Forse qualche passaggio potrebbe risultare non del tutto convicente, ma il breve saggio ha più di un merito: ripercorre in maniera breve e allo stesso tempo esaustiva la storia del movimento femminista e delle sue divisioni fino alla nascita della teoria dell’intersezionalità, ancora troppo poco conosciuta in Italia; inoltre, viene posta la questione dell’ulteriore incrocio tra anarchismo e intersezionalità. Buona lettura!
Articolo tradotto da anarkismo.net
Rifiutando di aspettare: anarchismo e intersezionalità
L’anarchismo può imparare molto dal movimento femminista. Sotto molti aspetti lo ha già fatto. L’anarco-femminismo ha sviluppato analisi del patriarcato che collega quest’ultimo alla forma stato. Abbiamo imparato molto dallo slogan “il personale è politico” (e gli uomini che sposano la causa dell’uguaglianza tra tutti i generi, nella loro vita dovrebbero trattare le donne con dignità e rispetto). Abbiamo appreso che nessun progetto rivoluzionario può essere completo fino a quando gli uomini sistematicamente domineranno e sfrutteranno le donne; che il socialismo è una meta piuttosto vana- anche se è “senza stato” – se la dominazione degli uomini sulle donne è lasciata intatta. Questo saggio afferma che gli anarchici possono ugualmente imparare dalla teoria dell’intersezionalità che è emersa dal movimento femminista. Senza dubbio, la concezione anarchica della lotta di classe si è estesa come risultato della nascita dei movimenti femministi, dei diritti civili e della liberazione di gay e lesbiche (e, forse, più di recente, dei movimenti queer) dei diritti dei disabili ecc. Ma come ci posizioniamo in riferimento a queste battaglie? Qual è la relazione con la lotta di classe che è sottesa alla lotta per il socialismo? Li dismettiamo come “mere identità politiche” che oscurano, piuttosto che chiarire, la storica impresa della classe lavoratrice? Se no, come potrebbero gli anarchici includere i loro interessi nella nostra teoria politica e nel nostro lavoro?
Perché l’intersezionalità? Come siamo arrivate qui
Molte persone collegano gli inizi del movimento femminista negli USA con la battaglia delle donne per conquistare il voto. Questo focus sulla conquista del voto è stato criticato per la sua ristrettezza sul finire del secolo scorso da molte donne di orientamento radicale. Dopo tutto, cosa ha significato il voto per le operaie? Votare per un nuovo gruppo di legislatori in che modo avrebbe potuto provvedere al cibo per le loro bocche e per quelle dei loro famigliari? Infatti, molte donne radicali di questo periodo rifiutarono di identificarsi come femministe, dal momento che vedevano il femminismo come un movimento slegato dalla lotta di classe (per un’interessante discussione su questo punto, nel contesto dell’anarco-sindacalismo dei primi del 900, vediAckelsberg). A dire il vero, molte donne della classe lavoratrice videro le “femministe” a loro contemporanee alleate con “tutte le forze che erano state le nemiche più determinate della classe operaia, del/lla povero/a e del/della diseredato/a”- cioè videro che il primo movimento femminista era un movimento di donne puramente borghese che non aveva soluzioni per la povertà pervasiva e lo sfruttamento inerente la condizione della classe lavoratrice in una società divisa in classi (Parker)
Gli anarchici di questo periodo, d’altra parte, nei tempi anticiparono l’elaborazione da parte del movimento femminista di alcuni degli argomenti che riguardano l’intersezionalità. Ci siamo schierati contro il riduzionismo che spesso investe il milieu dell’ala socialista estrema. I primi anarchici hanno scritto su temi come la prostituzione e la tratta del sesso (Goldman), le sterilizzazioni forzate (Kropotkin), e il matrimonio (de Cleyre) per allargare la critica anarchica della gerarchia e dare un impulso critico ai temi delle donne che riguardavano i loro diritti, mentre articolavano una visione socialista di un futuro basato sulla cooperazione e su una società senza classi. Molti di questi primi lavori dimostravano le connessioni tra l’oppressione delle donne e lo sfruttamento della classe operaia. Il rifiuto di molte operaie di unirsi alle “femministe” loro contemporanee ha dimostrato altrettanto bene alcuni dei problemi di una identità universalistica basata sul femminismo che vedeva l’oppressione delle donne come una gerarchia che può essere combattuta senza combattere anche il capitalismo.
