e poi glissano su domande semplici e quando ti metti nei panni delle loro o dei loro ex un po’ capisci quel che è successo, com’è stato, e allora scorgi chiaramente un fatto: la mutilazione non sempre sta dove ti dicono che resta.

C’è chi è specializzat@ in mutilazioni di fine rapporto quasi invisibili. Quando si lede la tua sicurezza giorno dopo giorno. Quando quella persona regola il tuo umore e le tue abitudini e guai a te se sbagli perché per ogni errore c’è una punizione, una specie di ritorsione, una modalità che incrina ancora di più la tua autonomia. C’è chi ti leva il fiato, poco a poco, misurando ogni atteggiamento in termini di dominio giacché sei dipendente e non vorrebbe tu fossi altro che così. Perché lo sforzo d’autonomia dovrebbe essere di entrambi. Non è proprio possibile che prima ti voglio non-autonom@ e poi ad un certo punto tolgo il collare e dico “vai…”. Il cane rimarrà attaccato a quel cancello, gratterà la tua porta, starà lì in attesa perché un animale “domestico” resta domestico e fuori, da sol@, non saprà vivere. Non subito. Non sempre.

Ci sono espressioni del potere che arrivano urlando alla tua pelle, fragile, ché è respingente, certe volte, e il tuo padrone picchia forte perché ci sono relazioni non consensuali e sadiche in cui qualcun@ esercita il dominio, restituisce il vuoto, annienta volontà e ti fa restare sempre appes@: è la vertigine la tua condizione. Prigionier@, senza alcun punto di riferimento che ti restituisca a te stess@, la forza che ti manca, la vita che non è nemmeno vita. Non puoi essere liber@ perché la tua libertà è la fine del suo dominio. Tu non puoi criticare, dissentire, esercitare autodeterminazione, perché ogni tuo respiro autonomo è eversivo e sono io che decido, invece, anche per te, infliggendo repressione.

Fine rapporto è quando mi accorgo che ho il diritto di decidere per me. Chi sono, con chi voglio stare, respirare, scopare. Ma quando mai è detto che io abbia un dovere nei confronti di un padrone? Ogni rapporto pubblico è regolato da un contratto salvo quello privato in cui la rescissione è ancora celebrata come quando c’era la schiavitù legale. Se tu finisci io ti mozzo un piede. Se tu scappi ti taglio la lingua. Se tu tradisci ti strappo il cuore a morsi. Se tu mi lasci ti tolgo vista e prospettive con l’acido che scioglie la tua baldanza.

Tu servi a me. Tu devi rispettare l’ordine naturale delle cose. Sei fatt@ per servirmi, riprodurti, curarmi. Tu sei fatt@ per tenermi, mantenermi, proteggermi. Sei mia. Sei mio. E basta solo un attimo, tempo per l’ultimo respiro, ti brucio, ti mollo in faccia questa cosa che ha il potere di renderti repellente agli occhi altrui, giocando con le stesse regole estetiche in cui ti ho incastrat@, per cui tu esisti solo se rispondi al modello di bellezza che io ti ho imposto, così diranno al massimo che sei poverin@, da compatire, potrai fare una o due uscite pubbliche per denunciare l’accaduto, ritroverai una dimensione pubblica ma non senza nascondere la tua mutilazione, e allora ho vinto. Io ho vinto.

Bisognerà pur dirselo prima o poi che il punto chiave della faccenda non è soltanto che tutto ciò è incivile ma che per le persone mutilate non c’è risarcimento alcuno che non sia il riconoscimento pubblico che ti sa imporre solo lo status di vittima. Il punto è che io non sono “vittima” di una persona ma di una cultura intera, di uno Stato, che mi obbliga a concepire la mia vita solo finalizzata a quel modello di relazione, giacché non investe nella mia autonomia, istruzione, vita professionale, indipendenza. Per cui, io credo, che si cambierà cultura solo se io imporrò un contratto che più o meno dice che: io posso anche accettare di diventare oggetto e corpo di Stato finalizzato alla riproduzione e cura, all’intrattenimento e alla funzione di psicofarmaco sociale, alla protezione e al mantenimento, ma se qualcun@ mi mozza un dito tu mi dai un milione di euro, se mi massacrano un polmone tu me ne dai almeno dieci, se mi deturpano la faccia tu rendi miliardari@ me e i miei eredi.

