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Il “corpo delle donne” e la necrofagia dell’antiviolenza

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Da Abbatto i Muri:

E’ appurato che la campagna antiviolenza Yamamay sia pessima e che pessima sia l’idea di mercificare (rendere un brand) la questione della violenza sulle donne senza neppure consultare le donne che di comunicazione su questo tema sanno veramente molto. Ma di quello che penso in proposito ho già scritto QUI e QUI. Ora vorrei analizzare un fatto curioso. Di come il parere positivo rispetto a questa pubblicità progresso coincide con il parere negativo dedicato al momento in cui una donna viva sceglie di vendere il proprio corpo, in foto, video, concretamente.

Le persone che più accanitamente sono schierate a favore di questa campagna sono le stesse che vietano ad una donna di poter scegliere, in vita, cosa fare del proprio corpo. Che quella donna sia viva o morta, dunque, la considerano sempre un oggetto. A loro non restituiscono giammai diritto di parola, opinione, scelta. La loro autodeterminazione viene calpestata, mutilata, limitata, censurata, quando decidono di farsi fotografare nude per una rivista, se decidono di girare un video porno, se vogliono prostituirsi, se vogliono semplicemente fare da modelle per una pubblicità in cui l’uso del corpo è esibito per vendere un prodotto.

Di tutte quelle donne vive non vogliono sapere nulla perché di fatto considerano quelle donne degli oggetti sui quali ricucire una verità, presunta tale, che appartiene a chi la pronuncia. Sono donne offese dal moralismo di chi, appunto, applica la propria morale sul corpo altrui intendendo che quel che dà fastidio ad una dovrebbe dare fastidio a tutte.

In fondo è coerente, dopotutto. Non gliene frega niente di quel che pensano le donne da vive e non hanno alcun problema a mercificarle quando sono morte. Si fa tutto pur di dare voce alla propria ideologia proprio come fa ogni brav@ soldat@ di quel Dio sulla faccia della terra.

Attribuire alle donne un valore normativo, in vita e in morte, è tipico di certe religioni e chi pratica il femminismo in questo modo non fa che privare le donne di libertà di scelta. Non parlo di quelle che sono costrette a fare certe cose. Per ogni costrizione, per ogni pratica di sfruttamento sul corpo di una persona dovrebbero esserci degli impedimenti. Parlo di scelta che non viene mai riconosciuta da sacerdotesse e preti della difesa a oltranza del corpo delle donne, della dignità delle donne, senza che di queste donne interessi ascoltare un parere, perpetuando lo stereotipo secondo cui una donna bella che fa la soubrette o mestieri in cui il corpo diventa merce sia anche un’oca, a voler essere buone comunque non meno di una vittima. Diversamente diventa colpevole, quasi carnefice e si preferirebbe non parlasse mai, non si esprimesse, non dichiarasse la propria scelta di fronte al mondo affinché altre possano sostituirsi a lei narrando i suoi, di lei, desideri, seppur senza conoscerli.

Così mi sembra chiaro che chi non riconosce la diversità tra donne, chi immagina di poterle rappresentare tutte senza averle neppure consultate, chi passa il tempo a sovradeterminarle senza ascoltare le richieste reali, le rivendicazioni di diritti, che arrivano da chi fa foto, video, sex working, non abbia alcun problema rispetto al fatto che si mercifichi una donna morta ammazzata che in quanto morta ammazzata ben si presta a ricucirle addosso tutti i paternalismi che tu vuoi.

Ci sono persone che vedono le donne come oggetti inanimati, senza volontà e desideri, riflesso dell’utilità della esistenza del tutore, di colui il quale vorrà salvarla anche se lei non vuole essere salvata. Per legittimare se stessi. Per legittimare patriarcati, tutori, istituzioni autoritarie.

Ci sono persone che vedono le donne morte ammazzate come ottima occasione per celebrare sulla loro pelle tutta la retorica oscena che legittima teorie strampalate su quando, dove e come una donna preferirebbe risolvere la situazione di violenza che ha subìto.

Sulla pelle delle donne morte ammazzate viene ricucita una narrazione che non è la loro. Se solo una di quelle donne fosse ancora viva nessuno la ascolterebbe e anzi farebbero a gara per censurarla perché di sentir parlare le donne su quel che desiderano e sulle soluzioni che auspicano per se stesse non hanno proprio voglia.

Dunque troverete fianco a fianco moralist*, autoritari*, censori, che sono sempre lì, come volgarissim* voyeur a spiare dal buco della serratura quante once di culo una donna mostra per poi poterle dire che è offesa, da salvare o che è una complice di un sistema che mercificherebbe “solo” i corpi delle donne, li/le troverete insieme quando c’è da censurare un porno, quando c’è da negare il diritto all’autodeterminazione alle sex workers e quando, ovviamente, con loro sommo giubilo, potranno celebrare la loro pochezza e il loro autoritarismo sulla pelle di una donna morta.

Capito adesso a chi piace la campagna Yamamay?

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Posted in AntiAutoritarismi, Comunicazione, Critica femminista, Pensatoio, Scritti critici.