Questo però non significa che gli anarchici non furono a loro volta riduzionisti. Sfortunatamente, molti anarchici si disinteressarono delle problematiche che stavano a cuore alle donne. In parte le Mujeres Libres videro la necessità di un’organizzazione separata di donne durante la guerra civile spagnola proprio perché “molti anarchici considerarono la questione della subordinazione delle donne come, nella migliore delle ipotesi, secondaria rispetto all’emancipazione dei lavoratori, un problema che sarebbe stato risolto “il giorno dopo la rivoluzione” (Ackelsberg). Sfortunatamente, in alcuni contesti, quest’attitudine non è solo una stranezza dovuta al momento storico, sebbene dovrebbe esserlo. E questi assunti sono diventati un importante sfondo teorico per il femminismo della seconda ondata.
Concezioni contrapposte nella “seconda ondata”
Tra la fine degli anni 60 e gli inizi degli 80, cominciarono ad emergere nuove forme di femminismo. Molte femministe sembravano gravitare attorno a quattro teorie in competizione tra loro con spiegazioni molto differenti circa l’oppressione delle donne.
Come i loro storici precedenti borghesi, le femministe liberali non videro alcun bisogno di una rottura rivoluzionaria con la società esistente. Piuttosto, si focalizzarono sulla rottura del “soffitto di cristallo”, assicurando più donne in posizione di potere politico ed economico. Le femministe liberali partirono dal presupposto che l’assetto istituzionale esistente fosse fondamentalmente privo di problematicità. Il loro obiettivo fu vedere l’uguaglianza delle donne realizzata sotto il capitalismo.
Un’altra teoria, alcune volte riferita al femminismo radicale, sostenne di dover abbandonare la “sinistra maschile”, poiché era concepita come riduzionista senza speranze. Infatti, molte donne , che venivano fuori dal movimento per i diritti civili e da quello contro la guerra, lamentavano il sessismo pervasivo nei movimenti, essendo relegate a mansioni di segreteria, a supportare leaders maschi e a subire una alienazione generale dalla politica di sinistra. Secondo molto femministe radicali dell’epoca, ciò accade a causa del primato del sistema patriarcale, o, meglio, della sistematica e istituzionalizzata dominazione degli uomini sulle donne. Per queste femministe, la battaglia contro il patriarcato era la lotta principale per creare una società libera, poiché il genere rappresentava la nostra gerarchia più radicata e più vecchia (vedi soprattutto Firestone 1970)
Le femministe marxiste, su un altro versante, tendevano a situare l’oppressione delle donne dentro la sfera economica. La lotta contro il capitalismo fu individuata come una battaglia primaria, perché “la storia di tutte le società esistite fino ad ora è la storia della lotta di classe (Marx and Engels). Inoltre, le femministe marxiste tendevano a ritenere che la base economica della società avesse un effetto determinante sulle sovrastrutture culturali. Quindi, l’unica via per raggiungere la parità tra donne e uomini sarebbe stata abolire il capitalismo – così nuovi, ugualitari assetti economici avrebbero portato alla nascita di nuove, ugualitarie sovrastrutture. Tale era la natura deterministica della base economica.