Ogni lavoro andrebbe svolto in assoluta condizione di sicurezza. Io posso scegliere di svolgerlo o meno ma immaginare le relazioni come quella grande bugia in cui non sembrerebbe esserci un utile reciproco, dove la retorica d’ammmore produce vomito per tanta ipocrisia e serve solo a lasciare senza regole qualcosa che va regolato, dove l’assenza di regole serve solo a lasciare immaginare che le mutilazioni di fine rapporto siano incidenti di percorso, quel che non dovrebbe accadere, la mostruosità tra tanti buoni sentimenti, è solo un modo per mantenere in vita una schiavitù senza contratto.

Mostruoso non è l’accadimento violento nelle relazioni perché le relazioni con ruoli prestabiliti sembrano mostruose di per se’. Sono origine certa di degenerazioni conseguenti. Lo sono perché regolate secondo spinte morali e culturali che tengono intatti schiavitù e ruoli mentendo e lasciandoti intendere che sei tu che decidi.

Ebbene: tu non decidi un cazzo. C’è chi ha già deciso per te. Tu nasci, vivi, consumi, crepi, ti riproduci, ti prendi cura di, per fare ciò ti rendono difficile il sesso non riproduttivo, quello con persone del tuo stesso sesso, le tue metamorfosi e la tua anarchia di genere, perché tu sei soltanto un minuscolo incastro della catena di montaggio.

Vuoi che mantenga in vita questa illusione? L’amore esclusivo… le relazioni disinteressate… la santità e l’altruismo dei soggetti coinvolti… Allora pagami, ché non mi servono le norme repressive in cui ti autoassolvi e stabilisci chi si comporta bene e chi malissimo nelle relazioni. Pagami, perché della tua condanna a posteriori della persona che mi ha mutilato non me ne faccio niente. Pagami. Così almeno sono io che scelgo se immolarmi per la causa. Per dire… per un lobo mozzato a fine rapporto quanto sborseresti?

—>>>Bollettino di Guerra

Posted in Critica femminista, Omicidi sociali, Pensatoio, Satira.

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2 Responses

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  1. CloseTheDoor says

    Un bellissimo sito web divulgativo sulla relazione dipendente

    http://amoredipendente.wordpress.com/

  2. CloseTheDoor says

    Ho l’impressione che tu conosca davvero molto bene queste dinamiche. Non so se c’è uno Stato-padrone che le amplifica, ma sicuramente una cultura condivisa le legittima e le alimenta.

    Quando si parla dell’amore come “Eros”, Emily Bronte, non-posso-vivere-senza-di-te, si parla di un amore ben diverso dall’amore “Agape”, quell’amore tipo motore DIesel, in cui le persone migliorano. Era l’amore di cui parlava Jane Austen. La mitizzazione dell’Eros è un portato culturale molto importante.

    Ma più in generale a mio avviso in Italia siamo abituati a confondere l’amore con il possesso.

    Per quello che mi riguarda la relazione di dipendenza affettiva e la sperimentazione dell’ansia di controllo l’ho avuta fin dalla nascita, con mia madre, e anche lì, la nostra concezione di amore filiale e genitoriale legittima e alimenta alcune derive che se non sono patologiche, poco ci manca.

    Oggi i figli non possono uscire di casa da molto prima che iniziasse la crisi. Ho sentito troppi miei coetanei lottare con la famiglia di origine perché era sconcertata della scelta del matrimonio a 25, 30, perfino a 35 anni. I figli non escono perché i genitori si vedono vecchi e soli e diventano tristi. Poi i 60enni genitori si rendono conto che stanno per perdere il treno dei nipoti, e fanno finta di lamentarsi coi vicini che ah, signora mia, mio figlio è un pigrone, sta tanto bene a casa sua, e chi glielo fa fare di trovarsi una moglie fra le poco di buono che ci sono in giro oggi?

    Credo che per tagliare definitivamente il cordone della relazione di dominio bisognerebbe smettere di criminalizzare sia vittima che carnefice, anche perché i due ruoli qualche volta si confondono.

    Per questo secondo me il messaggio da lanciare per fermare i femminicidi è: UOMINI PRIMA DI ROVINARVI LA VITA E PASSARE ANNI IN CARCERE, FATE UNA TELEFONATA A UN BRAVO PSICOLOGO.