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La galera per gli uomini prima della fine di un processo?

Da Abbatto i Muri:

Va bene. Adesso è chiaro dove vuole andare Repubblica e chi la segue/legge/ispira. Dopo la lettera della vittima/prigioniera ecco il punto. Vogliono l’aumento di pena per lo stalking di modo che sia consentita la custodia preventiva e comunque la galera invece che domiciliari dopo la condanna. Oppure vogliono la modifica del decreto svuota/carceri che dovrebbe decidere giusto in questo caso di fare una eccezione e di usare per le persone accusate di stalking, sulla base della loro pericolosità sociale che immagino sia relativa al sesso degli accusati (varrebbe anche per le donne?), la stessa regola che vale per chiunque sia accusat@ di un reato che preveda una pena superiore ai 4 anni.

Quella di decidere che un accusato di stalking – accusato e non condannato – sia da rinchiudere per evitare che ammazzi una donna, seguendo il consiglio di onorevoli della Lega che, fosse per loro, aspirerebbero anche a pene perfino più giustizialiste, ritenendolo colpevole sulla base di una casistica evidenziata sui quotidiani, senza attendere neppure l’esito del processo, a me sembra una decisione davvero degna di un paese che abdica alla galera ogni possibile soluzione in fatto di violenza sulle donne.

Gli uomini già denunciati che hanno poi ucciso le proprie ex fossero stati in carcere avrebbero risolto la propria ossessione? Avrebbero cancellato il proprio assillo? O non sarebbero usciti poi più arrabbiati di prima con l’unico pensiero di eliminare dalla faccia della terra colei che vedevano come rovina della propria vita? E se poi nel frattempo, dopo il processo, quest’uomo risultasse innocente, fosse assolto, chi lo risarcisce degli anni passati in galera?

Si abdica al carcere perché il sistema punta all’accoppiata protezione e punizione. La protezione per le vittime sarebbe assegnata ai tutori e case rifugio che approfittano di ogni emergenza per ricordare che di finanziamenti per loro neppure l’ombra. E se quei finanziamenti li vogliono, tra l’altro, non possono fare altro che diventare succursali di questura dove per essere ospitata, con discrimine per prostitute, trans e straniere senza permesso di soggiorno, devi denunciare, vivere da prigioniera, senza che ti sia realmente garantito un futuro con casa e lavoro che ti aiuterebbe a ricominciare senza dover dipendere da nessuno.

La punizione delegata al carcere sappiamo bene quanto non serva a niente, ché invece che rieducare ti fa incazzare ancora di più e poi ti ritrovi con gente inferocita in giro per le strade che pensa di essere stata incarcerata senza alcun motivo. Perché di fatto, quel che non si capisce, è che la faccenda dello stalking, prima di essere compreso a fondo come reato, non si capisce neppure in termini culturali. Se io dico di no, non mi cercare, ad una persona che è in grado di intendere e volere e di rispettare questo mio desiderio non ho alcun problema. Se quella persona immagina di stare dentro un film romantico in cui tre mazzi di fiori e venti telefonate dovrebbero aiutarlo a riconquistare la sua bella è la mentalità che va cambiata in senso generale. Inutile mettere in carcere un uomo che non ha capito che il punto cardine delle relazioni è sempre la consensualità soprattutto in un contesto in cui l’autodeterminazione delle donne viene costantemente violata innanzitutto dallo Stato.