Oltre alle dispute tra femminismo marxista e radicale, emerse un altro approccio chiamato “teoria del sistema duale” (Hartmann; Young). Prodotto di ciò che venne chiamato femminismo socialista, la teoria del sistema duale sosteneva che le femministe avevano bisogno di sviluppare “una relazione teorica che desse molto più peso al sistema patriarcale che a quello capitalista” (Young). Anche se questo approccio fece molto per risolvere alcuni degli argomenti riguardo la battaglia che dovrebbe essere combattuta come primaria (quella contro il capitalismo o quella contro il patriarcato), questo lascia ancora molto a desiderare. Per esempio, le femministe nere affermarono che questa prospettiva lascia fuori un’analisi strutturale della razza (Joseph). Inoltre, dove stava, in questa analisi, l’oppressione basata sulla sessualità, sulla (dis)abilità, sull’età ecc? Tutte queste componenti erano riconducibili al patriarcato capitalista?
Su questo sfondo teorico è emersa la questione dell’intersezionalità. Ma non sono state solo l’astrazione e la teoria ad accendere queste illuminazioni. Come accennato prima, una parte delle ragioni che le femministe individuarono come necessità per un’analisi separata del patriarcato in quanto sistematica forma di oppressione era dovuta alle loro esperienze con la sinistra radicale. Senza un’analisi del patriarcato che lo mettesse in un relazione paritaria con il capitalismo in quanto sistema che organizza le nostre vite, non c’era un’adeguata risposta da parte dei leaders i quali sostenevano di doversi occupare dell’oppressione delle donne dopo essersi occupati della “primaria” o “più importante” lotta di classe.
Ma queste tensioni non erano limitate alla Sinistra, esistevano anche all’interno del movimento femminista. Probabilmente uno dei miglior esempi di questo terreno di scontro è stato nel movimento pro-choice degli USA. Prima del caso Roe contro Wade nel 1973, la legge sull’aborto era considerata un punto da affrontare con un principio dallo stato allo stato. Le femministe si mobilitarono intorno al Roe contro Wade per constatare che l’aborto legale sarebbe stato garantito nel paese. Chi prevalse diede garanzie legali all’aborto nel secondo trimestre, ma la retorica della “scelta” e della “legalizzazione” lasciò molto di irrisolto per parecchie femministe.
E questa esperienza gettò le basi per ri-pensare l’idea di una universale, monolitica esperienza dell’essere donna così come essa è spesso espressa nelle tradizionali politiche identitarie. Femministe nere e “womanists” [il termine, a partire da Alice Walker, è passato a indicare le femministe di colore], per esempio, sostennero che focalizzarsi solamente sull’aborto legale oscurava il fatto che le donne nere negli Stati Uniti subivano sterilizzazioni forzate e spesso veniva negato loro il diritto di avere figli (vedi Roberts 1997). In più, le donne della classe lavoratrice affermarono che la “scelta” legalizzata è sostanzialmente priva di significato senza socialismo, perché avere l’aborto legale, ma inaffrontabile per i costi, non costituiva esattamente una scelta. Una vera libertà riproduttiva significava qualcosa di più che il semplice aborto legale per le donne dei ceti medio-bassi. Molte volevano avere figli ma semplicemente non potevano sostenere i costi del crescerli; alcune volevano un cambiamento nelle norme culturali e di più di una società che stabilisce con le leggi quali decisioni le donne debbano prendere sui loro corpi; altre volevano accesso alle cliniche per la salute riproduttiva, in parole povere, una cornice per la “ libertà riproduttiva” da inserire tra gli interessi delle donne, non solo strutturata sugli interessi delle donne bianche, eterosessuali e della classe media.
