Accade per strada e in rete. Accade che lui è un fotografo spagnolo, ma è ad Istanbul, dove fotografa e racconta su un blog le rivolte scatenate dalla decisione del governo turco di dar luogo all’abbattimento dei seicento alberi di un parco pubblico per costruire una moschea e un centro commerciale. Lei è italiana, conosce la lingua spagnola, anche se non l’ha mai studiata. L’ha imparata per le strade sudamericane e sulle Ande, il suo non è nemmeno castigliano doc, non è proprio la stessa lingua del fotografo, ma latinoamericano, con un forte accento peruviano. Una gringa bionda che parla peruviano. Adesso non sta lavorando, da anni è una precaria dismessa dallo Stato in estate, quando non serve più. Ma a lei, tutto sommato, non dispiace nemmeno tanto, così ha più tempo per la militanza. Il lavoro, dopo tutto, è sempre stato e continua ad essere una forma di controllo sociale con cui si tengono impegnate le masse, impegnate a produrre, per intendersi, e poi, tutt’al più, a consumare nei centri commerciali.
Accade che lei incontra in rete il blog del fotografo, che ha fatto una serie di ritratti a quei e quelle manifestanti che Erdogan ha definito con disprezzo çapulcu, saccheggiatori. Lei ha una foto scattata qualche giorno prima al Roma pride, in cui regge un cartellone malmesso dove ha scritto: we are all çapulcu, Istanbul you’re not alone. D’impulso commenta sul blog: yo también soy çapulcu, ho una foto da çapulcu, la vuoi? Lui risponde, si scambiano la foto che arriva in Turchia e qualche mail. Decidono così di collaborare. Lui fotografa e racconta quello che vede e che vive a Istanbul, lei traduce in italiano.
Non si conoscono, ma decidono di collaborare, perché entrambi, autonomamente, hanno capito una cosa: c’è un filo rosso che unisce la Turchia, la Spagna, l’Italia, ma anche il Brasile, dove nel frattempo è scoppiata un’altra rivolta. Quel filo rosso è il biocapitalismo, o, forse, come dice il fotografo, la sua caìda, che noi çapulcu stiamo pagando con le nostre vite. Che si tratti di un parco pubblico abbattuto per far spazio ad un centro commerciale e ad una moschea come a Istanbul, di una valle devastata per una linea ad alta velocità che non serve come in Valsusa, di zone abitate da indigeni sgomberate con le ruspe per costruire impianti per grandi eventi sportivi come a Rio de Janeiro, pur nella specificità di ogni caso, il meccanismo è sempre mosso dai processi di accumulazione capitalistica, che lucrano sulle grandi opere a beneficio di pochi e a danno dei tanti e delle tante çapulcu di ogni latitudine.
La repressione delle proteste non si fa mai attendere ed è sempre durissima. Loro hanno i manganelli, gli spray al peperoncino, il cs, i cannoni ad acqua, i proiettili di gomma, ma anche quelli veri. Noi abbiamo i corpi, le intelligenze, i saperi, la rabbia, ma anche le passioni felici e i desideri. Sappiamo che la lotta sarà lunga e dura, ma alla fine dovranno desistere. Noi siamo attrezzati e attrezzate meglio e quindi saremo più resistenti. Noi continueremo a resistere all’assalto vorace e violento del capitale alle nostre vite, continueremo a meticciare lingue, corpi, intelligenze, desideri e lotte e a contaminarci contro ogni tentativo di riconduzione ad ordini e norme imposte con violenza dalle leggi di mercato che saccheggiano gli spazi comuni e la cooperazione sociale per metterli a valore.
Chi saccheggia, espropria e violenta spazi, corpi, saperi, desideri e intere vite è il biocapitalismo e noi continueremo a denunciarlo, a resistere e ad opporci ad ogni censura, silenzio o narrazione mistificatoria, come le improbabili e improponibili favole dal lieto fine dei media mainstream. Le notizie dalla Turchia, come quelle dal Brasile, quand’ anche appaiano sulle maggiori testate nazionali, sono ricacciate sempre più a fondo pagina, relegate sempre più in basso e sottratte all’attenzione comune fino a scomparire. In tanti, attraverso i social network, continuano invece a mantenere viva l’attenzione: chi filma, chi fotografa, chi scrive, chi traduce. Anche noi continueremo a farlo qui: http://geziozgurit.blogspot.it
(scritto da Panta Fika)