Se poi, come talvolta succede, l’accusa di stalking arriva perché dopo una separazione invece che stare ad accettare i diktat della ex moglie, la quale da te vuole il mantenimento per i figli ma ha difficoltà a farteli vedere, provi a chiamare qualche volta per parlare con tuo figlio, c’è poco da capire  su come possono andare queste cose. Si aggiunge solo liquido infiammabile a quello che può diventare un fuoco e invece che intervenire, stabilire limiti, aiutare a fare in modo che in quella situazione gli adulti si riapproprino di un minimo di buon senso, si finisce per dare sponda a lei che potrà insistere nella sua versione della storia ispirata da un “i figli hanno da stare soooolo con la madre” (beddamatre santissima!) con la denuncia allegata della serie “lui è violento perchè vuole separare un figlio da sua madre” (se vuole vederlo più di due volte ogni 15 giorni), e si finisce per dare addosso a lui, che sarà respinto nell’angolo in cui si spingono gli uomini che hanno un bollino di colpevolezza preventiva in fronte, prima ancora di qualunque giudizio in tribunale o pronunciamento.

Nel caso in cui sia lui, ché può di certo accadere, a usare i figli per tartassare la ex moglie al punto che talvolta arriva perfino a ucciderli, l’errore, come dicono certune: starebbe in una legge, quella sull’affido condiviso (che a mio modesto avviso dovrebbe anzi essere applicata di più per consentire la condivisione del lavoro di cura tra uomini e donne) o starebbe nell’incapacità di gestire una situazione di violenza delegando tutto al sistema repressivo?

Non è forse lo stesso sistema repressivo, quello che stigmatizza vite, quello che realizza prigioni morali per chiunque, che, per esempio, in Svezia è stato causa di una tragedia? Jasmine, attivista sex worker, è stata privata dei figli dallo Stato perché attivista e sex worker. I figli sono stati affidati a lui che è un violento il quale infine l’ha uccisa. Ed è dunque quel genere di potere che vogliamo dare allo Stato? Il potere di decidere non più secondo prove circostanziate ma secondo una morale dominante che è quella che “mamma santa è meglio” e  “i padri che vogliono vedere i figli sono tutti stalkers“?

La legge dice già che se sei condannato i figli non puoi neppure vederli in cartolina, anzi, per certe accuse la potestà viene rimessa in discussione subito. Ma quello che in certi casi si pretenderebbe è che i padri siano privati di libertà e diritti anche quando sono semplicemente accusati. E la gogna contro di loro insiste anche nel caso siano assolti. Dunque quel che si sostiene è che dovrebbero essere considerati colpevoli a prescindere. Se non bastasse quello che la legge prevede già c’è la nuova proposta di legge che dovrebbe correggere e integrare, credo, la legge sull’affido condiviso, che amplia e specifica meglio giusto quel punto. I figli non possono certamente stare con genitori violenti.

Volendo comunque ragionare di uomini separati che alla fine uccidono, io rifletto: se lui si sente privato di qualcosa, se vive il lutto della separazione, se non riesce ad accettarla, se pensa perfino di essere stato escluso dagli affetti familiari, allontanato dai figli, in cosa esattamente il carcere può aiutarlo a non coltivare sentimenti d’odio e di vendetta nei confronti della ex? Cosa gli impedirà, una volta uscito fuori, di andare a fare una strage per risarcirsi di quello che considerava di sua proprietà e che ritiene gli sia stato tolto? Perché per prevenire un problema dobbiamo sapere qual è il problema e se continuiamo a guardarlo dalla parte di chi proclama mezze verità, ove ogni analisi della complessità è concepita come presunta “giustificazione” di un assassino, quel problema non lo guarderemo mai approfonditamente e non riusciremo a risolverlo.

Oltretutto, vorrei dire, che nel corso dell’ultimo anno, tra le #48 vittime di femminicidio [più altre vittime che vengono registrate da altre fonti in elenco giusto perché donne (e non capisco il perché) e alcune le cui cause dell’assassinio non sono note] ovvero quelle uccise per possesso, perché considerate una proprietà e in rapporto al loro ruolo di genere, tra queste tante vittime, dunque, di ex mogli e situazioni che potevano coinvolgere i figli ce ne sono relativamente poche. Molte invece le situazioni in cui un uomo non accetta la separazione, perseguita la donna, lei lo denuncia per stalking, dopodiché viene uccisa.