Intersezioni
Queste esperienze interne al movimento femminista e alla sinistra fecero emergere molte questioni per le femministe stesse. Come creare un movimento che non fosse concentrato sugli interessi della maggior parte delle sue componenti privilegiate? Come mantenere il nostro appoggio al socialismo senza essere sussunte dentro una politica che vede le questioni delle donne come secondarie? Come dovrebbe essere un’organizzazione politica basata su un impegno comune a far cessare la dominazione piuttosto che su una fittizia esperienza comune basata su alcune singole identità? A queste domande cominciarono a rispondere ampiamente feministe di colore, queers e sex radicali con la teoria dell’intersezionalità – una teoria critica della tradizionale classe e identità politica .L’intersezionalità parte dal presupposto che le nostre posizioni sociali in termini di razza, classe, genere, sessualità, nazione di origine, salute, età ecc non sono facilmente analizzabili l’una fuori dall’altra. Parlare di una universale esperienza di “donna”, per esempio, è problematico perché la “condizione di donna” è vissuta molto diversamente sulla base della razza, della classe, della sessualità e di un vario numero di fattori. Pertanto, un a-critico movimento femminista centrato apparentemente sulla “questione femminile” tende a riflettere gli interessi dei membri privilegiati di quella categoria sociale.
Analogamente, le nostre diverse collocazioni nella società e la gerarchia che esse configurano si intersecano in forme complesse e non facilmente separabili. Le persone non esistono come “donne”, “uomini”, “bianco”, “classe lavoratrice” ecc. in un vuoto di altre relazioni sociali più o meno strutturate. Per di più, questo sistema di sfruttamento e oppressione funziona in modo unico. Per fare due esempi abbastanza ovvi, la classe è una relazione sociale basata sullo sfruttamento del lavoro. Da socialisti, cerchiamo l’abolizione delle classi, non la fine dell’elite di classe sotto il capitalismo. Questo rende la classe unica. Allo stesso modo, l’idea di “orientamento sessuale” sviluppata nel 1800 con l’invenzione dell’omosessuale come tipologia di persona. Questo ha effettivamente creato un’identità al di fuori delle scelte preferenziali di genere nei / nelle partenrs, più o meno ignorando la miriade di altre vie in cui la gente organizza la sua sessualità (numero di partners, preferenze sessuali ecc). Ha anche effettivamente limitato l’identità sessuale a tre categorie: etero, omo, bisex come se non si potesse dare un’ampia gamma di attrazioni e la varietà nel genere umano. Parte del movimento di liberazione basato sulla sessualità sta problematizzando queste categorie per far sì che ognuno abbia una esistenza sessuale/sociale che sia vitale in quanto fattibile. Questo rende la sessualità unica.
Tali ineguaglianze strutturali e gerarchie si informano l’una dell’altra e si supportano a vicenda. Per esempio, il lavoro delle donne nella cura e nella crescita dei figli garantisce nuovi corpi alla più ampia industria sociale permettendo al capitalismo di continuare. La supremazia bianca e il razzismo permettono ai capitalisti di controllare più di un segmento del mercato del lavoro che può rifornire serbatoi di lavoro a basso costo. L’eterosessualità compulsiva rende possibile la politica della famiglia patriarcale, rinforzando il patriarcato e la dominazione maschile. E tutte le forme strutturate di ineguaglianza contribuiscono alla credenza nichilista che la gerarchia istituzionalizzata è inevitabile e che i movimenti sono basati su sogni utopistici.
Coloro che propongono l’intersezionalità, allora, affermano che tutte le lotte contro la dominazione sono componenti necessarie per la creazione di una società liberatoria. Non serve creare un totem come paletto che segni l’importanza al di fuori delle lotte sociali e indichi che alcune sono “primarie” mentre altre sono “secondarie” o periferiche, perché esse globalmente si intersecano e si sostanziano l’una dell’altra. Inoltre, la storia ci ha dimostrato che questo metodo di classificare le oppressioni divide, non è utile e, peggio ancora, mina alla base la solidarietà. Analogamente, quando organizziamo e sviluppiamo una pratica politica, possiamo spostarci, attraverso un’auto-riflessione, dai margini al centro delle nostre analisi per evitare l’inclinazione al privilegio che storicamente ha acceso tante divisioni nel femminismo e nella Sinistra.
