Il 9 marzo scorso, in Bolivia è stata varata una legge sul femminicidio che, oltre a prevedere fino a 30 anni di reclusione come massimo della pena, stabilisce anche l’istituzione di tribunali e pubblici ministeri speciali ed una task force della polizia, i cui poteri vengono rafforzati per contrastare più efficacemente la violenza sulle donne. L’approvazione della legge da parte del governo di Evo Morales è stata salutata con entusiasmo in Italia, soprattutto da una sinistra che non ha mancato di sottolineare il ritardo del belpaese in materia e che, all’indomani delle elezioni, si è affannata a dimostrare di voler colmare il gap. Agli e alle ammirator* facilmente entusiasmabili di Evo Morales è però sfuggita la protesta di Mujeres Creando, collettivo anarco-femminista impegnato da più di venti anni non solo nel contrasto alla violenza di genere, ma anche nella lotta all’omofobia, alla povertà, nonché alle pratiche autoritarie interne alla sinistra boliviana. In particolare, Maria Galindo, una delle fondatrici di Mujeres Creando, ha denunciato la piega securitaria della legge medesima, che costituisce il presupposto, o forse il pretesto, per finanziamenti a pioggia alle forze dell’ordine e per un rafforzamento dei poteri delle stesse: questa legge riposa sopra questa polizia per rifornirla di macchine, di computer, di telecamere, di caschi… Noi manifestiamo mettendo in discussione la legge, fondamentalmente per il fatto che nel suo insieme, attraverso la creazione di una Task Force contro la violenza all’interno della Polizia, torna a dare potere, denaro e tutela a uno degli organismi più corrotti, più violenti, più maschilisti della società boliviana, come è la Polizia. Galindo continua sottolineando il carattere propagandistico e ipocrita della legge, la quale servirebbe in maniera assolutamente demagogica per coprire il carattere machista e violento dei membri del Movimento Socialista.
Inoltre, le attiviste boliviane hanno protestato, e continuano a farlo, per il fatto che la legge sia stata varata senza consultare chi da anni è impegnat@ nella lotta alla violenza di genere, ma attraverso un meccanismo tanto antico quanto odioso, cioè la cooptazione delle esponenti di associazioni femminili che, nel dare un acritico sostegno al governo e alle sue politiche, di fatto egemonizzano la scena politica e rivendicano a sé il diritto di essere rappresentative di tutte le donne. Ne è riprova la risposta delle istituzioni a chi, subito dopo la promulgazione della legge, ha osato esprimere il suo disaccordo: Spinte, urla, pugni, si sono visti nella mattina di questo sabato in uno degli angoli di accesso alla Piazza Murillo, quando il collettivo Mujeres Creando provava ad entrare al Kilometro 0 per far conoscere la sua protesta al Presidente.
In Italia, all’indomani della nascita del per così dire “nuovo” governo, uno pseudo-dibattito sulla assoluta necessità di una legge di contrasto alla violenza di genere ha impazzato rimbalzando dai giornali, ai salotti televisivi, ai social network, ripetendo, del tutto inconsapevolmente, le medesime parole d’ordine la cui ipocrisia e ambiguità erano state denunciate dal collettivo Mujeres Creando in Bolivia qualche mese prima. Anche in Italia, la risposta istituzionale al sessismo e alla violenza di genere sembra avere una connotazione decisamente securitaria che, ben lungi dal promuovere processi di disidentificazione dai modelli dominanti e di contro-soggettivazione, affida allo Stato la tutela delle donne e alle forze delle ordine il ruolo di garanti di una sicurezza esercitata attraverso il controllo. Anche in Italia, le voci ritenute degne di ascolto provengono da una elite vicina al governo e cooptata dallo stesso, come è avvenuto per la nomina di Isabella Rauti a consigliera per le politiche di contrasto alla violenza di genere e al femminicidio. Una elite tutta rosa che, mentre è impegnata a disquisire sui centimetri di carne ignuda tollerabili e ad invocare la galera, poi non mette bocca, se non per dare l’approvazione, su leggi, decreti e provvedimenti che aggravano condizioni di vita precarie e limitano l’autonomia delle donne, soprattutto di quelle che appartengono ai ceti medio-bassi, risospinte in casa, ai lavori di cura non retribuiti, in una fase di dismissione del welfare pubblico.
Il caldo estivo, come di consueto, assopisce le forze e fa calare il sipario su temi ritenuti di primaria importanza fino a qualche giorno prima. Così, il dibattito si è spostato da cose come l’inasprimento delle pene per il reato di femminicidio al valore culturale e sociale dei concorsi di bellezza. Che il riposo estivo porti con sé, oltre a legittime distrazioni, anche il tempo per riflettere su una lunga intervista rilasciata nel 2012 da Maria Galindo ad upsidedownworld.org Forse si riusciranno a scovare interessanti analogie con la situazione italiana. La traduzione dell’intervista qui
[scritto da Panta Fika]