E dunque il punto è: come fare perché una persona ossessionata dall’idea di voler tornare con la ex possa distogliere quel pensiero, guardare avanti, aprirsi a nuove prospettive, guarire socialmente, emotivamente, affettivamente? Come puoi togliergli di mano l’arma emotiva che servirà a distruggere un’altra vita e infine anche la propria?

La maggior parte di questi uomini pensa di non avere più nulla da perdere, ritiene sia stato tolto loro tutto ed è lei che viene considerata responsabile di questo malessere profondo che si insinua e diventa motivo di vittimismo dal quale non riesce a smarcarsi per andare avanti. Chi uccide si suicida e se gli dici che finirà in carcere domani, addirittura prima di un processo, nel caso in cui maturasse sentimenti astiosi e di vendetta, lui ucciderà ancora prima che qualunque denuncia possa essere fatta.

Perché del gesto di quest’uomo voi immaginate la freddezza, la precisione chirurgica, la mostruosità e io so invece che si tratta di disperazione pura, di follia con una sua logica circostanziata, di uomini che se non li aiuti a rinascere non c’è luogo in cui tu possa nasconderti per sopravvivere. Se non salvi lui non puoi salvare te. Se non salvi lui non puoi salvare lei.

Se vuoi impedire un crimine devi immedesimarti nella testa di chi potrebbe compierlo. Devi sapere dove può essere adeguato intervenire per disinnescare, e tutto ciò di certo non può farlo lei, la vittima, che è morbosamente travolta da un legame comunque viziato che la coinvolge nelle sue dinamiche di codipendenza psicologica, non è lei che può aiutarlo perché sarebbe, quello si, un delirio di onnipotenza. Lei va aiutata allo stesso modo. Non rinchiusa o tutelata. Aiutata ad aiutarsi. Bisogna darle gli strumenti affinché lei stessa possa scegliere come cambiare in meglio la sua vita. Serve dunque che si ripensi alle politiche antiviolenza e si ragioni, come si scriveva qui, sulla possibilità di prestare aiuto, agire la cultura, dare nuove chance per togliere l’arma a chi diversamente la userà contro qualcun@.

Chiuderlo in carcere, prima o dopo che sia, tra l’altro volgendo la giurisprudenza italiana in direzioni sempre meno garantiste, non serve assolutamente a niente. Non puoi chiuderlo in carcere per sempre e di sicuro non puoi condannarlo a morte o impiccarlo sulla base di una accusa.

Le donne dunque non muoiono perché quegli uomini non sono in galera. Inutile approfittare di ogni delitto per invocare leggi dure, più securitarismo e soluzioni autoritarie. Le donne muoiono perché l’approccio al problema è totalmente sbagliato. Muoiono perché si va avanti per pregiudizi, dicotomie rigide, miti e dogmi un po’ destrorsi che nelle fasi di rieducazione e azione controculturale immaginano di poter rivolgere le punizioni contro gli accusati senza che mai siano presi in considerazione i contesti, assai più ampi, che includono le stesse vittime, le famiglie, la società tutta.

Tolto via il mostro, seppur catartico, data soddisfazione al pubblico inscenando esecuzioni reali o simboliche, quel che rimane non è sano. Quel che rimane coltiva, tiene in serbo, contiene in se’ tutte le tracce che porteranno ad una nuova “mostruosità”. Perché il mostro non è fuori da noi. Se così vogliamo metterla, il punto è che: il mostro siamo tutti/e noi. Dunque rinchiuderemo in carcere tutta la società?

Ps: con ciò non intendo fornire affatto una sponda a chi desidera vedere coccolata la propria azione ossessiva e violenta. Quel che io faccio è osservare e mettere in circolo soluzioni di buon senso. E il buon senso non giustifica i violenti ma non necessariamente si schiera con soluzioni fasciste, paternaliste, giustizialiste e patriarcali che non servono a salvare le vittime.

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