Un buon esempio contemporaneo dell’intersezionalità nel contesto delle pratiche di movimento è Incite! Donne di colore contro la violenza. “Incite!” è un’organizzazione nazionale di attivismo di femministe di colore che portano avanti un movimento per porre fine alla violenza contro donne di colore e le nostre comunità attraverso un’azione diretta, dialogo critico e organizzazione dal basso. Una ragione per cui Incite! è fuori e contro altre organizzazioni anti-violenza è la loro analisi sistemica. Concepiscono le donne di colore che hanno subito violenza come viventi nelle “pericolose intersezioni” tra supremazia bianca, patriarcato, capitalismo ed altre strutture ed istituzioni oppressive. Piuttosto che ridurre semplicemente le esperienze all’individuale, riconoscono i sistemi che opprimono e sfruttano le persone e hanno strutturato il loro approccio in un modo che chiama al “ricentrare” le componenti marginalizzate, un approccio concepito come opposto al metodo dell’ “inclusività” basato su una singola identità o posizione sociale. Incite! Sostiene che l’inclusività si limita ad aggiungere una componente multiculturale all’individualistica organizzazione dominata dai bianchi così comune negli Stati Uniti. Invece, loro chiamano al ricentrare la struttura in cui è inserita la popolazione più marginalizzata. Tale spinta è ad assicurare che la loro organizzazione si indirizzi ai bisogni di chi storicamente è stato/a tralasciato/a dal femminismo, con la convinzione che ognuno trarrà beneficio dalla liberazione dei propri simili più marginalizzati, mentre invece il focalizzare l’attenzione sugli elementi privilegiati senza una categoria sociale specificata lascerà gli altri indietro (come negli esempi che abbiamo dato nella lotta per il voto e per la legalizzazione dell’aborto). Incite! Presta particolare attenzione sui bisogni della classe lavoratrice che è stata generalmente trascurata (sex workers, carcerati, transgender e tossicodipendenti). Centrando l’attenzione su queste categorie, si concentrano sulle persone che si trovano nei punti di intersezione più pericolosi dell’oppressione e dello sfruttamento, dunque affrontando il sistema nella sua interezza e non solo negli aspetti più visibili o avvantaggiati. In più, Incite! Concepisce lo stato come il maggior perpetuatore della violenza contro le donne di colore e cerca di costruire dal basso organizzazioni indipendenti e contro di esso. Gli anarchici potrebbero imparare molto da Incite! Circa l’importanza di indirizzarsi ai bisogni di TUTTI i settori della classe lavoratrice e il loro tentativo di esaminare la tendenza della sinistra a ignorare o mettere da parte gli interessi, i bisogni, le idee e la leadership delle persone che vivono nelle pericolose intersezioni del capitalismo, della supremazia bianca, del patriarcato ecc.
E in cosa l’anarchismo può essere utile alla teoria dell’intersezionalità?
Noi crediamo fermamente che questo processo di apprendimento segua due strade. Il che significa che mentre sintetizziamo la nostra pratica per includere questi elementi emersi a partire dal femminismo, il femminismo potrebbe beneficiare altrettanto dall’imparare dall’anarchismo a sua volta. Per noi i contributi degli anarchici all’intersezionalità appartengono a due ambiti prevalenti. Primo, l’anarchismo può fornire una base radicale da cui criticare le interpretazioni liberali dell’intersezionalità. Secondo, gli anarchici possono offrire un’analisi critica dello stato.
Troppo spesso chi usa un’analisi intersezionale ignora la singolarità dei vari sistemi di dominazione. Per un verso si articola una generale opposizione al classismo. Anche se crediamo che l’elitismo esista, spesso questa opposizione al classismo non riconosce le qualità peculiari del capitalismo e può approdare ad una posizione che sostanzialmente porta argomentazioni per una fine dell’elitismo sotto il capitalismo. Da anarchici, non ci opponiamo solo all’elitismo di classe, ma ci opponiamo alla stessa società basata sulle classi. Non vogliamo che la classe dominante ci tratti in maniera più carina all’interno di un sistema basato sull’ineguaglianza e lo sfruttamento (cioè il capitalismo). Noi vogliamo fare a pezzi il capitalismo e costruire una nuova società nella quale le classi non esistano più, il che significa che noi combattiamo per il socialismo. Gli anarchici, come parte del movimento socialista, sono ben attrezzati per criticare questa interpretazione liberale dell’intersezionalità (vedi specialmente Schmidt e van der Walt)
D’altro canto, da anarchici, siamo ben attrezzati per proporre la nostra critica allo stato. Lo stato, oltre a essere un complesso di specifiche istituzioni (come i tribunali, la polizia, corpi politici come senatori, presidenti ecc) è una rete di relazioni sociali. E lo stato influenza le nostre vite in una miriade di modi. Per esempio, coloro che sono stati detenuti spesso non possono essere assunti, specialmente se hanno commesso gravi delitti. Basta dare uno sguardo veloce alla razza e alla classe dei detenuti americani per constatare quanto l’intersezionalità possa essere usata come strumento d’analisi in quel contesto. I detenuti, lavoratori che sono stati condannati per aver scioperato o aver preso parte in azioni dirette e/o disobbedienza civile ecc hanno tutti specifici bisogni in quanto soggetti di una società che si basa su politici dominatori e soggetti passivi, dominati. E lo stato tende a inquadrare specifiche categorie di lavoratori basate sulla loro esistenza dentro le pericolose intersezioni che abbiamo menzionato prima. L’anarchismo può offrire alla teoria dell’intersezionalità un’analisi dei percorsi battuti dallo stato per governare le nostre vite tanto quanto altri sistemi istituzionalizzati di dominazione. E possiamo, naturalmente, discutere di abbattere un tale ordinamento per rimpiazzarlo con una forma sociale non gerarchica.
Rifiutando di aspettare
Per molti aspetti, gli anarchici hanno storicamente anticipato molte delle idee contenute nella teoria dell’intersezionalità. Inoltre, l’anarchismo in quanto filosofia politica – e in quanto movimento contro tutte le forme di dominazione strutturata, coercizione, e controllo – sembra calzare bene ad una pratica intersezionale. Sfortunatamente, abbiamo argomenti ancora debilitanti su quale gerarchia sia “primaria” e dovrebbe essere prioritaria sulle altre. Come in passato, questo porta a una facile divisione e ad una mancanza di solidarietà (immagina che ti sia detto di mettere da parte alcune battaglie che ti coinvolgono direttamente per la “giusta” o “primaria” battaglia!). Inoltre, la distruzione di ogni gerarchia strutturata può avere un effetto destabilizzante sul resto, in quanto la semplice esistenza di alcune di queste divisioni sociali serve a naturalizzare l’esistenza di tutte le altre gerarchie.
Abbiamo provato a spiegare l’origine della teoria dell’intersezionalità in seno al femminismo e a tratteggiare i suoi contorni. Forse, cosa più importante, abbiamo tentato di metterla in relazione alla pratica politica e alle lotte di movimento in maniera tale da evitare una completa astrazione e teorizzazione al di fuori della pratica. Speriamo che un numero maggiore di anarchici ne venga a conoscenza e la metta positivamente in pratica nel nostro lavoro politico. Da ultimo, è nostra speranza che un numero sempre maggiore di persone appartenenti a gruppi marginalizzati si rifiutino di aspettare, che riconosciamo il valore di tutte le lotte contro l’ingiustizia e la gerarchia nel qui ed ora e che costruiamo una pratica di riflessione basata sulla solidarietà e il mutuo soccorso invece di prescrizioni che dividono su quale lotta sia “primaria” e quali, per estensione, siano “secondarie” o “periferiche”. Piuttosto, sono tutte interrelate e abbiamo ottime ragioni per rifiutare di aspettare la fine della “rivoluzione” per occuparcene!
[Traduzione di Panta Fika]
—>>>Credits foto: Alias, Rebel Kids, Berlino